Constance vive in un paesino della California poco piu' a nord di San Francisco. Il semplice aspetto esteriore della sua casa non tradisce nulla del fastoso ed esotico decor dell'interno. Parliamo per piu' di due ore, seduti nel suo studio di composizione e registrazione. Constance ha modo di interrompere ogni tanto la conversazione e dare dei saggi improvvisati del suo enorme talento musicale.
La prima parte dell'intervista e' un terzo grado in cui cerco, una volta per tutte, di mettere insieme una scheda biografica decente. Nessuno era mai riuscito prima a scavare nel passato di questa leggenda vivente. Constance non e' particolarmente ostile a parlare del suo (tumultuoso e pittoresco) passato, ma tende continuamente ad abbandonare la storia per saltare direttamente al presente. C'e' una riluttanza nel suo modo di parlare del passato che non e' facile spiegare. Ecco, comunque, cio' che siamo riusciti ad estorcerle, e, per quanto ne sappiamo, questa biografia e' una "prima" mondiale.
Constance e' nata a Oakland (dall'altra parte della Baia di San Francisco) nel 1939. All'eta' di otto anni prese le prime lezioni di pianoforte, che continuarono fino a dodici anni. Ha un ottimo ricordo della sua insegnante, un tipo ferreo e inflessibile, che pero' le insegno' a distinguere le note e le ottave con una precisione sovrumana. Le lezioni continuarono per quatto anni, e proprio a dodici anni Constance diede il suo primo recital. La famiglia intanto si era spostata a Greenwich, nel Connecticut, sulla costa dell'est.
La bambina prodigio esibiva anche spiccate propensioni per l'arte visiva, per cui a diciottanni scelse di iscriversi al corso di scultura e pittura dell'Universita' del Michigan. Segui' anche alcune classi di musica, ma il suo interesse principale era nelle arti visive. Nel 1960 si sposo' (matrimonio da cui ha avuto un figlio) e l'anno dopo, abbandonata l'universita' prima di conseguire la laurea, si trasferi' a New York, dove sarebbe rimasta per sette anni. Erano gli anni mitici del Greenwich Village, con tutto il fervore creativo delle arti dovuto all'underground. Constance visse quell'epoca come tanti altri ragazzi imbevuti di ideali hippie, dedicando la sua esistenza alla realizzazione della sua personalita', senza badare troppo alle sicurezze materiali della famiglia e del lavoro. Confessa senza remore di essere vissuta per lo piu' di "welfare" (i sussidi di disoccupazione del governo americano). Nel 1967 si trasferi' nel Maine, e da quel momento prese ad andare avanti e indietro fra la casa nel Maine e gli amici di New York.
La prima svolta importante si verifico' nel 1968, quando Constance tenne a New York uno "one-woman show" di scultura e pittura, insomma una esibizione personale dell'arte che aveva creato negli anni. Lo show si tenne nel negozio dell'amico Robert Rutman, che oggi e' un musicista e scultore d'avanguardia residente a Berlino. Il negozio, per la cronaca, si chiamava A Fly Can't Bird But A Bird Can Fly (un nome che aveva messo in crisi la guida telefonica, ricorda scherzando Constance) e si trovava nel centro del Greenwich Village. Robert era piu' di un semplice conoscente. Insieme stavano lavorando all'invenzione che li avrebbe resi celebri: lo "space bass".
