|
If English is your first language and you could translate
my old Italian text, please contact me.
|
1. Un provinciale a Roma
Federico Fellini nacque a Rimini nel 1920 da una famiglia
piccolo borghese abbastanza agiata da permettersi una donna di servizio e sistemare il primogenito in
collegio dai preti.
Ad un'educazione repressiva e autoritaria, al freddo conformismo familiare il
piccolo Federico reagì sfogandosi durante le vacanze estive. Al ginnasio cominciò a
dipingere caricature, ma soprattutto gli venne a nausea la vita di provincia. Nel 1939 parte alla volta di
Roma per iscriversi alla facoltà di Legge e far contento suo padre, ma invece arriva a Firenze, alla
redazione di un giornaletto umoristi-co e poi alla più famosa rivista di fumetti italiana dell'epoca.
Sei mesi dopo si trasferisce nella Capita-le, studente povero che deve arrangiarsi disegnando vignette per i
periodici, ma poco dopo scrive co-pioni per la radio e un giorno l'attività di giornalista gli fa
conoscere in un teatro di varietà uno degli attori cominci più popolari dell'epoca, Aldo
Fabrizi. Entra nel cinema chiamato da Mattoli come "gagman" per lui e per Macario. Viene a
contatto con il cinema proprio nel periodo dei grandi ideali resistenziali, durante la crisi del Fascismo e
alla vigilia della Liberazione alla radio nel 1943. Nel 1943 conosce Giulietta Masina, attrice e fata privata.
Fellini, che non è arrivato al cinema attraverso i classici, che non conosce nulla del cinema
mondiale, si trova quasi aggregato alla troupe di Rossellini e collaborerà ai suoi due capolavori,
Roma Città Aperta e Paisà. Lanciato da simili referenze, per sei anni
Fellini visse di sceneggiature (fra i committenti Rossellini stesso e Germi) e di satira goliardica su una
rivista romana.
2. Luci del varietà
Nel 1950 gira con Lattuada Luci del Varietà, uno
spaccato del mondo dei teatrini di varietà che annuncia il tema principale di tutta la sua
filmografia: la ricerca autobiografica.
Una compagnia di guitti affamati rappresenta in uno squallido
teatro di provincia la sua scalcinata rivista; il capocomico, un anziano straccione che convive con la sua
prima attrice, si lascia irretire da una fresca campagnola, che ruba il posto alla prima attrice e conquista il
pubblico con le sue grazie fisiche; un riccone invita tutta la compagnia nella sua lussuosa residenza, ma
quando il capocomico scopre che il suo scopo era soltanto di portarsi a letto la nuova arrivata fa una
patetica scena di gelosia e scatena la rissa; di nuovo sulla strada, il capocomico vuole organizzare uno
show per la sua senile fiamma, ma un impresario gliela soffia per farne una sofisticata soubrette.
Gli splendori e le miserie dell'avanspettacolo sono seguite con
divertita simpatia dal regista-sceneggiatore, che impone già due caratteristiche inconfondibili del
suo stile: l'invarianza dell'azione (per cui il film finisce come comincia, l'ambiente viene sondato e
sviscerato ma non alterato dagli avvenimenti) e il ritratto dei singoli (che rivelano progressivamente la
loro vera personalità e le loro angosce).
In questo modo Fellini da un lato smonta il mito del varietà, mentre
dall'altro lo rinforza con commoventi significati universali. La sua feroce diagnosi della vita piccolo
borghese, la crudele denuncia delle sue illusioni e dei suoi fallimenti, dei bassi istinti che presiedono alle
abitudini quotidiane e dei fondali sentimentali che animano i pochi veri momenti di iniziativa, serve
sì a svelare lo status di derelitti dei millantati divi, ma anche a trasferire lo spettacolo dal
palcoscenico alla desolazione delle vie notturne, a rappresentare lo spettacolo della vita. La visione
interiore della realtà restituisce un'immagine clownesca della gente umile di tutti i giorni. In un
certo senso la direzione della rappresentazione è invertita: non è il palcoscenico che
rappresenta la vita, ma la vita che rappresenta il palcoscenico. In tal modo si spiegano i gesti simbolici
della festa (rito felliniano della solitudine e della malinconia) e della strada (rito felliniano della vita che
scorre verso la morte, dell'innocenza che scorre verso la conoscenza).
La maturazione di Fellini è rapidissima. Il regista ha anche la fortuna di
trovare subito due preziosi collaboratori come il commediografo Tullio Pinelli e il musicista Nino
Rota.
3. Lo sceicco bianco
Lo Sceicco Bianco (1952) è la
storia grottesca e malinconica di due sposini che giungono a Roma dal paese con la speranza di incontrare
il papa; lei però ne approfitta per fare una scappata alla redazione del fotoromanzo di cui
è assidua lettrice; ha scritto diverse volte al suo eroe preferito, le cui risposte le hanno ispirato
sogni da eroina; unitasi alla troupe conosce il suo idolo in carne ed ossa (Sordi), il quale approfitta della
sua ingenua credulità per sedurla; per lunghi inebrianti momenti la giovane si sente in paradiso,
ma, durante una gita in barca, scopre le vere intenzioni di Sordi e, al ritorno, la sua meschina
vigliaccheria (succube di una moglie grassa e forzuta); rimasta sola, la ragazza medita persino il suicidio;
salvata, viene ricoverata in un manicomio. Nel frattempo, il marito, che l'ha cercata come un disperato
per tutta Roma, inventando scuse con i parenti ed è fuggito da un commissariato, incontra in
piena notte due prostitute, una allegra ed entusiasta di nome Cabiria (Masina); con l'altra trascorre la
notte senza tradire la moglie. Al mattino i due si ritrovano, entrambi delusi ma ancora innamorati l'uno
dell'altra e insieme ai parenti si recano in Vaticano.
Fellini smonta un fenomeno di costume (il fotoromanzo) e un altro
mito (quello dell'idolo della folla femminile). Ma ancora una volta la sua attenzione è rivolta ai
sentimenti della protagonista, alla piccola tragedia che si compie nel suo animo. Il patetismo di questo
risvolto è compensato dalla vis comica di Sordi nella parte dell'istrione fallito, una maschera in
realtà ancor più patetica di finto coraggioso e generoso che nasconde un meschino
impiegato preso a calci da tutti. La tragicommedia si rivela come il tono espressivo ideale del regista; e la
tragicommedia, come la satira di costume, lo studio dei caratteri, un'accennata retorica e umanitaria, il
patetismo, l'autobiografismo e quel modo candido, infantile, innocente di osservare avvicinano il cinema
felliniano al grande modello chapliniano. Il bambino di Fellini (il bambino-Fellini) è un misto di
fanciullo pascoliano, di monello chapliniano e di Totò desichiano. Il cinema di Fellini racconta la
presa di coscienza, da parte di questo bambino, della complessità e della mediocrità del
mondo; la corruzione di questo bambino ideale (trasposizione autobiografica di Fellini stesso) esprime
l'angoscia latente di ogni uomo adulto. La mitologia felliniana (clown, sceicchi ecc.) è
giustappunto una mitologia infantile; infantile sono anche Sordi con la fidanzata che lo rimprovera e il
marito che si confessa alla prostituta. E tale mitologia ne induce un'altra, la mitologia delle donne, che
rappresenta il mondo.
Lo Sceicco Bianco introduce anche allo stile barocco di Fellini
(soprattutto se confrontato con le opere contemporanee del neorealismo) e alla satira ecclesiastica, una
delle costanti del suo cinema, nata dalla fusione di reminiscenze collegiali e da mai sopite
velleità goliardiche.
4. I vitelloni
Con I Vitelloni (1953), in assoluto il suo film più
realista, la vocazione all'autobiografismo goliardico-elegiaco travolge ogni schema precostituito. La
provincia dei suoi luoghi d'origine assurge a mito supremo della sua poetica, a fenomeno di costume essa
stessa e il suo cinema si rivela come un appassionato atto d'amore nei confronti delle proprie radici. In
quell'immenso cumulo di detriti che è la vita di provincia Fellini trova gli umori, le macchiette e
le gag del suo fantastico barocco metafisico "weltanschauung" (Dante nel Purgatorio dei vivi).
Al centro del film sono i giovani borghesi, inutili, burloni,
mediocri, annoiati, fannulloni, "cocchi di mamma", avviati loro malgrado verso la mezza
età. La loro vita consiste nell'alzarsi tardi la mattina, nel ciondolare fra il caffè e il
bigliardo, nell'infastidire chi lavora, nel corteggiare le turiste straniere e nell'andare a passeggio di notte
per le vie deserte raccontandosi avventure e progetti. Sono cinque storie che si intrecciano. Uno ha dovuto
sposare la ragazza che ha messo incinta ma se la spassa con la soubrette di una compagnia e quando lei
lo pianta si pente e promette di cambiare; un secondo aspira a fare il commediografo ed entra nelle grazie
del capocomico omosessuale; un terzo vive al solo socpo di organizzare feste e scherzi; Sordi è un
bambinone attaccato alla madre che si fa mantenere dalla sorella; l'ultimo (Fellini stesso) è anche
l'unico ad avere il coraggio di partire.
