Busby Berkeley,
coreografo di fiducia della stella di Broadway Eddie Cantor, pur non avendo alcun diploma accademico,
rifondò il musical come genere cinematografico; se fino al 1932 la commedia musicale era stata
un tipo di spettacolo che poteva indifferentemente essere allestito tanto sui palcoscenici di Broadway
quanto negli studios di Hollywood, dopo i tre capolavori berkelyani di quell'anno il musical per lo
schermo divenne qualcosa di totalmente diverso dalle produzioni di Florence Ziegfield, uno spettacolo
basato innanzitutto sulla macchina da presa. Essa è uno dei ballerini, trasporta lo spettatore nel
bel mezzo del balletto e si muove al ritmo della musica. Le sue coreografie erano sì superbe
manifestazioni del kitsch dell'epoca e vanitose esibizioni di sfarzo (le scenografie barocche ed imponenti,
i costumi stravaganti, le moltitudini di ballerine piumate dei suoi "quadri viventi"), ma si
collocarono all'interno di complicate geometrie in genere con l'intento di romperle (riflessi di riflessi,
deformazioni di immagini). Del balletto vengono a far parte anche gli oggetti, aggrediti dalla m.d.p. e
investiti dalle luci, dal turbinìo generale; e simmetricamente i ballerini diventano degli oggetti in
costume, marionette di un lambiccato carillon.
I tre capolavori del 1933 sono ambientati a Broadway, dietro le quinte: sono tre
documentari fantastici sulla vita delle star della rivista americana.
Berkeley si serve di carrellate, inquadrature, illuminazione e montaggio per
approntare la sua magia; i suoi numeri sono piccoli incantesimi che sollevano il morale di un'America
afflitta dalla crisi, America ben rappresentata dal mondo dello spettacolo, dai poveri felici che cercano
fortuna nell'avanspettacolo sperando sempre nella scrittura e sognando le grandi platee; queste speranze e
questi sogni erano quelli del piccolo borghese che si arrabattava giorno dopo giorno passando da un lavoro
all'altro per sbarcare il lunario; a questo americano Berkeley regalava un filo di ottimismo, e insegna a
rimboccarsi le maniche e a "mettere in scena" lo "spettacolo", nonostante
"tutto". La danza del film è propiziatoria. I princìpi del musical di Berkeley
erano comunque ispirati da Ziegfield: sfarzo scenografico (trasformato però in giganteschi
pannelli animati dalla cinepresa e dal montaggio) ed esibizione di bellezza femminile; le due componenti
richiamano all'insegna del denaro e del sesso; la musica è invece pura colonna sonora.
42nd Street di Bacon narra la rinuncia di una star e il debutto della
sua sostituta; la cinepresa corre attraverso un tunnel formato dalle gambe divaricate delle ballerine e rotea
come un faro dal tetto di un taxi sventagliando per le strade affollate della metropoli.
Gold Diggers of 1933 di Le Roy è il musical della
depressione per eccellenza, anche se il protagonista è un miliardario che finge di essere un
esordiente squattrinato. Il film si apre su un numero dedicato al mito del denaro: pareti a forma di moneta
sulle quali campeggia il motto "In God we Trust", scalinate di monete e piccole piccole ai loro
piedi le ballerine in muta adorazione; un altro numero è dedicato ai reduci di guerra, con la
bionda Joan Blondell nei panni della prostituta che aspetta i clienti sotto un lampione e lunghe schiere di
disoccupati in cerca di lavoro; ma la fantasia sfrenata di Berkeley trionfa nel "valzer delle
ombre", un concerto al buio per violiniste in bianchissime gonne a cerchi che formano nell'insieme
un unico gigantesco violino.
Footlight Parade di Bacon è dominato dalla coppia
brillante formata dal produttore James Cagney deciso a mettere in scena un musical impossibile e dalla
sua segretaria Joan Blondell; il clou del film è il numero dell'acqua in cui le ballerine formano
figure a ripetizione, dal fiore al serpente, entrando e uscendo dall'acqua, fino a comporre una cascata
umana a forma di piramide; mentre la scean finale è ambientata nei bassifondi di una
città asiatica, fra la malavita e la prostituzione. Il tipico numero di Berkeley comincia con una
canzone cantata su uno sfondo insignificante; la camera scivola velocemente su un gruppo di ballerine e di
colpo la scena si colora e si amplia, si popola di trucchi mozzafiato, di pattern che proliferano in figure
geometriche sempre più opulente.
In seguito Berkeley tentò anche la regia, Babes in Arms
(1939), sul classico tema degli aspiranti attori che mettono in scena il loro
primo show,
e Strike Up The Band (1940) per Judy Garland,
Babes on Broadway (1941) per Judy Garland di nuovo (in cui alcuni
aspiranti improvvisano uno show per gli orfani),
e Take Me Out to the Ball
Game (1949) per Gene Kelly, ma alla storia del cinema è rimasto legato solo per alcuni suoi
arabeschi umani: la giostra dei pianoforti e delle ragazze bionde o l'orgia surreale di Manhattan (entrambi
da Gold Diggers of 1935). Riducendo le ballerine a pezzi di una struttura più
complessa, o moltiplicandole tramite gli specchi, riprendendole dall'alto o dal basso, Berkeley espresse la
perdita d'identità da parte delle masse. La sua volgarità era la diretta emanazione di
quella del pubblico: gli sfacciati riferimenti al sesso più che dal burlesque derivano dalla vita
quotidiana in un paese represso dal proibizionismo e dal puritanesimo.
Berkley e' un surrealista: le sue
coreografie esprimono le sue ossessioni piuttosto che l'azione del film; la donna viene usata come un
oggetto, l'oggetto tramite il quale si manifesta l'erotismo, quello che mette in moto il rituale sessuale; i
balletti di ragazze sono esercizi di voyeurismo, fantasie erotiche; molti balletti sono ispirati dai sogni,
cercano di rendere visibile l'onirico; evocando Freud e connettendo per associazioni mentali, Berkeley
rappresentava il proprio subconscio. Fra i numeri più onirici, influenzati dall'espressionismo, ci
sono quelli in cui meccanismi colossali incalzano una folla meccanica di ballerini: le persone diventano
oggetti meccanici che armonizzano con la macchina.
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