Lo space bass, come il successivo "whale sail", e' uno strumento costruito interamente in acciaio. Una grande lamiera piegata ad arco, che funge da cassa di risonanza, e' saldata con una sbarra orizzontale sulla quale sono inchiodati a distanze fisse una serie di bastoni metallici verticali di lunghezza diversa. Ogni bastone e' fissato in modo tale che parte del bastone rimanga sotto la sbarra e una parte rimanga sopra. A seconda della posizione, della dimensione e del punto di aggancio, il bastone, una volta percosso con degli appositi martelletti o sfregato con un apposito archetto, produce delle vibrazioni diverse nella lamiera. I suoni emessi dallo space bass sono spettacolari in potenza e risonanza: percuotendo o sfregando alcune "canne" (per usare una similitudine con l'organo) abbiamo ottenuto delle risonanze che hanno continuato a crescere da sole per parecchi secondi, dando veramente una sensazione di soprannaturale, come se quei suoni, una volta creati, continuassero a vivere per conto proprio. In alcuni casi il suono, invece che affievolirsi come capita di solito, tende addirittura ad aumentare di volume, generando non solo sorpresa ma forse anche un po' di paura. Il trucco sta in quella gigantesca lamiera, all'interno della quale le frequenze si propagano e amplificano. Robert Rutman, per la cronaca, ha formato un ensemble che suona unicamente strumenti di acciaio. Non sappiamo se sia una coincidenza, ma uno degli album di Rutnam si intitola 1939, l'anno di nascita di Demby.
Nel 1970 (stessa citta', stesso negozio, stesso proprietario) Demby tenne lo spettacolo multimediale che considera il capolavoro della sua carriera. Utilizzando sculture ambientali, sculture in movimento, persone che si muovevano all'interno delle sculture, e luci che venivano proiettate sulle sculture e sulle persone, Demby riusci' ad ipnotizzare un pubblico composto per lo piu' da amici della sua comunita' artistica.
Quello spettacolo segno' in effetti la nascita formale del gruppo multimediale Central Maine Power and Light Company, che formalizzo' semplicemente l'esistenza di quella comunita' di artisti, una comunita' che adottava la filosofia di vita hippie e che conto' da un minimo di sei a un massimo di venti membri (quasi tutti auto-didatti nelle rispettive arti). Per quanto amatoriale fosse la loro attivita', tennero numerosi spettacoli in luoghi prestigiosi come il Museum of Modern Art (MOMA), il giardino delle sculture delle Nazioni Unite e il Planetarium. Erano gli anni in cui la controcultura aveva creato un'infrastruttura ricchissima per gli spettacoli d'avanguardia, e soprattutto un pubblico capace di assorbire quel tipo di arte. Ogni spettacolo fondeva gli strumenti d'acciaio di Constance con strumenti elettronici, strumenti orientali ed effetti visivi.
Nel 1976 l'esperienza termino' e Constance si sposto' a Boston. Li' conobbe
il maestro indiano Sant Ajaib Singh Ji, che la avvio' al surat shabd e
allo yoga. Demby ricorda:
"Venivo da un'esperienza molto intensa come quella degli anni Sessanta e
Settanta, che era stata un'epoca di follie, come un grande party collettivo,
e quindi venivo da una vita molto esteriore; il mio maestro mi fece conoscere
uno stile di vita radicalmente opposto, molto disciplinato e tutto orientato
alla vita interiore. Fu allora che iniziai a percepire un suono e una luce
interni, fu allora che ebbi la visione della missione della mia vita:
portare la musica del cosmo sulla terra. E' una frequenza, una vibrazione,
di cui la gente ha bisogno, e che si trova nel cosmo. Basta andarla a prendere.
E talvolta questo puo' significare un lungo viaggio verso l'esterno, talvolta
un lungo viaggio verso l'interno."
Nel 1978 formo' un duo di tabla e hammered dulcimer (il dulcimer a percussione
che Constance considera giustamente un precursore del pianoforte) con un tale
Bob del quale si sono perse le tracce. Il duo si chiamava Gandharva e si esibiva
nei club e nelle strade della cittadella universitaria di Cambridge.
"Non avevo piu' studiato musica, ma non ne avevo mai avuto bisogno. Benche'
la mia attivita' principale in tutti questi anni fosse stata quella di scultrice
e di pittrice, la musica era sempre rimasta dentro di me."