Sordi è il mattatore nella parte del cinico vigliacco
esibizionista: il giorno della festa di Carnevale si trucca da donna facendosi aiutare dalla madre, ma,
accortosi che qualcosa non va, scopre che la sorella ha deciso di fuggire con l'amante; nella sua ridicola
tenuta rimprovera la sorella (che non gli dà neppure ascolto) e consola la madre, ma ovviamente
non rinuncia alla festa; anzi, si tratterrà fino all'ultimo, ubriaco nel salone deserto a giocare con
le stelle filanti, in una allucinante scena di degenerazione morale, maschera inebetita e privata di ogni
residua dignità umana domanda all'amico ""Chi sei? Non sei nessuno!" "Fellini
scova la loro tenera innocenza di fondo (di bambini, appunto), ma ne mette anche spietatamente a nudo
l'agonia.
I Vitelloni è un film senza intreccio ad episodi di divagazioni, di
aneddoti, di variazioni sul tema (una struttura mutuata dalla novellistica medioevale e dalla musica
strumentale romantica), un film a parentesi che si aprono nei momenti più impensati e si
chiudono quando già se ne sono aperti altri, ad accumuli che poco a poco fanno sublimare il
blocco drammatico della catalisi, a montaggio lento; l'insieme degli episodi crea quell'atmosfera di
torpore, di noia, di vanità, di grottesco che esula dalla nuda satira di costume e assurge a
malinconia universale, a una nostalgia proustiana del passato immersa in solide scenografie
espressioniste.
La mitologia della provincia si arricchisce di un nuovo idolo caduto, il
"vitellone" e il circo della vita di un'altra maschera tragicomica.
5. La strada
I riferimenti all'espressionismo, al simbolismo e
all'umanitarismo chapliniano impregnano la trilogia della donna, iniziata nel 1954 con La Strada,
il suo film più fiabesco. Fellini compie un altro passo deciso verso il territorio del fantastico e
ritaglia una strada moderna dalle molteplici morali, prima sopra tutte quella della solitudine dell'uomo
contemporaneo.
Un mangiatore di fuoco che gira i paesi sulla sua moto compra
da una vedova in miseria la sua figlia più grande (Giulietta Masina), un'ingenua e candida
fanciulla piena di entusiasmo e armata di buoni sentimenti. Invano cerca di compiere il suo dovere
cucinando e lavorando nel numero come clown; il suo rozzo e cinico padrone la ricambia di sgarbi e di
male parole, la usa e basta, mentre lei, accettando di buon grado il proprio destino, non gli chiede che un
po' di affetto. Prova anche a fuggire, ma ci guadagna soltanto una razione supplementare di percosse.
Unica consolazione è l'amicizia di un equilibrista che rischia la vita con il sorriso sulle labbra e le
dona i pochi momenti di gioia; ma lo zingaro non sopporta la sua verve sagace e lo uccide durante un
violento litigio. La poverina ne impazzisce di dolore e il bruto la abbandona, ma anni dopo, apprendendo
la storia della misera fine fatta dalla giovane, il saltimbanco prova un dolore insopportabile e scoppia in
lacrime sulla spiaggia deserta.
La cornice del film è quanto di più sordido si fosse
visto fino allora sugli schermi mondiali: una ragazza tanto innocente da sembrare idota, investita della
gioia e della semplicità francescana, venduta dalla madre e trattata come schiava da un barbaro
degenerato sullo sfondo della miseria più nera. Un'altra infanzia guastata e particolarmente
crudele risulta il momento in cui quell'arido padre-padrone le rompe l'unico "giocattolo"
(l'equilibrista scanzonato) che la faceva divertire nei momenti tristi. La carica umana (o disumana) dei
singoli personaggi trascende però l'ambito sociologico; simboli o déi che siano essi
partecipano al calvario di quel Gesù bambino che cerca in ogni modo di convertire all'amore gli
scettici farisei e partecipano alla tragedia collettiva della solitudine, dove tutti sono perdenti, tutti vittime
e tutti colpevoli, tutti oltraggiati e tutti attanagliati dal rimorso. Fellini gioca con i suoi personaggi come
una chiromante con le carte divinatorie e la soluzione è un'altra iniezione di speranza
chapliniana, alla Calvero, che tutte le vite servono a qualcosa, anche quella di Gelsomina, che è
servita a far piangere (a convertire) il demone. Fellini adotta la solita tattica di trasformare l'universo in
un circo e di concentrare l'attenzione sul clown triste.
Se il patetismo rimanda a Chaplin, se il simbolismo rimanda a Bergman
(l'equilibrista muore quando il suo orologio si ferma), se l'estatico candore di Gelsomina rimanda al
Totò desichiano, se la sua parabola francescana rimanda a tanta agiografia cattolica, la
descrizione commossa della vita ambulante dei saltimbanchi nei loro scalcagnati baracconi è la
sublimazione dell'ansia autobiografica di Fellini. Il vagabondaggio disperato di questi due esseri soli,
entrambi in lotta per sopravvivere, attraverso un paesaggio quasi medioevale, sfrutta fino in fondo il tema
prediletto dello spettacolo popolare (avanspettacolo, circo, carnevale, fotoromanzo) che si può
rivoltare nello spettacolo del popolo.
6. Il bidone
Il Bidone (1955) racconta la malinconica
parabola di tre imbroglioni che campano escogitando truffe ai danni dei contadini. Strutturalmente
somiglia a I Vitelloni: non sviluppa un'azione drammatica, ma illustra le personalità dei
soggetti attraverso un certo numero di episodi (quando si travestono da preti e quando incontrano un loro
antico complice che ha fatto fortuna e che va a benedire travestito da prete). Uno di loro si ravvede davanti
a una bambina paralitica, ma gli altri puniscono il traditore (che si è messo da parte i soldi di
quest'ultima truffa per darli a sua figlia) lapidandolo fino a rompergli la spina dorsale; rimane solo a
morire sulla strada. La scena finale, allucinata dalla solitudine del paesaggio e dal disperato attaccamento
alla vita del morente (che vorrebbe unirsi a un gruppo di paesani festosi) conferisce di colpo natura umana
a quelle tre figure surreali.
L'infantilismo di Fellini procede in direzione sia di tali improvvise
impennate drammatiche nel mezzo di un plasma narrativo senza nerbo sia in direzione dell'incarnazione
dei suoi miti (la serata al cabaret, il veglione di capodanno).
La drammaturgia felliniana rimescola temi sociali, simboli surrealisti, lirismo
autobiografico, retorica umanitarista, spiritualismo cattolico.
7. Le notti di Cabiria
Alla favola chapliniana di La Strada si riallaccia invece
Le Notti di Cabiria (1956), centrata su un'altra patetica figura femminile senza protezione, umile,
schiacciata da una società sordida, che conserva un'innocenza, una voglia di vivere e di sognare e
una fiducia nel prossimo sproporzionate al suo destino.
Cabiria (Giulietta Masina, la prostituta entusiasta de Lo
sceicco bianco) è una prostituta romana sempre con il sorriso sulle labbra e una dirompente
carica di ottimismo. Una sera conosce un divo del cinema (Amedeo Nazzari) che ha appena litigato con
un'amica e che, per consolazione, si porta a casa la piccola e stupefatta stracciona, incredula davanti al
lusso dell'auto e della sua villa, al settimo cielo al pensiero di essere in compagnia del suo divo, ma
irrompe l'amica isterica e Cabiria viene nascosta frettolosamente in un bugigattolo buio, dove trascorre la
notte.
Sognatrice e romantica incallita, si lascia sedurre da un giovane galante che si
finge bene intenzionato e le chiede di sposarlo; lei si fa degli scrupoli perchè lui la crede una
brava ragazza; poi lascia fra le lacrime la sua amica e collega e parte con la valigia e i risparmi di una
vita; lui la porta in un luogo isolato e sull'orlo di un precipizio; dal suo sguardo Cabiria capisce
ciò che sta per succedere e, invece di scappare, si mette a inveire contro il destino che si
accanisce contro di lei; lui scappa con i soldi e lei rimane sola nel bosco, ma basta una banda di ragazzi
festosi per ridarle il sorriso: si unisce a loro sulla solita strada che non sa dove porti.
Ha fiducia in un futuro diverso: compra una casa in periferia e va in
pellegrinaggio con le amiche ad implorare la grazia di una vita migliore in mezzo a un putiferio di
invasate e disperate.
Bizzeffe di riferimenti al mondo dello spettacolo: il sontuoso palazzo
dell'attore di grido, la serata al cabaret con il prestigiatore che l'ipnotizza, la folla dei fedeli deliranti nella
cappella, i giovani mascherati nel finale. Lo spettacolo della vita, magico e abbacinante, rivolge senza
posa i suoi mostruosi tentacoli.
