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Francesco Rosi fu per dieci anni assistente dei maggiori registi
del dopoguerra (soprattutto di Visconti), prima di esordire con La Sfida (1958). Con
questo film, che, attraverso l'ascesa e la caduta di un mafioso napoletano, svela i retroscena della malavita
organizzata, Rosi inaugura il filone del cinema politico, di denuncia sociale, di impegno civile, volto a
indagare dietro la facciata degli avvenimenti, a scovare scandali, a segnalare le collusioni politiche, a far
luce sulla verità.
I Magliari (1959) è una commedia sulla vita degli
immigrati italiani in Germania, con al centro un magliaro che si destreggia fra mafia, commercio e donne.
La scrupolosità dell'indagine, l'ampiezza narrativa, il lirismo emotivo trovano il giusto equilibrio
in Salvatore Giuliano (1961), film che, sul modello dell'inchiesta televisiva, traccia un
quadro duro e fedele dell'arretratezza sociopolitica italiana:
Il famoso bandito siciliano del dopoguerra, illuso di lottare per
l'indipendenza della sua regione e sfruttato dalla mafia e dalle destre per combattere il movimento
operaio, morì misteriosamente come il luogotenente che lo aveva tradito;
Rosi ricostruisce il clima di omertà e di connivenze che permise
l'assurgere dei banditi e che ne seppellì elegantemente i cadaveri; dai legami con le
autorità ad altri inquietanti retroscena, Rosi delinea le tappe di un'oscura macchinazione ai danni
del popolo italiano; l'alternarsi di flashback narrativi con cronache d'attualità (che rivelano una
lunga e non esaurita coda di delitti) assume la carica di una feroce arringa contro la corruzione dello Stato
e l'ipocrisia della vita pubblica. Epica ejzensteiniana, retorica democratica, suspence, letteratura
meridionalista e fatalismo siculo adombrano gli ultimi cascami di neorealismo e di melodramma.
Tecnicamente il cinema-inchiesta di Rosi culmina con Le mani sulla
città (1963), un lucido apologo sulla speculazione edilizia impostato in forma di dibattito,
che si serve di ambienti naturali e di attori non professionisti, e che si schiera apertamente con il Partito
Comunista contro il corrotto regime democristiano, una presa di coscienza politica condizionata
più dagli eventi elettorali dell'epoca che dall'ispirazione artistica.
A Napoli crolla un palazzo fatto erigere da uno speculatore
che, essendo consigliere della giunta, gode praticamente di libertà e impunità totali; un
comunista si dà da fare per cercare di inchiodarlo alle sue responsabilità, ma fallisce
miseramente: lo speculatore accresce il proprio potere dopo le elezioni e può varare i cantieri per
un altro complesso fuorilegge, costruito grazie alla complicità dei suoi colleghi della giunta (che
si spartiranno i guadagni) e benedetto dall'arcivescovo in persona.
Dopo un periodo di stasi, durante il quale diede però con
Uomini Contro (1970) un duro pamphlet antibellico, Rosi tornò all'inchiesta con
Il Caso Mattei (1972), co-sceneggiato on il poeta Tonino Guerra, sull'economista italiano che osò sfidare il proprio governo e
le multinazionali del petrolio nel tentativo di creare una forte industria energetica nazionale e
morì in circostanze misteriose, e con Lucky Luciano (1973), sul boss mafioso che
stese una trama di connivenze politiche in America e si lanciò nel contrabbando di droga,
entrambe dure requisitorie sui rapporti fra criminalità e potere, il tema preferito dal regista e il
più congeniale al suo stile monografico e antispettacolare, giallo e scandalistico, amaro e
appassionato, retorico e vibrante, didascalico e provocatore, teso e serrato, crudo e severo (il Robin Hood
siciliano, il don Quijiote napoletano, il petroliere dei poveri, il principe dei gangster).
Dopo il giallo politico
Cadaveri Eccellenti/ Illustrious Corpses (1976), da "Il Contesto" di Sciascia, sulle trame
eversive che in quegli anni dilaniavano l'Italia,
e Cristo si è fermato a Eboli
(1978), da Carlo Levi, due diligenti trasposizioni di romanzi, Rosi dirige
Tre Fratelli (1981),
sorta di riepilogo dei temi-chiave dell'Italia contemporanea:
Un magistrato che sta conducendo un'inchiesta sul terrorismo e
che sa di essere nel mirino dei banditi, il direttore utopista di un istituto di pena per minorenni, un operaio
estremista emigrato al Nord e separato dalla moglie, si ritrovano nel paese contadino del Sud dove sono
nati per la morte della madre; a contatto con le loro origini rurali, le tre esistenze rivelano il fondo
comune di paura e di stanchezza;
Rosi si lascia influenzare da Antonioni quando indugia
sull'incomunicabilità e quando sonda il subconscio via caleidoscopi figurativi e squarci lirici, ma
il suo smarrimento, il suo disagio, dinanzi alla piega che gli avvenimenti hanno presa, dinanzi
all'opposizione armata, al fallimento delle utopie sessantottesche, alla degenerazione della società
industriale, alla nevrosi metropolitana, descrivono con la solita acuta partecipe amarezza e una
più dolorosa disillusione i mali del suo tempo.
Il cinema di Rosi ha saputo continuare ciò che il neorealismo aveva
iniziato senza lasciarsi tentare dal deviazionismo spettacolare o sentimentale; sull'onda dei film giudiziari
di Cayatte e dei film polizieschi americani, ricordando i grandi maestri sovietici del montaggio e i nuovi
filosofi francesi del cinema-verità, ha inventata una forma cinematografica che sostanzialmente
è un thriller senza azione e a tesi; al di là della sua visione piccolo borghese della politica,
i suoi film-inchiesta hanno aperta una delle strade più battute dal cinema italiano.
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