In quell'anno usci' anche la sua prima cassetta, Skies Above Skies, in cui
suona da sola tutti gli strumenti, dall'organo al dulcimer, dal cheng
al tamboura, dal piano all'organo, e canta semplici frasi melodiche
di litania indiana.
"E' un disco di musica devozionale, di preghiere messe in musica. Ero appena
stata iniziata dal mio maestro e volevo esprimere tutta la spiritualita' che
mi inonadava l'animo. Presi dai libri sacri (indiani, inglesi, biblici)
i salmi che piu' mi commuovevano e creai le musiche piu' adatte per convogliare cio'
che provavo. L'influenza maggiore su queste armonie fu il raga-rock che
era in voga negli anni Settanta, le melodie e armonie orientali."
Il paragone piu' ovvio e' quello con l'Hosianna Mantra dei Popol Vuh, soprattutto il finale, God Is, l'apice di pathos.
Nel 1979 fece il suo primo viaggio in India (ci sarebbe tornata quattro volte nei sette anni successivi). Il ritiro spirituale si tenne in un villaggio al confine con il Pakistan, circondato dal deserto e dalle montagne, privo della corrente elettrica e di qualsiasi mezzo di comunicazione.
Al ritorno nacque Sunborne, un "poema sinfonico" in cinque movimenti. Il primo,
The Dawning, e' un brano puramente strumentale di fasce elettroniche in
movimento, che raggiunge momenti di grande suggestione; lontanissimo
dall'effettismo della musica "cosmica" dei complessi tedeschi, "nuota"
invece nel subconscio, lambendo stati di paura e di allucinazione.
L'evanescente atmosfera mistica del primo disco si stempera ulteriormente nella
lentissima, languida nenia di Darkness Of Space, il salmo centrale, una melodia
semplicissima che oscilla in continuazione fra due note, e le cui liriche
sono tratte dalle "Chiavi alla liberta' dello spazio", capitolo 9 delle Tavole
di Smeraldo.
Darkness Of Space fu il suo primo brano a ottenere una certa popolarita',
ad essere trasmesso da diverse stazioni radiofoniche.
Lift Thine Eyes e' un brano piu' convenzionale di raga-rock.
Sunborne e' il pezzo piu' luminoso della raccolta, aperto da arpeggi celestiali
di cetra e da un gioviale tintinnio di percussioni, con un canto innodico in
sottofondo.
One With The Light e' una dimostrazione pratica del potere espressivo delle
sua sculture d'acciaio (space bass e whale sail).
"In questo disco sperimentai tutto cio' che sapevo fare, dagli strumenti
d'acciaio al gamelan, dal dulcimer al sintetizzatore, dal canto al
pianoforte. La musica esplora lo spazio misterioso delle nostre origini:
i cinque movimenti, in pratica, compiono un viaggio dal buio alla luce."
Un elemento significativo del disco e' l'elettronica, che contrappunta il
canto con una grande fantasia di frasi melodiche e di suoni liberi, ma che,
soprattutto, inizia ad emancipare Demby dagli schemi un po' scontati della
musica indiana.
"Per continuare a fare musica dovetti abbandonare la pittura, ma non lo
rimpiango piu' di tanto: qualcosa mi chiama, che e' piu' grande di qualunque
altra cosa. La musica, poi, e' la madre di tutte le arti. E' come un magnete,
che ti attira inesorabilmente, che tu lo voglia o no. C'e' molto di piu'
nella musica, che il semplice fenomeno sonoro, e gli ascoltatori se ne rendono
conto."
Nel frattempo l'artista stava attraversando una crisi esistenziale:
"A Boston non riuscivo a realizzarmi. Nessuno sembrava capire la mia musica,
agli show c'era sempre un pubblico ridotto. Nessuno sembrava apprezzare cio'
che facevo. Boston e' una citta' molto tradizionale, puritana e conservatrice.