Come ne La Strada Fellini parte da un ambiente squallido (il
marciapiede, le baraccopoli, la moltitudine feroce della cappella, lo sciacallo imbroglione ladro e quasi
assassino) e ne estrae un simbolo toccante, patetico e poetico: un essere piccolo, candido e indifeso,
un'apparizione angelica (il Totò desichiano) che illumina il tetro paesaggio di bagliori
paradisiaci, il profeta del regno dei cieli che viene lapidato dai farisei (il pubblico che ride delle goffe
romanticherie dell'ipnotizzata, l'attore che la tratta come un oggetto imbarazzante, l'imbroglione che la
illude).
Il martirio di questo Cristo-San Francesco donna e prostituta è ancora
più spietato di quello dell'omologo cattolico, poichè non ha fine ed è più
spietato perchè più ardua è la sua missione: salvare non in cielo ma sulla
Terra.
Fellini è giunto al polo opposto dell'esistenzialismo: la sua visione
ricaccia indietro la disperazione e si lancia di nuovo nella vita con entusiasmo, con commovente
ottimismo. Fellini ha anche chiarito i suoi rapporti con il cristianesimo: il suo pensiero è cristiano,
ma di un Cristianesimo archetipico, popolano e spirituale, mentre odia il Cattolicesimo.
8. La dolce vita
Esaurito l'impulso romantico de La Strada Fellini deve
rifondare il proprio cinema.
La Dolce Vita (1960)
La Dolce Vita (1960) decisively breaks with early "Fellinism", with its naive, Chaplin-esque symbolist approach and its rather unreal rural landscapes. In all its enormous deforming power, the director’s redundant, baroque, and precious figurative taste reaches full maturation in the extraordinary fusion of reality and imagination, in the delirium of the spectacle within the spectacle. The protagonist becomes a sort of mask, the mask of a staid and ordinary man (the only one, in fact, without a mask), a symbol among symbols, and a stand-in for the director himself, a detached, impassive, and impeccable spectator of life.
The film is a hallucinatory and grotesque fresco, apocalyptic and angst-filled, of the post-war bourgeoisie, an unrestrained vortex of disjointed masks revolving around the protagonist’s ascetic face, a chaotic and passionate symphony, a “Vitellonian” symphony updated to the "swinging Rome" of the 1960s, a "moral" study of metropolitan alienation.
It is also a scathing indictment of the media and of religion, on a par with
Billy Wilder's Ace in the Hole.
Fellini’s disordered and passionate genius portrays the chaos of a decadent society (the oppressive sense of idleness and depravity seems to evoke the final years of the Roman Empire rather than to the Baroque era of the 17th Century),
a society doomed to self-destruction first morally (through the various women in the film) and then physically (the intellectual, clear-headed and positive, who for a moment seemed to be the only one capable of giving purpose to his life).
Parables of paganism and Christianity constantly intertwine and overlap: the miracle and the orgy, the aging intellectual and the young star. In these "biblical" seven days, Fellini seeks to trace the roots of the dilemma in the past, in the ruins and catacombs of Rome. Thus, Rome emerges as the ideal city of a world that is annihilating humanity, a humanity that is willingly reducing itself to live among the ruins in a radiant and desolate Rome, an inferno of multiple circles, both heaven and catacombs of its own world.
Fellini, like Antonioni in Milan, also delves into alienation and the inability to communicate, but his alienation is not industrial. It is a deeper alienation: the innocent provincial who arrives in the big city is corrupted and consumed, stripped of his values (religious faith, respect for others, the dignity of life).
Fellini's
transition from rural cinema to urban cinema coincides with the shift from caricature and psychology to the vision of a moral and social apocalypse, marked by the arrival of a new symbolism, no longer centered on acrobats and clowns, but derived from modern and metropolitan forms of spectacle: the nightclubs (where the circus turns into a party, and the carnival into orgy), the imposing and baroque sets (the sideshows and small theaters of the previous films transform into villas and palaces), religious rites (ceremonies and fanaticism replace performances and applause), and amoral journalism.
But the symbols that serve as the cornerstones of this modern biblical parable are very personal, and "that" Rome is a city that exists mostly in its creator’s mind: autobiographies, emotional self-psychoanalysis.
Catholic morality, documentary realism, Petronius’ "Satyricon", erotic scandal, social portrait, autobiographical elements, caricature, Vitellonian mythology, fables, and nihilism all come together to make "La Dolce Vita" an encyclopedic and fantastical summary of modern civilization in the style of medieval scholars.
Everyone is a slave to their own rank, incapable of throwing off the cloak to live an authentic life. Fellini shapes his own social classes: the nobles/wealthy (who have known themselves for centuries), the priests (with their mysterious pomp), the women (mothers, wives, and lovers: the mystery of life’s reproduction through the centuries and the role each life has towards the previous and subsequent ones), the boys (innocence, good feelings in the style of Chaplin, de Sica, and Pascoli); and the intellectual "vitellone" represents the director himself, the provincial immigrant in the big city. The orgy of types and the Babylonian confusion of voices foreshadow the decay of urban civilization, reviving images of ancient, extinct civilizations, beginning with the Roman one.
The ending is complementary to the beginning: the protagonist cannot hear what the innocent girl is shouting just like at the beginning the ordinary women couldn't hear what he was shouting to them.
A helicopter is flying over the roofs of Rome carrying a statue of Jesus.
Marcello, a journalist, is on the helicopter. Young women wave at the helicopter
from a roof and Marcello shouts something, but the women cannot hear him.
The helicopter then continues its mission to deliver the statue to the Vatican.
We then see Marcello taking pictures of celebrities. He meets
Maddalena, a rich woman but unsatisfied. Maddalena
picks up a prostitute and asks for a coffee at her place.
Maddalena and Marcello drives her home, a flooded apartment.
Maddalena and Marcello make love there.
In the morning he drives to his girlfriend Emma,
but she has tried to commit suicide, presumably because he cheats on her.
He saves her and takes her to the hospital.
Next, Marcello attends the arrival of a Hollywood star,
Sylvia, originally from Sweden, a sex symbol who is
silly and superficial, followed everywhere by photographers.
Marcello's friend
Paparazzo is the most aggressive photographer.
Marcello calls Emma who is paranoid and jealous.
Sylvia, always
followed by the photographers and by Marcello,
visits St Peter's Cathedral and climbs to the top.
Marcello takes her to a nightclub where they dance and he tries to seduce her.
They are interrupted by an actor and friend of hers, Frankie.
They dance wild rock'n'roll till late night.
They sit at the table of other foreign celebrities.
Sylvia is insulted by a drunk man who is her boyfriend and she leaves the club.
Marcello follows her.
Marcello drives her to the outskirts.
She is depressed and starts walking in the deserted streets
and howls to the wild dogs.
Marcello phones different friends looking for a place to sleep with her.
She grabs a kitty and asks Marcello to look for milk.
Back downtown, Sylvia enters into the Fontana di Trevi.
Marcello hesitates but then follows her .
The water stops and it's dawn.
Meanwhile Paparazzo and others are taking pictures of the drunk boyfriend who fell asleep in his car.
The jealous boyfriend slaps her in the face in front of photographers
and then punches Marcello.
Next, Marcello finds an old friend in a church: the writer Enrico.
Enrico compliments Marcello for an article that he has written.
Enrico plays Bach on the church organ.
Next, Marcello is driving around with his girlfriend Emma and Paparazzo.
Two children claim to have seen the Madonna. They are inside a police station but outside a crowd is gathering.
Photographers interview their family.
Marcello interviews a priest who is skeptic about the miracle.
Emma talks to a wise woman who doesn't care if the miracle is real or not because one can always find God.
The faithful pray around the tree of the miracle.
At night they walk in procession holding torches.
The crowd grows, with newspaper, radio and television reporters flocking into the field.
The children are still inside the police station.
Emma feels that Marcello doesn't love her anymore and so she too
prays the Madonna (asking for Marcello's love).
The children are finally released and the crowd goes wild.
The photographers fight to get a shot.
It starts raining. The
children pretend to see the Madonna.
The folla delirious follows them as they spot the Madonna in different places.
Finally, the father rescues the children and begs the crowd to go home.
Fanatic believers break branches of the miracle tree like cannibals dismantling a prey. And one of them is Emma.
Marcello drags her away from the chaos in the mud.
Emma yells at the photographers who are documenting the scenes of desperate people praying for a miracle and calls the photographers hyenas.
One person dies and the following morning, when the rain stopped, a priest
officiates the funeral.
Emma and Marcello visit Enrico's family. He is an elegant intellectual living in a nice house. He has gathered a few friends: a musician, a painter, an orientalist, etc. He has two little children and he seems to love them very much.
Marcello tells the orientalist that he would like to have children of all races.
Marcello and Enrico discuss a Morandi painting.
An English poetess, Iris, tells Marcello not to choose between journalism and literature.
Marcello tells everybody that he doesn't love his job.
Enrico has recorded natural sounds, like thunder, and Emma loves the recording.
Enrico seems happy. Emma is jealous that he has a happy family.
Enrico senses that Marcello is unhappy.
Marcello too is jealous of Enrico's life.
Enrico offers to introduce him to a publisher.
Enrico in front of a mirror confesses his insecurity.
