Il pianista Michael Gettel (nato nei pressi di Denver, in Colorado) a tredici
anni era già il trombettista della Symphony Orchestra dello stato. Una volta laureatosi,
potè dedicarsi alla musica e iniziò a comporre brani per solo pianoforte. Nel 1988 il suo
mestiere di insegnante lo portò a Seattle e lì, sulla baia di San Juan, nacque il suo primo
disco.
La San Juan Suite è un tour de force spettacolare ed
emozionante di pianismo classico. Gettel suona il pianoforte come se fosse una chitarra, con la stessa
elasticità e frenesia. L'obiettivo è quello di catturare la sensazione dietro un paesaggio, ma
in realtà Gettel finisce per metterci molto di più, spesso arrivando a dare del panorama
una fotografia in musica (resa ancor più nitida dall'uso, per quanto discreto, dei suoni naturali).
La Suite inizia nel modo più fragoroso, con la tumultuosa armonia di Sucia,
propulsa da un crescendo travolgente e alimentata da un'imitazione del volo degli uccelli. Non meno
incalzante è Orcas, che è anche il brano più jazzato.
Rocco Stilo scrive:
Il disco e` stato riedito (Narada, 1998) con l'aggiunta di due tracce
aggiuntive (ovviamente anch’esse di «piano solo») che, secondo Gettel,
vanno a completare la suite. Il primo brano, «The Kelpie» (se non vado
errato un corrispettivo d’oltreoceano del mostro di Loch Ness), dopo un
inizio che appare incerto e in sordina, si distende con disinvoltura,
sposando il discorso musicale del disco (durata 4:49). Si direbbe però
qualitativamente superiore il secondo pezzo, «Watercolors» (3:56), dove
la mano di Gettel rievoca più felicemente un incanto intimistico e
pensoso. Forse è addirittura il brano migliore del disco. A scanso di
equivoci preciserò che il titolo è lo stesso della prima edizione, e che
il disco non va pertanto confuso con un CD dal titolo: «San Juan Suite
II» (EMD/Narada, 1996), di cui nel tuo sito non trovo traccia, neppure a
livello di semplice menzione, ma che neppure io ho ascoltato. Da
informazioni trovate in rete risulta non trattarsi, come si potrebbe
ritenere, di un altro «piano solo» (figurano anche Randy Sherwood alla
voce e Sandin Wilson al «basso senza tasti»), e che contiene 9 brani, a
quanto sembra tutti inediti.
Tutt'altro che leziosa come gran parte della new age, la musica di Gettel
è carica di ritmo, scoppia di salute, è un mare in piena. Gettel rifugge dalle atmosfere
idilliache del mondo rurale, ha l'entusiasmo e la frenesia dell'urbe.
Non mancano momenti più introversi, dalla dolce
Whalesong alla dissolvenza minimalista di Drifting che chiude l'album. Ma la prova
più intensa del suo stile forbito e intricato è forse il carillon iridescente di Summer
Rain.
In seguito Gettel si è progressivamente avventurato nella musica
per piccolo ensemble, ottenendo risultati che sono al tempo stesso lirici e spettacolari.
Intricate Balance orchestra le esuberanti fughe pianistiche di
Gettel per elettronica e duetti o trii da camera. Ma l'uso del sintetizzatore è ancora un po' rozzo e
gli strumenti acustici danno fastidio più che respiro al suo pianoforte. L'album sembra vagare
senza un obiettivo, dal pop cadenzato di When Two Hearts Meet e Prayers On The Wind
all'austera musica da camera di Portrait. I temi della title-track e di Through Zach's Eyes
fanno capire che qualcosa dell'impeto giovanile di San Juan Suite è andato
irrimediabilmente perduto, anche se sostituito da un melodismo più lirico.
Return (Sona Gaia, 1990) annovera il tema cantabile di
Flight per piano e oboe.
Places In Time, ispirato dai suoi ricordi, eccelle ancora nei
panorami, sia quelli umili di River Run sia quelli epici di Winter's Twilight, grazie anche
all'accompagnamento di Nancy Rumbel all'oboe e Kostia e David Arkenstone al sintetizzatore.
Skywatching vanta un numero ancora superiore di ospiti di
riguardo, da Rumbel al chitarrista Paul Speer, e una sezione ritmica di tutto rispetto. Lo spiegamento di
mezzi culmina nel duetto con David Lanz, First Snow, ma il pop di maniera domina ormai
incontrastato, da Anasazi Road a Scent Of Rain. Il pianoforte è messo in secondo
piano dal sintetizzatore. Il soffice pop-jazz della title-track e Where The Road Meets The Sky
puntano verso un futuro di corrivo divulgatore di se stesso. Gettel approda pertanto proprio alle
banalità new age da cui il suo primo disco era del tutto esente.
The Key è una raccolta molto personale, benché
Gettel si faccia ormai accompagnare da un esercito di amici. Per quanto lo spirito delle dediche sia
sincero, la musica è ancora troppo generica per commuovere davvero Soltanto nei momenti di
raccoglimento di Glimmer Of Hope e Light Of A Candle Gettel riesce a coinvolgere.
Troppo superficiali invece i motivetti scontati di Turning Of A Key e When Hearts
Collide e i loro arrangiamenti praticamente programmati. Gli esperimenti con il canto e l'hip-hop
confermano lo stato confusionale in cui brancola la sua ispirazione.
Più riuscite tutto sommato le impressioni casuali di The Art of
Nature, colonna sonora per un video di paesaggi naturali.
Se non altro, Gettel vi spazzola tutto il suo
scibile, dalla melodia delicata di Light On The Land che passa di strumento in strumento alla
romantica ninnananna di When All Is Quiet, portata da un etereo canticchiare,
alla musica ambientale di Shelter.
Ancora una volta
la parte del leone la fanno però le canzoni grintose, sia rock (Watershed) sia fusion
(Fire From The Sky), con la chitarra elettrica sempre più vispa e assordante.
A differenza di gran parte dei pianisti new age, piuttosto sprovveduti,
Gettel non ha mai sacrificato la tecnica. Le sue musiche sono semplici e liriche, ma tutt'altro che banali. Il
pianista non ha però mai saputo ripetere il miracolo del primo lavoro, e il musicista elettronico
non ne è minimamente all'altezza.
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