Si esprime meglio nella letteratura, nella forma scritta e ragionata, che non
nelle arti libere. Nel 1980 decisi di trasferirmi a Santa Cruz, in California,
che e' un
paese molto piu' aperto ed espansivo, permissivo e sperimentale, dove gli
stili di vita piu' folli coesistono tranquillamente. Al primo concerto ebbi
un pubblico di duecento persone, e non mi conoscevano neppure. Poche settimane
dopo conobbi Stephen Hill e Anna Turner, i conduttori del programma radiofonico
Hearts Of Space (da cui avrebbe avuto origine l'omonima casa discografica) e
loro furono subito impressionati dalla mia musica. Mi procurarono subito
uno studio di registrazione professionale a Santa Rosa e la mia carriera cambio'
completamente."
Fu a questo punto che Demby ebbe l'idea per la "musica spaziale sacra":
"Veramente l'idea mi era venuto suonando il dulcimer a martello. Lo avevo
appreso da Dorothy Carter nei primi anni Settanta; ne ero rimasta subito
affascinata; e poco alla volta divenne il mio strumento preferito.
Lo suonavo sia alle feste sia per la strada. Era un modo come un altro per
guadagnarsi da vivere. E intanto mi costruivo dulcimer fatti apposta per
le mie esigenze (quello che ho adesso copre quattro ottave e mezzo, ed
e' l'unico al mondo a suonare note cosi' basse).
Ero impressionata dalla quantita' di gente che veniva attratta
da quel suono. La gente mi chiedeva di registrare cassette di quella musica.
Decisi allora di farlo."
Nacque cosi' Sacred Space Music, le cui facciate della cassetta contengono
due lunghe composizioni: The Longing e Radiance.
La prima si apre con un assolo di dulcimer, che e' la miglior testimonianza
di cosa facesse Demby dal vivo in quel periodo. L'intero brano puo' essere
visto come un brano di musica da camera: all'assolo di sovrappongono lentamente
la viola di Toni Marcus e il piano di Demby stessa e questi tre strumenti
continuano a dialogare fino alla fine.
"The Longing esprime una sensazione di angoscia, Radiance una di speranza.
Il primo pone una domanda a cui il secondo risponde. Il secondo brano ti porta
nel luogo in cui si trova la risposta alla domanda del primo. Il primo si svolge
tutto in una tonalita' minore, il secondo in quella maggiore. La tonalita'
di un brano e' fondamentale, perche' condiziona l'emozione che
quel brano trasmette."
Gia' dall'assolo iniziale di dulcimer, piu' festoso e rilassato, si intuisce
un netto cambiamento di umore per Radiance. Poi arrivano le solenni maree del
sintetizzatore e il canto etereo e dolcissimo di Demby, e questa seconda suite
di "musica spaziale sacra" culmina nel tripudio generale di tutti gli strumenti,
scandito dalle campane. Il lavoro al dulcimer e' colossale, degno di una
grande arpista classica.
"La musica spaziale sacra e' la musica dello spazio interno al nostro animo,
la musica che esprime i nostri aneliti piu' profondi, quelli che affrontano
i misteri piu' grandi: l'origine dell'umanita', il nostro rapporto con dio,
la storia della nostra razza. E' una musica che fa ricordare alla gente perche'
siamo qua, il nostro scopo cosmico."
Il fattore decisivo che emerge in questo disco e' il suo background classico: Demby riscopre la sua cultura occidentale e la sposa allo spiritualismo orientale dei primi dischi. Ne risulta una musica di notevole spessore, che puo' essere letta a diversi livelli di interpretazione.
Con il passare del tempo, in effetti, la statura di questo disco e' andata
crescendo: meno immediato e trascinante del Novus Magnificat, piu' sofferto
e meditato, e' egualmente un lavoro di grande sensibilita', di certosina
perfezione formale, di squisita armonia.