Next we see Marcello at the beach, phoning Emma from a restaurant, typing on a typewriter, annoyed by the jukebox and by the singing of a teenage waitress,
Paola, a simple girl from the countryside who is homesick.
But then Marcello is fascinated by the girl and
tells her that she looks like an angel.
Marcello can't focus on his writing.
While driving back into the city, Marcello is told by Paparazzo that his father has come to visit. Marcello finds him dining alone in a busy cafe'.
The father is a businessman. The father invites Marcello and Paparazzo to an old nightclub. They watch a show. One of the dancers,
the French soubrette Fanny, recognizes Marcello and joins them at their table.
A melancholy mime plays the trumpet. Father gets a little drunk and dances with Fanny, who is amused by his elegance.
Marcello tells Paparazzo that he rarely saw his father when he was a kid because his father was always away and mother was always crying.
Fanny invites father to go to her place promising to cook for him.
Late night. Marcello and Paparazzo drive away with two other girls.
Marcello leaves them for a lone walk in the deserted street.
Fanny finds him in the street: his father is not feeling well.
By the time Marcello and Fanny return to Fanny's apartment, his father
is feeling better and decides to take the first train home.
He hasn't had any sleep and wants to take a train at dawn.
Marcello begs him to stay, desiring to bond, but the father decides to leave, indifferent to his son.
Marcello is immediately back downtown and meets his German friend Nico (played by the future legendary singer herself), who invites him to a party in a castle in the mountains. A caravan of cars drive there. The party is a fiasco, most of
the guests are falling asleep and bored.
One is the beautiful Irene.
There Marcello meets again Maddalena, who gives him a tour of the aristocrats.
Maddalena leaves him alone in a vast room and moves to another room and then talks to him via the echoes of the rooms. He doesn't know in which room she is hiding but can hear her words clearly. Maddalena confesses that she's in love with him and would like to marry him.
Marcello replies that he loves her too. Maddalena confesses that she feels like a whore and doesn't want to be anything else.
A man enters Maddalena's room while Marcello is talking to her from the other room. They silently make love while Marcello, unaware, talks of love in the other room.
The partygoers leave the castle to explore an abandoned villa nearby and Marcello joins them as Maddalena has disappeared.
The family's patriarch scolds his son Giulio who abandoned the villa.
Some of the guests improvise a seance and a woman has fits on the floor.
Marcello tries to seduce a woman in white but is seduced instead by another woman.
The atmosphere is gothic and expressionistic. Long hallways, vast rooms, seance, costumed women, candlelight, faces that surface out of darkness.
At dawn the guests walk out in a procession that feels like a Japanese ceremony.
Night again. Marcello and Emma are in a car. They stopped in the middle of nowhere. She accuses him of being selfish and heartless. Marcello can't stand her anymore. She walks out and he asks her in vain to get back in the car. She still insults and curses him, ungrateful that she truly loves her.
She tries in vain to explain that he doesn't see the gift of love.
Marcello replies that she offers him a boring and pointless life and tells her that he doesn't want her love. She gets back into the car and refuses to leave him, no matter what he says.
Then he kicks her out and drives away.
At dawn he drives back and finds Emma quietly picking flowers.
They drive back home silently and make love (implying that this has happened many times before).
Marcello is told that Enrico has killed his children and himself.
Marcello rushes to Enrico's apartment. Photographers are surrounding the building. The wife is traveling and still doesn't know anything.
Marcello stares terrified at the three cadavers:
one child was killed in the cradle.
Marcello and a cop wait for Enrico's wife at the bus stop to give her the news.
Marcello murmurs that maybe Enrico simply was afraid.
The cop asks in vain the photographers to leave them alone.
The photographers surround the wife as soon as she gets off the bus.
She is initially amused but then the presence of the cop alerts her that something terrible has happened. As her facial expression changes to terror, the photographers cynically take pictures.
Night again. Cars drive at maximum speed, full of chatting young people.
They head for the villa of a rich man. They have to break a window to get in.
They celebrate the divorce of the man's wife, Nadia.
Another cabaret and circus, this time inside a private villa, with even
transvenstite homosexuals.
Girls compete for stripping naked.
Nadia accepts gladly.
When she's naked, friends compliment her.
The owner, Riccardo, arrives just then.
They ask Marcello to come up with something that will entertain them because the striptease failed to do so.
Marcello becomes the improvised master of ceremony.
Marcello asks a stud to take the virginity of an American teenager.
Marcello becomes more vulgar and almost violent until
Riccardo kicks everybody out.
They walk to the beach at dawn and see fishermen pulling a big dead fish out of the sea.
The drunk crowd assembles around the fish and makes silly comments.
Paola the waitress is there, on the other side of a little creek.
She tries to tell Marcello something but Marcello cannot hear her because of the waves.
He gives up, she waves goodbye and he returns to his friends.
9. Otto e mezzo
L'autobiografismo di Fellini dà luogo in Otto e Mezzo (1963) a un surreale soliloquio sulla sua infanzia e sull'arte, a un film di stati d'animo, di
nostalgie lancinanti e di ricordi ossessivi, a un viaggio mentale che parte da una città ideale,
Rimini, per approdare a un'altra città ideale, Roma; una fiaba, una seduta psicanalitica, un
album di ricordi, una fantasia onirica; una confessione diretta del significato dei suoi simboli. Fellini
abbandona il realismo e le strutture narrative per una forma libera che può spaziare su tutte le
degradazioni di realtà e fantasia.
Il linguaggio narrativo e figurativo si complica a dismisura, giostrando in
virtuosismi mediati da Proust e Joyce, con qualche eccentricità scherzosa (il titolo si riferisce al
numero di film girati, otto e mezzo per l'appunto).
Il film narra di un regista di mezza età (Fellini) che
approfitta di un periodo di riposo in una stazione termale per fare un bilancio della sua vita; nei suoi
incubi e nei suoi ricordi, segnati da uno smarrimento esistenziale e dal terrore della morte, si mescolano
in maniera indissolubile realtà e fantasia.
Nel frattempo deve preparare il suo prossimo film, attorniato da una troupe di
macchiette, in particolare da un produttore impaziente, da un'amante svampita petulante, da un
intellettuale sempre critico e da un separato che si è messo con la compagna di scuola della
figlia.
L'idea del regista è di fare un film di fantascienza: dopo l'apocalisse
atomica un'astronave trasporta i superstiti su un altro pianeta. È malato e in un incubo (all'inizio)
si vede prigioniero in un'auto osservato da una folla impassibile: in palandrana nera vola fuori, ma si
ritrova su un deserto, legato con un cappio al piede che un altro uomo regge come se si trattasse di un
aquilone. Per curarsi e per dare aria al suo genio un po' isterilito si è trasferito alle stazioni
termali. Defilée di alto borghesi in ordinata processione. Dopo uno svogliato amplesso con
l'amante sogna il padre, morto, che muore un'altra volta e si seppellisce da sé e gli appare un
volto femminile sofferente che prima è quello della madre e poi quello della moglie che lo baciano
nel cimitero deserto di giorno.
Assillato da comparse e impresari e impresari nella hall dell'albergo, la sera al
night (in mezzo a snob dell'alta società) assiste allo show di un'illusionista suo vecchio amico.
Ricorda l'infanzia in campagna, il bagno dei bambini tutti insieme nella tinozza e poi stipati nei lettoni.
Telefona alla moglie che lo raggiunga, ma intanto insegue un fantasma di ragazza (bianca e sorridente)
che appare e scompare a intermittenza. Va a trovare un monsignore. Ricorda il collegio, la cicciona nuda
che vive sulla spiaggia, la rigidità degli istitutori.
Bagni turchi, sul set di notte, amici e colleghi curiosi: nel buio confessa a R.
Fahl che film voleva dire (è Fellini che parla); a letto crisi di incomunicabilità con la
moglie; il giorno dopo la moglie fa una scenata di gelosia nel vedere l'amante.
Né un cardinale né la moglie gelosa. Lui si sogna bambino e
domatore in un harem con tutte le donne della sua vita che gli fanno il bagno nella tinozza in una sorta di
rituale che si conclude con lui domatore che le tiene a bada con la frusta, con moglie e amante. La
gestazione del film procede a rilento, ma si delinea una storia che riproduce la sua vita privata. Alla
prima attrice (Claudia Cardinale) vuole affidare la parte della ragazza fantasma che gli appare una volta
ogni tanto: glielo racconta durante un giro in auto per Roma deserta di notte. Messo alle strette da
produttore, giornalisti, attori e moglie (rivedono tutti i provini girati, organizzano un cocktail-party sul set
dove trionfa la monumentale astronave di cartapesta con finale da circo equestre), Mastroianni fugge
sotto il palco e decide di rinunciare a tutto, al film, al matrimonio, alla vita e l'intellettuale pignolo e
razionale gli spiega il perchè del suo fallimento.
Rinunciando (con un lungo soliloquio) a cercare la chiarezza e la
verità, Mastroianni si riunisce bambino e adulto ai clown evocati dall'illusionista e agli altri
personaggi (tutti vestiti di bianco) in una specie di passerella da circo equestre; poi scendono # e il
silenzio.
