Hollywood
Negli anni '20 Hollywood crebbe a dismisura e il cinema divenne l'arte nazionale degli Stati Uniti.
La figura dell'attore subì un cambiamento radicale; mentre ai tempi di New York l'attore cinematografico era anche attore teatrale e si divideva fra Broadway e il teatro di posa, a Hollywood (dove esisteva solo il cinema) nacque la prima generazione di attori di cinema puri. Si formò una grande comunità di personaggi celebri e ricchi, fra i quali intercorsero amicizie, odii e scandali. Il pubblico cominciò a interessarsi anche alle vicende private dei divi, che presero il posto, nella suggestione collettiva, dei mitici fuorilegge della frontiera o dei miliardari venuti dal nulla; trasgressori anche loro dell'ordine sociale, esercitarono un'influenza enorme sulle mode e sul pensiero del tempo. Il pubblico confondeva vita reale e vita recitata, assegnava all'attore la stessa personalità dei ruoli ch'egli interpretava; e l'attore, assecondandolo, accresceva il suo ascendente sulla massa, assurgeva a una sorta di divinità pagana (dio dell'amore, dio dell'audacia, dio del pianto, etc.); era una merce mistica. Il divo è la persistenza dell'immaginario; protagonista delle prime pagine dei rotocalchi come dei suoi film.
Gli attori scalzarono i registi; nel 1919 i tre più famosi, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e Charlie Chaplin, con Griffith, fondano una loro casa produttrice, la United Artists.
Le star garantivano il successo commerciale dei film ed erano perciò più ambite dei registi stessi. Come sempre il fenomeno di folklore veniva assorbito e sfruttato dal businness.
L'industria cinematografica rasentò la catena di montaggio, per il modo in cui venivano prodotti i film e per la rigida suddivisione dei compiti. Proudttore, regista, sceneggiatore, operatore, attore divennero professioni completamente separate proprio per consentire il lavoro in parallelo. I registi divennero artigiani avvezzi a qualsiasi sacrificio artistico pur di sfornare film di cassetta, capaci magari di sfornare dieci film all'anno per cinquant'anni di seguito, come Allan Dwan.
Folklore e businness trovarono un ideale punto d'incontro nella canzone di gesta dell'America bianca: il western. Nato con i primi capolavori di Porter e Ince, aveva scoperto in fretta il fascino dell'uomo a cavallo immerso nella solitudine della prateria, degli assalti alle diligenze, ai treni o alle banche, delle battaglie fra i pellerossa armati di scuri e archi e i soldati della cavalleria nella tradizionale divisa, delle lunghe carovane in marcia verso ovest, della vita avventurosa di cercatori d'oro e di cacciatori di pelle, delle grandi mandrie e del rude mestiere del cowboy, dei saloon con la loro pittoresca folla di barman e pianisti, bari e gorilla, pistoleros e sceriffi, fuorilegge e cacciatori di taglie, dei villaggi attorniati dal deserto con le due solite file di case (con le pompe funebri e il maniscalco bene in vista) e in mezzo ad esse la via percorsa dai carri, dai cavalieri, dalle donne, dei duelli all'ultimo sangue e dei rodei, della civiltà del revolver.
Il predominio dei cowboy fu conteso, oltre che dalla nascente grande scuola comica, dai divi del cinema avventuroso, Fairbanks e Valentino, e da Mary Pickford. Il fanatismo senza precedenti che circondò l'exgiardiniere Rudolph Valentino, prototipo del latinlover esotico, dopo The four horsemen of the Apocalypse (1921) di Ingram, è la prova tangibile di quanto incidesse il fenomeno delle star nella vita dell'americano medio. Tra i registi di questo cinema per stars vi furono Rex Ingram, Fred Niblo, Allan Dwan, Maurice Tourneur, mestieranti senza genio, ma abili confezionatori di film di cassetta.
Il cinema d'immigrazione importò le dive europee, Pola Negri e Asta Nielsen [e almeno un grande regista, Erich von Stroheim]. L'immigrazione, che aveva creato il cinema americano e Hollywood in particolare, continuava a procurare talenti, e avrebbe ricevuto un nuovo impulso negli anni trenta, con l'avvento delle dittature europee e l'esilio, volontario o imposto, di migliaia di dissidenti.
Il cinema di immigrazione trapianta in America soprattutto il melodramma europeo, ma il suo apporto va oltre questo innesto se si pensa che i registi europei provengono da un clima sociale e culturale profondamente diverso, per cui portano con sé i germi del naturalismo e dell'espressionismo. La Parigi dei bistrots, la Vienna dell'operetta e la Berlino del cabaret, avvolte da una cappa di sinistri presentimenti, si ritrovano anche nei loro film americani, e si diffondono epidermcamente nel resto della popolazione cinematografica.
Negli anni venti Hollywood definì anche una volta per tutte la struttura in generi: comico, melodramma, di guerra, horror, gangster, commedia, esotico e western.
La potenza di Hollywood rifulse nei kolossal degli anni venti, eredi delle monumentali messe in scena italiane e delle visioni ghriffithiane; oltre a De Mille, fu Fred Nibio a dare l'opera cardine del genere, Ben Hur.
Con Sjostrom (soprattutto nella sventurata di The wind, che per difendersi da un bruto deve ucciderlo) aggiornò i suoi moduli espressivi dando maggior risalto al tormento interiore.