L'arpista svizzero Andreas Vollenweider (Zurich, 1953), riprendendo le
intuizioni del francese Alan Stivell e dell'americana Georgia Kelly, è diventato una delle star della
new age con una serie di album forbiti ed eterei, ipnotici e sognanti, che sono debitori nei confronti del
jazz (l'improvvisazione libera e fluente) e della classica (i timbri accuratamente studiati).
Gli esperimenti naif del primo disco, Eine Art Suite, spaziano da
una sonata pastorale per ocarina, chitarra e arpa (The Shepherd) a un'incalzante ballata folk
(Little Boy And The Mirror), da un crescendo solenne e marziale (The Gate Within The
Gate) a un austero corale per organo e ocarina (A Walk With My Father).
Il successivo Pace Verde applica il suo raffinato senso
dell'arrangiamento a un ritmo ballabile e a una melodia facile, in tal modo coniando quello che
resterà il registro maggiore della sua musica.
All'insegna del ballabile salottiero si svolge infatti la fantasia Behind
The Gardens, con le uniche aggiunte di un vocabolario multi-etnico, di una sensibilità
più jazz e di una timbrica ancor più cristallina. In un'alternanza fluente e lussureggiante
di effetti elettronici, ritmi sincopati, melodie sintetizzate (Behind The Gardens), arpeggi vellutati
(Pyramid), frenesie tropicali (Sunday), stornellate andine (Micro-Macro),
malinconie parigine (Skin And Skin), Vollenweider sciorina un repertorio pressoché
infinito di banalità musicali, ma nella maniera asettica e frigida che distingue la musica classica
dalla musica leggera.
Caverna Magica accentua i toni mistici ed estatici che da sempre
infestano le sue piece. Per distillare la sua pozione Vollenweider si serve di una fusion che accoppia il
più corrivo jazz-rock da cocktail lounge (Mandragora) con cantilene e cadenze di
ascendenza ora giapponese (Lunar Pond), ora mediorientale (Schajah Saretosh), ora
brasiliane (Belladonna), ora caraibiche (Angoh), ora andine (Huiziopochtli), nel
segno di ipocrisie panetniche e zen. Ideale colonna sonora per comitive di yuppie in campeggio all'estero,
l'excursus terzomondista di questa suite non ha spontaneità o autenticità, ma soltanto
freddo calcolo effettistico.
Più riflessiva e misteriosa (Stone), la musica di White
Winds indugia in suspence da rituali magici o da processioni zen, imitando talvolta suoni orientali
con l'elettronica o le percussioni (Brothership), ma trovando la sua forma ideale nei temi sereni e
spigliati, "jazzati" in modo disinvolto e consumato (Hall Of The Stairs e Glass Hall),
spesso su un fitto tappeto ritmico (Five Planets), e in uno spensierato melodismo da supermarket
(Flight Feet).
Se Gardens costituisce il vertice classicheggiante della trilogia e
Caverna quello panetnico, Winds è quello barocco, nel quale le componenti si
sono fuse in una formula infallibile che potrebbe generare brani all'infinito.
Le opere successive, Down To The Moon e Dancing With
The Lion, in piena "stardom", accentueranno il ritmo, da sempre più prominente che negli
altri dischi di new age, per ottenere effetti da discoteca, e risulteranno ancor più stucchevoli.
Down To The Moon rappresenta anzi forse il picco del suo manierismo salottiero.
La svolta "etnica" di Book Of Roses, con una cantante della
Mongolia, un coro africano, un coro bulgaro, un chitarrista spagnolo di flamenco e un'orchestra sinfonica.
Eolian Minstrel, con Eliza Gilkyson al canto, è invece un banale esercizio di musica
pop.
La sua arpa produce un suono molto più rapido e squillante
dell'arpa classica, a metà strada fra un violino pizzicato e una chitarra acustica. I suoi languidi
excursus sono temperati o vivacizzati da soffi di synth e picchiettii di percussioni, e, a seconda del brano,
da altri strumenti per le parti melodiche. Il sound è ricco di reminescenze etniche, dal flamenco
alle danze dei gitani, dagli stili africani alle musiche caraibiche, fagocitati armoniosamente nei suoi mini-
concerti.
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