Il naufragio psicologico del protagonista è totale. Si dibatte in una
jungla di frustrazioni alla ricerca di un solido punto d'appoggio; è talmente disperato che tenta di
materializzare il suo sogno nella Cardinale. L'osmosi fra arte e vita, fra finzione e realtà deve
essere completa se si vuole continuare a esistere: la vita è una solenne menzogna!
Il caos visionario e straripante di Fellini può rendere con eccezionale
consistenza gli spasimi del magma ossessivo della coscienza. Poeta dantesco in un Purgatorio da
avanspettacolo, Fellini fa scaturire la sua morale semplicistica da un'evocazione continua di crisi
tormentate ed anche questa è una colossale menzogna.
Il film è costellato di doppi: Fellini-Mastroianni, Mastroianni-
l'intellettuale (di cui Mastroianni si libera prima di risolvere la propria crisi), la moglie e l'amante, il
fantasma e Cardinale.
10. Giulietta degli spiriti
Giulietta Degli Spiriti (1965) completa la trilogia della
Masina (con La Strada e Le Notti di Cabiria). Negli intenti si tratta di una variazione sulla
leggenda di sant'Antonio, ma lo stile liberty trasforma il film in un'altra fantasmagoria con sapore di
bilancio esistenziale.
Giulietta è una signora dell'alta borghesia, sposata a
un brillante uomo d'affari, senza figli. Trascorre l'anniversario di nozze nella loro villa al mare, dove
vengono a trovarla amici e parenti e dove il marito invita un gruppo di vicini
snob e donne di classe; una seduta spiritica organizzata per vivacizzare la festa getta la donna nello
sgomento perchè una voce le sussurra: ""Non sei niente per nessuno."
" Il giorno dopo sulla spiaggia è colta da angoscia. Comincia ad
avere dei dubbi sulla fedeltà del marito e non sa con chi confidarsi, stante il freddo egoismo della
madre e la stupida vanità delle sorelle. Cerca conforto in una chiromante, in un romantico dandy
e, infine, in un investigatore privato.
L'angoscia divora la sua mente già devastata dai ricordi (il nonno che
fuggì con una ballerina, la madre che la affidò alle monache per non avere impacci, una
recita in cui interpretò la parte di una vergine martire) e dall'educazione cattolica. Una volta
avuta conferma dei sospetti del marito, per vendicarsi decide di accettare l'invito di una lasciva vicina di
casa e darsi al piacere dei sensi, ma all'ultimo momento non se la sente e torna a casa. Straziata dai
ricordi e dalle creature mostruose che la perseguitano decide di lasciar libero il marito senza rancore.
Sull'orlo del suicidio trova la forza di risollevarsi e di liberarsi delle sue paure: i fantasmi scompaiono e
Giulietta, vestita di bianco, corre allegra verso il mare.
Questa è una seduta psicanalitica: le allucinazioni, il trauma
infantile e l'educazione causano nella donna un'inibizione sessuale che la isola dal resto del mondo non
appena il marito cessa di coprirli con la sua presenza istituzionale.
Il fantasma femminista è più che altro un pretesto per lanciarsi
in spettacolose bizzarrie stilistiche. Lo sforzo cromatico colloca il film nell'alveo del cinema fantastico. Le
scene liriche dell'infanzia, quelle grottesche della mondanità, quelle surreali degli incubi, sono
chiuse in sé stesse.
11. Toby Dammit
Nel 1967 Fellini viene ricoverato d'urgenza in ospedale e rischia
di morire. Il trauma dello scampato pericolo incide sulla sua carriera chiudendo una fase (non a caso dal
1963 non ha più al fianco Pinelli) e aprendone una nuova molto più disimpegnata e molto
meno impegnativa, che non a caso si apre con uno schizzo gotico.
Toby Dammit (1968) è un episodio
"nero": un divo straniero viene accolto ubriaco all'aereoporto di Roma da una delegazione italiana;
sottostà alle formalità (intervista, ricevimento), ma appena libero salta sulla sua auto
sportiva in piena notte e si lancia su una strada avvolta da fumi infernali; giunto a un ponte che è
crollato cerca di saltarlo alla rincorsa, ma un cavo d'acciaio gli mozza la testa.
Il barocco figurativo deformante di Fellini calza alla meraviglia
l'atmosfera torbida e allucinata del racconto; un horror metafisico sprigiona dal paesaggio inanimato in
cui il demone precipita verso l'inferno. Impregnato di umori decadenti (l'allegoria della putrefazione, la
corruzione della carne, la follia dell'artista, l'anima venduta al diavolo), il film contrappone le fredde,
vuote, affollate e inutili cerimonie romane alla fuga in auto attraverso un deserto buio che scorre sempre
più veloce fino all'orrendo schianto.
12. Satyricon
L'anno dopo Fellini porta sullo schermo l'archetipo a cui si era
ispirato per La Dolce Vita: il Satyricon di Petronio.
La decadente capitale degli ultimi
anni dell'Impero stimola l'estro figurativo del regista che non bada tanto a infierire sulla crisi quanto a
estrarre dalle sue macerie l'istinto di autodistruzione che la autoalimenta. L'ozio malinconico e lascivo
dei due protagonisti, vagabondi per i labirinti del piacere, assurge ad antenato storico dell'alienazione
moderna. L'archeologia fantastica di Fellini è una variante della sua memoria fantastica, solo che
l'archeologia è una memoria di massa invece che individuale. Gli accenti lugubri e notturni di
Toby Dammit conferiscono un tono più cupo a certi episodi; l'oscenità e la morte
dilagano ineluttabili.
La Roma antica di Fellini è totalmente fantastica da sembrare un mondo
fantascientifico.
13. I clown
Nel 1970 Fellini realizza per la televisione uno special sui
I Clowns; rende così omaggio, dopo Petronio, all'altra maggiore fonte di ispirazione.
L'inchiesta si presenta, ovviamente, come una chiacchierata a ruota libera gonfia di nostalgia per il
tempo dell'infanzia e di poetico rimpianto per la lenta, inesorabile estinzione cui stanno andando
incontro i grandi artisti di circo, frammista di ricordi e culminante in una metafora metafisica.
L'archeologia mitologica di Fellini compie un'altra lucida. L'osmosi fra vita e
arte vi è qui rappresentata allo stato più puro: l'indagine consiste più che altro
nell'intrufolarsi nella vita del circo ed è condotta dalla stessa troupe di Fellini. Il reportage (che
ha già la funzione demistificatoria di mostrare) serve a far vedere cosa c'è sotto le
maschere dei clown.
Fellini si avvicina al tema per cerchi concentrici, paragonando
i numeri del circo con i "buffi" (Palazzeschi) della sua cittadina di provincia: il matto che corteggia
le contadine, la monaca nana che vive un po' in convento e un po' in manicomio, il mutilato nostalgico
del regime fascista, il matto che crede di essere ancora in trincea, l'ubriaco che la moglie va a raccogliere
in carriola all'osteria. Una tavolata fra gli artisti del circo Orfei e la troupe di Fellini è
l'occasione per raccontare un po' di aneddoti; il nucleo centrale è comunque costituito dalle
interviste condotte in Francia sull'evoluzione del costume e delle gag dei clown nel tempo; la ricerca
affannosa della poca documentazione superstite (la società ingrata ha riso ma non ricordato), un
defilée dei litigiosi Antonet, bevute in compagnia, interviste patetiche a vecchietti intercalate a
ricostruzioni dei loro numeri più celebri. Il gran finale è un numero a cui partecipa anche
la troupe: i clown piangono la morte di un loro compagno, vengono rievocate decine di gag storiche e,
mentre la cerimonia funebre degenera in un'orgia di stelle filanti, un giovane intellettuale intervista
Fellini e gli chiede qual è il messaggio del film, ma Fellini non fa in tempo a rispondere che due
secchielli si infilano sulle loro teste.
14. Roma
Alla sua città ideale Fellini dedica il terzo degli omaggi
mitologici: Roma (1972) è un documentario fantastico sulla "Città
Eterna" vista attraverso l'occhio deformante del regista, una Dolce Vita ancor più
personale; un itinerario spaziale (dal raccordo anulare al centro) e temporale (dal fatidico 1939 dell'arrivo
di Fellini fino al 1972) che porta alla luce le rovine e le meraviglie di una civiltà immaginaria,
quasi fantascientifica.
Il virtuosismo stilistico tocca qui un apice di barocchismo delirante: Fellini si
promuove a mago illusionista del cinema (Meliés) e a formidabile caricaturista dei costumi
(Gadda).
Il viaggio dentro la città turgida, lugubre, gonfia è un viaggio
dentro il caos: caotica è la passeggiata della troupe (ancora protagonista, di nuovo mancano attori
professionisti) e caotica è Roma. Fellini vuole farne una nuova Babele, in cui ogni monumento
è una torre metafisica legata a un suo rituale e a un suo senso metaforico; Roma è anche
la donna ideale, un ventre materno, carnoso, palpitante, ma lussuriosa seducente amante, una compagna
comprensiva e fedele.
