Sugarsmack were the vehicle for Fetchin Bones' vocalist Hope Nicholls, one of the most extraordinary voices of her generation. Top Loader (1993), assembled with help from Pigface's Martin Atkins, came through as a catalog of terrifying neuroses, mising industrial music, rap, heavy-metal, blues, acid-rock, and conveyed in her visceral, guttural, demonic style that fused Patti Smith's hysteria and Lydia Lunch's depravation.
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Hope Nicholls si era imposta con i Fetchin Bones fra le massime cantanti rock di tutti i tempi. Per le sue doti canore venne reclutata anche da Martin Atkins nei Pigface.
Sotto l'egida dello stesso Atkins, Nicholls mette insieme una formazione per esaltare il suo canto, un po' come fece Janis Joplin con i Big Brother. Gli Sugarsmack (il bassista Aaron Pitkin, il batterista John Adamian, la percussionista Deanna Gonzalez e il chitarrista Chris Chandek) esordiscono con l'EP Zsa Zsa (3AM). La title-track è una festosa fanfara intrisa di stilemi funky, hip-hop ed heavymetal. La sua voce ha modo di sbizzarrirsi come una bambina in un parco di divertimenti.
Quel brano, sorprendentemente lontano dal sound domestico e rurale dei Fetchin Bones, non fa che anticipare il rap spettacolare di Top Loader (Invisible, 1993), un'opera complessa e violenta, che mescola lo sperimentalismo più acceso di marca "industriale" con una cantabilità nevrotica. Lo zoccolo duro del disco è rappresentato dal boogie "industriale" di Hey Buddy Boy e Bring On The U.F.O.s, brani sfigurati da rumori alieni, con le distorsioni e i singhiozzi supersonici delle chitarre in primo piano a duettare con il blaterare petulante della cantante. La vera indole di Nicholls è quella più demoniaca, un'esasperazione della verve prorompente di Patti Smith, che viene alla luce quando Nicholls cavalca come una strega le folate di violenza alla Ministry di Pissed Off.
È una prassi che si sublima in My Monster, con Nicholls nei panni della ragazzina perfida/annoiata/sguaiata e le chitarre che battono un tempo velocissimo e un clima burrascoso di eventi sonori marginali. Le ambizioni intellettuali trasformano questo programma barbaro ed eversivo nella geniale Pokey: da un lato il brano è una danza rituale un po' robotica con una voce maschile e un coro femminile che riecheggiano i Talking Heads di Psycho Killer, dall'altro s'innestano all'improvviso un riff ciclopico e martellante e la cantante nel suo registro da tigre.
All'altro estremo il complesso si permette un paio di lunghe parentesi psichedeliche, ovvero Seven Seas, una sorta di messa psichedelica (con tanto di accordi "liturgici" d'organo) sovrapposta a una piece d'avanguardia (con tanto di disturbo radiofonico alla John Cage), e Baby Snake Eyes, con una declamazione da thriller su sfondo ancor più disorganico.
Infine Nicholls ingaggia una serie spettacolare di rap "creativi", accompagnati da fraseggi arabici (Boomerang), tribalismi house-equatoriali (Freak), metronomie industriali (B.L.A.S.T.) e crescendo bluesrock (Swindle).
Entusiasmante, compatto, innovativo, questo disco annovera due/tre brani da antologia, entra nel repertorio della migliore musica industriale dell'anno, costituisce una significativa novità nell'ambito del canto femminile, ed è uno dei migliori dischi di "rap" (fra tante virgolette) di sempre.
Lo stile canoro di Nicholls è diventato una metamorfosi mozzafiato di personalità, di travestimenti, di registri, un incrocio fra la Madonna più petulante, la Patti Smith più isterica, la Lydia Lunch più depravata, la Joan Jett più arrabbiata, una nasale cantante country e una ruggente cantante nera. Il suo registro è un concentrato di registri eterogenei fusi in uno stile altamente emotivo. Gli altri Sugarsmack non sfigurano, grazie alla loro capacità di far coagulare jam disordinate in blocchi di roccia, in piattaforme ideali di lancio per cotanta cantante.
Nicholls, che nella sua carriera non ha mai sbagliato un disco, si è ricostruita una personalità artistica.
Le sue canzoni sono spettacolari tour de force vocali, e quanto più forte è la musica tanto più fantasiose sono le sue escursioni canore, secondo una regola che poche, grandi cantanti hanno saputo far loro. Nicholls, l'unica cantante in circolazione il cui ruggito possa far concorrenza alle distorsioni delle chitarre e alle tempeste delle rhythm-box, sta probabilmente definendo il ruolo del canto nell'era della musica industriale.
Il mini-album Spanish Riffs (Yesha, 1995) è invece una prova deludente. Tanto lo stile torturato del chitarrista Chris Chandek quanto la voce sgolata di Nicholls non sono al massimo della forma. Acorn, la canzone di punta, sembra dei Public Image. Soltanto in Creme Horn il gruppo carica a velocità boogie e la tigre lancia qualcuno dei suoi ruggiti, ma anche quella canzone è troppo concettuale, con Nicholls che cincischia al sassofono. La cantante è davvero esagitata in Fishnet, ma questa volta è il gruppo che sonnecchia. Stuff, un blues per bambina capricciosa, mette in luce il lato più psicopatico della cantante, allieva di Lydia Lunch, non di Janis Joplin.
Tank Top City (Sire, 1998) è uno strano concept: ogni brano è dedicato a un presidente degli USA. I Sugarsmack sono purtroppo sempre più un gruppo di musica rock e sempre meno un gruppo sperimentale di hip hop industriale. Tanto la chitarra quanto il canto sono sempre meno feroci. Il gruppo è forse alla ricerca del successo di classifica, ma finisce per perdere la propria personalità. Le canzoni migliori sono quelle in cui imitano qualcun altro: la Brown Sugar dei Rolling Stones in Josephine, i Blue Cheer in Rush. Un tempo i Sugarsmack avrebbero fatto sfaceli di canzoni-rap come Venus.
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