I Clowns aveva messo in luce la decadenza verso la morte, Roma
è la solitudine dell'uomo moderno, prigioniero dei falsi riti e dei falsi miti della nuova
società.
A Rimini, Roma era un luogo leggendario. Fellini comincia
con il ricordare le proiezioni di fotografie al collegio, i film kolossal e i cinegiornali su Mussolini, i
discorsi all'osteria. Il giovane provinciale arriva a Roma e si sistema in una misera pensione da una frotta
multiforme di "buffi:" bambini scalmanati, un attore a riposo, un giovane nato stanco e cocco di
mamma che si abbraccia con la lampada, la padrona grassona e puritana sempre distesa nel letto, le
domestiche ruspanti e fuori brulica un'umanità ancor più variopinta, come durante una
tavolata all'osteria: suonatori ambulanti, vecchi in canottiera che si strafogano, donne volgari che si
danno arie da signore, il sacerdote che chiede l'elemosina, il coro e il brindisi. Di notte per le strade del
centro un pastore con il suo gregge di pecore, in periferia prostitute procaci avvolte dalla nebbia. La
troupe di Fellini percorre il raccordo anulare in un tourbillon di auto incolonnate, di bivacchi di
prostitute, di autobus carichi di tifosi, di edifici in costruzione, con un cavallo bianco che corre libero in
mezzo alle auto, un uomo che spinge il carretto, Fellini che dà ordini alla cinepresa issata su una
gru del camioncino, una colonna di carri armati, autostoppisti.
Si fa notte: un violento acquazzone e un incidente stradale (un autocarro
rivoltato in fiamme e tre vitelli sfracellati sull'asfalto) provocano un ingorgo; i clacson, le sirene, la gente
chiusa nelle auto, i volti deformati dalle gocce che rigano i finestrini; più avanti un cordoni di
poliziotti con caschi e scudi e un corteo di dimostranti; la gru si protende sull'ingorgo come un'astronave
aliena.
Il giorno dopo (sole splendente) un autobus di turisti , studenti che assistono alle
riprese e pongono domande (chiedono a Fellini di raccontare la Roma industriale).
Con un salto nel tempo si torna agli anni Quaranta, in un teatrino affollato da
popolani scollacciati (signori addormentati, signore pettegole, ragazzi attaccabrighe), dove si esibiscono
ballerini, macchiettisti, comici, l'elettricista che debutta in un numero di tip-tap, il presentatore che
risponde per le rime agli insulti del pubblico, un trio canoro di zitelle; ma il vero spettacolo lo fa il
pubblico con i suoi lazzi e i suoi commenti; poi, in un rifugio antiaereo, un fascista in pigiama, un
travestito, una mamma che canta la ninna nanna.
La troupe si inoltra nel sottosuolo per seguire i lavori della metropolitana: la
necropoli, il piazzale dove fervono i lavori (frastuono di macchine e di uomini), la macchina "talpa"
(un animale meccanico da fantascienza, enorme, docile e possente); d'improvviso si scopre un antro
gigantesco, tappezzato di affreschi rimasti sepolti per secoli, ma l'aria che penetra a folate dalla breccia
cancella rapidamente i disegni dalle pareti fra lo sgomento ed il rimorso degli uomini.
I capelloni che fanno l'amore sulle scalinate danno lo spunto per parlare delle
case di tolleranza di un tempo, quelle per i poveri (la folla che fa ressa nel corridoio, i defilée delle
puttane a tette all'aria, esagitate, animalesche, orgasmiche, urlanti come belve in gabbia, davanti al
pubblico di marinai, soldati e padri di famiglia; poi suona il campanello e il bordello chiude) e quelle per
i ricchi (salotto principesco, ascensore, ma la scena del defilée è identica).
Si innesta a questo punto si innesta una fantasia sarcastica che rappresenta
l'apice barocco del cinema mondiale: una principessa decaduta accorre ad un funereo party
dell'aristocrazia fascista un cardinale pacioso e imperturbabile; assiso sul trono in cima al palco assiste a
un defilée di indumenti religiosi (volti nella penombra, la principessa che parla sottovoce, la
schiera degli ospiti-spettatori, cadaveri imbalsamati, un organo a canne e fumi d'incenso): un balletto di
modelle nei più svariati completi da suora, due sacerdoti sui pattini, due parroci di campagna in
bicicletta, costumi sempre più lambiccati, sfarzosi, luccicanti avanzano a passo di danza
(l'incedere solenne dei cardinali, schiere di automi implacabili) e una statua di veli e teschi chiude il
corteo; un globo d'oro abbaglia e ipnotizza il pubblico che cade in trance, che delira, che smania:
è il Papa.
Di nuovo a spasso per Roma la macchina da presa esplora la fauna eterogenea
di vecchi e giovani: il passeggio dei turisti, i capelloni che cantano sulle scalinate, gli avventori dei
ristoranti all'aperto, la polizia che carica i dimostranti, un match di pugilato.
È notte, le strade sono deserte e silenziose; gli ubriachi, i cantanti, un
carrozzino, l'attrice Anna Magnani che rincasa, una schiera di centauri che scorazza per la città
in un nuovo luminoso e assurdo cerimoniale.
Un affresco monumentale dell'umanità, un'enciclopedia
fantastica della civiltà, una moderna sinfonia mozzafiato, un crescendo di suggestioni e di
allucinazioni su e giù per il tempo, un completo caos narrativo di colori e di rumori, di volti senza
nome che si accatastano sullo schermo secondo un purissimo caso narrativo, un caleidoscopio di luci
ipnotizzanti, ingigantimento mitomaniaco di una putrefazione spettacolare in corso da anni. È
talmente ampio il catalogo di riti e di volte che il regista è costretto a procedere per elenchi e per
defilée.
Un film straripante di immagini, il più denso della storia del
cinema.
15. Amarcord
Amarcord (1973), co-sceneggiato con Tonino Guerra, dedicato alla provincia degli anni
Trenta, conclude la tetralogia degli omaggi. La funzione spettacolare e sentimentale dei "buffi",
frutto della sua deformante autobiografia, è dichiarata: il film è una collezione di
barzellette, di pettegolezzi e di aneddoti. L'approccio peraltro è più obiettivo del solito,
né risentito, né nostalgico, ma sempre da illusionista. Fellini si mantiene ben al largo dalla
realtà, protetto dalla sua poetica e dal suo barocco e rispolvera il tema dell'adolescente che deve
crescere fra gli orrori della vita.
La storia si svolge nel periodo fascista in un paese immaginario della provincia
Italiana popolato di creature bizzarre e mostruose.
La storia viene introdotta da un vecchio che dichiara la fine dell'inverno,
e da inquadrature che delimitano il territorio mitico:
cimitero, spiaggia, grand hotel.
Una sera il paese si raduna in piazza per la festa d'addio all'inverno,
che consiste in un grande falo` con musica briosa della banda paesana.
Sfilano la scema ninfomane "Volpina" che gode delle attenzioni degli uomini,
la bella "Gradisca" e il suo elegante e vanesio innamorato,
il motociclista pazzo (che fa un'incursione applaudita e scampare subito),
l'avvocato petulante che (a festa finita) racconta la storia del paese (insultato
dai cittadini che stanno cercando di dormire nelle loro abitazioni).
Il "protagonista", Titta,
è un adolescente figlio di un padre autoritario e di
una madre brontolona.
Le personalita` dei professori di scuola vengono presentate attraverso una
sequenza di buffe lezioni, mentre gli studenti mattacchioni si prendono in
giro a vicenda.
"Volpina" fa la pipi` sulla spiaggia e gode che alcuni muratori la spiano.
Il capomastro, Aurelio, e` il papa` di Titta, che ha pieta`
della poverina e la manda via.
La sua famiglia è completata da un nonno arteriosclerotico, uno zio
giovane e fannullone, una serva procace, un fratellino dispettoso.
A tavola sono sempre litigi, in particolare fra il capofamiglia e il pigro
cognato, il capofamiglia e i bambini birichini,
e, dulcis in fundo, il capofamiglia e la moglie, Miranda, perche' e` a lei
che alla fine Aurelio addebita tutti i mali della sua vita.
La sera la gente passeggia per le strade, e la grande attrazione e` la
"Gradisca", seguita dai ragazzini, che ne ammirano il culo, e dal gerarca
fascista, che la osserva a distanza.
Passa il calesse con le nuove prostitute acquisite dal bordello del paese,
e tutti le osservano con curiosita` e persino invidia.
Il ragazzo si confessa dal prete e racconta del primo bacio con la Volpina,
della sua infatuazione per la Gradisca.
I ragazzi si radunano di nascosto dentro un'auto e si masturbano tutti insieme
pensando alle donne piu` attraenti del paese.
I fascisti del paese, capitanati dal veterano fascista
in sedia a rotelle, accolgono in pompa magna Mussolini, e poi corrono tutti,
dietro al Duce, verso il centro del paese, mentre il paese li saluta con
il braccio alzato. L'unico dissidente e` proprio Aurelio, che odia i fascisti,
e vorrebbe andare a fare una scenata, ma la moglie, piu` saggia, rifiuta di
aprire il cancello, perche' sa che l'uomo si caccerebbe nei guai.
La sera i fascisti sentono un violinista che intona l'inno socialista e
sparano all'impazzata verso il campanile in cui si nasconde finche' non
lo colpiscono: era un semplice grammofono che qualche mattacchione aveva
piazzato in cima al campanile. E poi se ne vanno cantando.
L'assenza di Aurelio non e` passata inosservata: viene convocato dai fascisti
e viene obbligato dal veterano in sedia a rottelle a bere olio di ricino.
La moglie lo attende in ansia e gli corre incontro quando lo vede barcollare
contro il muro: in fondo si vogliono bene. Ma Aurelio si riprende subito e
inveisce contro il cognato, che e` il probabile delatore.
L'avvocato che fa da guida presenta il Grand Hotel e racconta come
la "Gradisca" si guadagno` il suo soprannome: si offri`
al principe di passaggio. Racconta anche la volta che venne in visita un
emiro con trenta concubine, e come il venditore ambulante si vanti ancora
di averle sedotte con il suo flauto incantatore. (La scena cambia da slapstick
del muto a musical di Broadway).
Una sera i ragazzi spiano lo zio fanullone di Titta che balla al
Grand Hotel, vestito
da damerino, con una avvenente straniera fino a notte fonda.
Aurelio e la famiglia vanno a prelevare il fratello di Aurelio, Teo,
dal manicomio dove e` ricoverato per una gita in carrozza. Aurelio e` contento,
ma Teo non ragiona: si fa la pipi` addosso e poi si arrampica su un albero,
e rifiuta di scendere se non gli danno una donna. Aurelio va su tutte le furie,
ma Teo rimane sull'albero finche' non arriva una suora nana dal manicomio
che in due secondi lo fa scendere.
L'intero paese si riversa sulla spiaggia: sta per arrivare un transatlantico.
Si spingono in mare a bordo delle varie barche dei pescatori e aspettano
pazientemente fino a quando il sole tramonta e sale la nebbia.
Stanno per addormentarsi tutti quando nel buio appaiono le mille luci
della nave gigantesca. Il mostro sfavillante passa di fronte a loro in pochi
minuti e loro lo salutano piangendo come si saluta un sogno impossibile.
Il transatlantico (il sogno) se ne va, ma la nebbia (la realta`) rimane.
E il nonno ci si perde: tutto e` scomparso, come nella morte.
Invece e` di fronte al cancello di casa sua (forse un altro simbolo) e vede
uscire il nipotino che va a scuola, indifferente alla nebbia sempre piu` fitta.
Un'altra notte passano le auto da corsa, e la gente le applaude nel buio.
Le donne accolgono in trionfo il grande campione, che si porta via la
Gradisca.
Titta va a sedurre la tabaccaia cicciona, che
lo stritola fra le sue gigantesche tette. Il trauma e` tale che il ragazzo
si ammala e sua madre deve chiamare il dottore.
La folla al cinema viene distratta dalla neve: escono tutti a guardare
lo spettacolo della natura. E` tornato l'inverno. La nevicata crea un paesaggio
che sembra un labirinto. Il ragazzo insegue invano la Gradisca, mentre il
motociclista esibizionista gli sfreccia davanti.
La moglie di Aurelio finisce all'ospedale, e Aurelio porta Titta a
visitarla. L'uomo non tradisce mai un'emozione, ma, a modo suo, le vuole
bene e ne sente la mancanza.
I ragazzi che stanno giocando con la neve vengono distatti da un pavone
che atterra davanti a loro e apre la coda.
La madre di Titta muore. Aurelio non piange, ma rimane solo in casa a pensare.
La Gradisca sposa un carabiniere e lascia il paese.
La "storia" e` semplicemente un affresco di un anno, attraverso le sue stagioni,
che sono anche le stagioni della vita. Ma e` soprattutto un pretsto per
un defilée di umili e di falliti, di pagliacci e di spettatori.
L'adolescente li spia tutti con gli amici, che a loro volta compongono
una congrega di frustrati sessuali.
Fellini scandaglia "il tempo perduto" alla ricerca delle origini
delle sue paure (la morte, la solitudine). I relitti alla deriva affiorano e sono subito sommersi dalla massa.
L'humor di Amarcord è un humor nero.
16. Casanova
Casanova (1976) inaugura una nuova fase della parabola
felliniana, una più cupa e astratta meditazione sull'angoscia esistenziale, un'ossessiva
identificazione del regista in figure particolarmente metaforiche. Il
provincialismo naïf degenera ormai apertamente in illusionismo calligrafico, in suggestione fatua e
ridondante. più complesse e negative, funeree e crudeli. L'ottimismo chapliniano e cristiano
sfuma in una desolata presa di coscienza della dissoluzione della vita in termini morali (solitudine) e fisici
(morte). Sfuma il tema autobiografico; in compenso si fanno largo controfigure (sempre del regista).
Casanova, il vitellone del gran mondo, è un
nevrotico che digrada malinconicamente verso la morte; il suo sesso non lo salverà; Fellini rende
il processo di fatiscenza attraverso una narrazione onirica e surreale. Casanova si rarefa
progressivamente, Casanova è una maschera vivente, ridotta a marionetta meccanica e vuota, che
ripete all'infinito il suo inorganico compito, automa inumano che solitudine e morte divorano senza
suscitare in lui sentimenti, macchina d'amplessi passiva e inerte, fantasma. Il film è un lento
funerale del fellinismo, a cominciare dalle maschere (il Carnevale di Venezia) e a finire con le donne
(l'erotismo decadente).
La donna assume significati metafisici: i labirinti del sesso femminili sono
vertigini vuote e buie, indecifrabili. La donna è un'astrazione della paura e del fantastico, la
donna come preparazione della morte. Casanova, l'uomo leggendario che ripete sé stesso
all'infinito, sempre più vecchio e più insoddisfatto, è invece Fellini stesso e le
donne rappresentano allora i suoi film in un'altra ardita meditazione dell'arte [Casanova era
evidentemente un raffinato artista la cui arte consisteva nel sedurre (come Fellini) e nel fare l'amore (per
Fellini fare cinema)].
Il film comincia con il Carnevale di Venezia. Un'enorme testa
di donna precipita nella laguna; Casanova, accompagnato da un uccellino meccanico (che emula il pene)
vaga per il mondo passando di donna in donna.
Un altro defilée felliniano: una monachella
maliziosa, una grassa bambinona, una pallida esangue cucitrice, una decrepita mistica matrona, una
gigantessa, una modella che si presta per una gara erotica, fino a una bambola meccanica che chiude
malinconicamente la sua carriera.
Ridottasi a fare il bibliotecario nel castello di un conte tedesco, maltrattato dai
servi e dai cortigiani, rievoca il passato e sogna di essere ancora con la sua donna preferita: la bambola
meccanica.
17. Prova d'orchestra
Nel 1978 Fellini prepara un mini film per la televisione,
Prova d'Orchestra. Metà allegoria dello sfacelo nazionale (cioè inquietante
allarme/appello democratico) e metà allegoria della paura e della rassegnazione della morte e
della crisi religiosa (la viltà degli atei al cospetto del Giudizio Universale), il film ha il sapore di
un disimpegnato "divertissement" d'alta classe, apologo brioso che apre le porte al genere
"apocalittico" degli anni Ottanta.
La troupe di Fellini intervista gli orchestrali arrivati alla
spicciolata in una cappella secolare per provare la sinfonia agli ordini di un maestro pignolo; gli
orchestrali sono poco professionali e molto esigenti; protestano per un nonnulla, si irritano, rivendicano,
antepongono i loro diritti di lavoratori al dovere, ma due colpi sordi li gettano nel panico: un'enorme palla
per demolizioni abbatte un muro e in mezzo al polverone tutti i musicisti si affrettano a riprendere
diligentemente il loro lavoro secondo il tedesco stentoreo del direttore nel buio.
Ogni uomo è un nevrotico suonatore d'orchestra monomaniaco, anela
all'ozio e al benessere gratuito a quella che è una sorta di insubordinazione metafisica, ma in
realtà ha bisogno di esprimersi con il proprio strumento. Il richiamo perentorio del destino
risveglia questo bisogno, che poi è il bisogno di fare arte, cioè di vivere.
Fellini è contro la barbarie, l'oscurantismo.
La struttura del film ricorda quella degli altri due film-inchiesta, in particolare
I Clowns: uno scketch comico intervallato da flash di film-verità e concluso da una fantasia
metaforica.
Fellini esplora i suonatori attraverso il loro strumento, li esamina ad uno ad
uno, secondo la solita prassi di defilée macchiettistico.
Il caos felliniano aspira da sempre all'armonia, all'ordine, all'organizzazione. Il
caos irrazionale della vita di tutti i giorni, dei dettagli, dei particolari rientra in uno schema logico
più ampio, cosmico e religioso, un po' come la confusione dei pagliacci rientra nel programma
dello spettacolo del circo.
La palla che sfonda la parete è il caso; nei film di Fellini è
sempre il caso a rimestare il caos e ad originare la trama: in questo film Fellini presenta un caso
particolare, quello che scatena l'ordine; caos, caso e ordine divengono parte di una filosofia non
deterministica del cosmo.
18. La città delle donne
Fellini torna al suo mondo onirico deformato con La Città delle Donne (1980): preso tra il purgatorio di una città ideale e l'ossessione
libidinale di Casanova, il manierismo figurativo di Roma e il visionarismo subliminale di
Otto e Mezzo, fra il defilée decadente e il trucco alla Meliés, il film ripropone molti
temi del fellinismo.
Mastroianni incontra in treno una bella sconosciuta e, colto da
raptus erotico, tenta di possederla nella toilette; la insegue per prati e boschi finchè raggiunge
l'albergo in cui si sono date convegno migliaia di femministe; Mastroianni si aggira divertito in questa
specie di zoo finchè non diviene oggetto dell'ira di un gruppo di animose; portato in salvo da una
cicciona lasciva, scampa i suoi approcci grazie all'intervento della madre di lei.
Per fuggire alla caccia di alcune arpìe ubriache ripara nella villa di un
dongiovanni (immagine vivente dell'organo sessuale maschile, vecchio Casanova) che ha allestito un
museo dell'erotismo, sta cercando di fabbricare in laboratorio la donna ideale e celebrando il suo
"pensionamento" erotico.
Alla festa capita di tutto: trova sua moglie ubriaca ed eccitata, irrompe la
cicciona travestita da poliziotta, due odalische lo illudono ma se ne vanno. Fuggito su un ottovolante,
ricorda le fantasie erotiche della giovinezza sulla spiaggia, nei cinema e nei bordelli; le femministe lo
catturano, lo ingabbiano, lo processano, lo espellono; ma all'improvviso scorge la sua donna ideale, la
rincorre su una torre, si libra su una mongolfiera a forma di donna ideale ma una delle femministe spara
al pallone. Si risveglia in treno al fianco della moglie. Il treno entra in una galleria.
Luna park, zoo, circo, carnevale, fantascienza, Atlandide, fiaba,
visione allegorica di stampo medioevale, musical di Broadway e film di Fellini, porno e sketch televisivo:
tutto ciò che serve a far spettacolo viene imitato e citato. Surrealismo ed espressionismo (il
Meliés dei viaggi attraverso il subconscio e il Lang delle città-incubo) agghindano il
viaggio di Fellini a ritroso nell'utero materno, viaggio che rifonda su basi cinematografiche il viaggio
dantesco. Ascensori, mausolei, ottovolante, cunicoli, ville dei tre regni dell'aldilà, il treno
caronteo, la campagna in cui Mastroianni si trova smarrito "nel mezzo del cammino" di sua vita, la
beatriciana donna ideale che lo trascina fin quasi a Dio.
Come Dante, Fellini è condizionato dalla mania dell'enciclopedismo:
accumula tutti i materiali mitici della propria epoca, come se tentasse di cavar dalla quantità il
senso dell'esistenza; l'unica differenza è che il paradiso felliniano è la vagina e il suo dio
è la donna ideale, moglie, amante e madre.
Oscillando fra goliardie fumettistiche (il pene vivente) e citazioni letterarie (il
processo kafkiano), fra reminiscenze cineamtografiche (tutta Hollywood dall'horror frankensteiniano
all'esotico avventuroso, dal thriller al gangster, dal musical alla slapstick), Fellini ripete un'altra volta i
suoi temi.
L'esorcismo di Fellini nei confronti della morte si precisa sempre più
chiaramente come un desiderio di tornare nel grembo materno: più la morte si avvicina
più il regista si immerge nell'immaginario mondo femminile che da sempre supporta i suoi film
(romani o riminesi che siano).
19. E la nave va
Fellini, che ha sempre avuti problemi con i produttori per gli alti
costi delle sue opere, minaccia di emigrare negli Stati Uniti, disgustato anche dalla degradazione del
cinema italiano che punta sempre più sui filmetti comici e disturbato dalla depressione sociale che
ormai investe ogni piega della vita italiana.
E la Nave Va (1983) prosegue la serie di apologhi o
favole morali sul mondo contemporaneo; dopo il fallimento del Sessantotto (Prova d'Orchestra) e
del femminismo (La Città delle Donne) è la volta del fallimento della
società occidentale, preannunziata da contorni apocalittici della storia dei fedeli di una soprano
che salpano sulla nave per spargerne in mare le ceneri (questo il pretesto mondano per esibirsi agli altri),
con il loro retaggio secolare di decoro, ipocrisia e schermaglie e incappano nella guerra, in una nave da
guerra austriaca che reclama alcuni profughi serbi e che un serbo fa saltare in aria; anche il transatlantico
affonda e l'unico sopravvissuto (ovviamente il regista stesso sotto le mentite spoglie di un reporter) si
allontana in scialuppa con una rinoceronte a bordo.
L'ipocrisia e la fatuità del rito (parodiato nella colonna
sonora) che, data la conclusione, assume il rilievo di un'intera esistenza spesa nella commemorazione di
un mito (la soprano) che, oltre ad essere morta lascia ormai indifferenti i più, tutti affacendati
piuttosto nelle loro beghe, nei loro cento meschini riti privati.
Ancora una volta Fellini cerca rifugio e sicurezza in un eccesso allegorico (la
nave, il viaggio, il ballo promiscuo, la corazzata, la voce registrata della soprano morta, la rinoceronte),
tutto sommato riflesso soltanto delle sue incertezze, dei suoi dubbi e delle sue titubanze, in cui si
riflettono la storia sociale e la filosofia dell'esistenza. Quelle metafore non sono altro che riflessioni su
altrettante tematiche del suo tempo (l'incubo nucleare, il caos italiano della crisi economica,
l'imbarbarimento dell'arte) e di tutti i tempi (la paura della morte, il senso dell'esistenza).
Il percorso metafisico è in realtà un susseguirsi casuale di
meditazioni, al fondo delle quali c'è il desiderio, il sogno, la chimera che lui si possa salvare dal
naufragio, che nel momento supremo la vita riveli una strada di salvezza.
Il feticismo corporale di Fellini (un maniaco caricaturale e grottesco di sagome,
di silhouette, di costumi) si acuisce di pari passo con l'afflato fantastico dei suoi film, ogni volta
più deliberatamente artificiali, abnormi, paradossali.
L'umanità che, cantando e brindando, corre verso la catastrofe
più che in balìa delle proprie incoscienza e stupidità sembra inerme al cospetto
della forza della natura che regola la storia dell'universo (la catastrofe delle catastrofi); come sempre la
salvezza è nella menzogna (nessuno sa veramente come andranno le cose e il reporter ha l'aria di
aver preso in giro tutti) e nell'irrazionale.
Il testimone del suicidio di massa corrente, Fellini, ci si diverte sotto i baffi,
affoga l'angoscia nella segreta certezza che tutto non sia altro che un gioco in ogni caso, un modo poetico
e dignitoso di tirare l'ultimo respiro prima di morire.
20. Ginger e Fred
Ginger e Fred (1986) sono due anziani
ex-ballerini che la televisione vuole riproporre insieme per uno show natalizio. Ginger è una
donna d'affari con una felice vita di famiglia; gli organizzatori la caricano su un pullmino con gli altri
invitati dello show (un travestito, un ammiraglio e un gruppo di imitatori). Invece Fred (Mastroianni)
è un fallito, bisognoso di soldi, anche se ancora pieno di orgoglio per il glorioso tip-tap.
È per lui che lei accetta di restare in quello zoo di mostri (frate volante, fantasmi, nani musicisti,
criminali, mitomani ecc.), lui che, a sua insaputa, l'aveva sempre amata e si è ridotto così
per una sorta di fedeltà nei suoi confronti. La vicenda si svolge nello squallore di una Roma avida
e volgare e culmina nella parodia della trasmissione televisiva. Fred rinasce e può sperare in un
futuro migliore, mentre lei torna ai suoi affari.
L'abiezione generale è resa da un calcolato campionario di
gag grevi, sarcastiche, volgari, iperreali e da una sfilata tragicomica di macchiette-mostri, fra cui una
ragazza innamorata di un alieno, un uomo che ingravida con lo sguardo, l'inventore degli slip
commestibili ecc.
Fellini dà uno squarcio di televita, di come la televisione restituisce
all'uomo della strada la realtà quodiniana attraverso appunto l'esibizione di mostri a quiz, show,
inchieste ecc. L'affresco è di un ossessionario demenziale, un delirio dantesco di mostri, un circo
di attrazioni. Fellini mostra come la civiltà moderna sia un indiscriminato accumulo di segni
senza senso, un vuoto cosmico; il messaggio è di una melodrammaticità nostalgia, quella
di un passato fatto di tenere emozioni, di piccole realtà. La scelta è fra degradati e patetici
(nell'universo felliniano non esistono più compromessi). Il più anarchico e malvagio dei
suoi film.
Il suo ultimo film fu
La Voce della Luna/ The Voice of the Moon (1990).
Mori` nel 1993.
|