"Ai tempi della Sacred Space Music non possedevo ancora un sintetizzatore,
dovevo usare quello dello studio. Le mie risorse principali, gli strumenti
di cui ero piu' pratica, erano ancora il dulcimer e il pianoforte. Fu nel
1983 che acquistai il mio Roland Juno 60. Ottenni un prestito di ventimila
dollari dai miei parenti e mi comprai le prime apparecchiature del mio studio
personale, in particolare il primo emulatore con sampling reale degli strumenti
dell'orchestra (NDI: gli strumenti non sono sintetizzati, sono registrati su
un floppy disk). E' con quello che ho fatto il Novus Magnificat".
Il monumentale Novus Magnificat e' praticamente l'esatto opposto di
Sacred Space Music: laddove questa era tenue ed austera, quello e'
tumultuoso e barocco, quanto piu' non si potrebbe; laddove la seconda era
timidamente acustica, questo e' spavaldamente elettronico.
Mai, forse, l'elettronica era stata sfruttata in maniera cosi' viscerale,
intensa e magniloquente. Ma anche versatile e creativa.
"Un giorno cominciai a sentire dentro di me una semplicissima terza minore,
e da quel momento sentii la sonfonia crescere dentro di me. Fu come obbedire
a un ordine proveniente dall'alto.
L'opera, interamente suonata alle tastiere elettroniche, e' soprattutto un
esercizio sopraffino di montaggio sonoro, in quanto nasce dalla composizione
minuziosa sulle sedici piste dello studio di centinaia di frammenti eseguiti
separatamente alle tastiere elettroniche.
"L'elettronica mi consenti' di essere al tempo stesso compositrice, esecutrice,
improvisatrice, organizzatrice, direttore dell'orchestra e ingegnere di
registrazione. L'improvvisazione ha la sua importanza, ma non e' quella del
jazz: la chiamerei piuttosto ispirazione. Non uso spartiti nel senso
tradizionale del termine, ma scrivo la musica, la compongo a tavolino,
secondo una mia convenzione personale. Con le apparecchiature moderne direi
che il nastro e' diventato la carta e la testina del registratore e' la penna!"
(NDI: Demby compose originariamente l'opera come una sequenza di bozzetti tematici, ciascuno con un preciso significato, ma decise poi di non includere questa informazione nelle note del disco, e, benche' ci abbia lasciato una fotocopia dello spartito originale, ci ha pregato di non pubblicare quella parte.)
L'accorato spiritualismo delle opere precedenti viene convogliato in un
contesto sinfonico, che ne aumenta il potere suggestionante. L'impatto
emotivo e' travolgente e stordente.
"Per me questa non e' new age, e' "musica spaziale classica". Grazie
all'emulatore avevo finalmente a mia disposizione un'orchestra intera.
Tutte le sinfonie che avevo ascoltato divennero improvvisamente utili,
da Bach a Handel, soprattutto Bach. Ci sono temi di Bach che fluttuano
nella massa sonora. Introducevo alcune note di un passaggio e l'arpeggiatore
automaticamente le replicava per diversi secondi, costruendo cosi' un effetto
trascinante. Feci nastri e nastri di questo "Bach volante" e alla fine ne
scelsi sei minuti, che sono poi l'inizio della seconda parte."
Con questo disco Demby apri' nuove frontiere alla musica elettronica.,
dimostrando che l'elettronica non deve necessariamente re-inventare la ruota,
ma puo' essere usata per gli stessi scopi per cui una volta si usava
l'orchestra.
"Non credo che esistano parentele con altre scuole elettroniche. Quella dei
musicisti tedeschi, per esempio, esplora lo spazio esterno, non quello interno;
non va a fondo nell'anima. Cio' che conta, alla fine di un brano di musica, e'
dove ti porta, dove ti lascia. E' un brillante esercizio tecnico?
E' un viaggio astrale? Ti ha semplicemente intrattenuto per qualche minuto?
Oppure ti lascia con le lacrime negli occhi, senza fiato e senza parole?"
La rivista Pulse ha votato il Novus Magnificat fra i dieci dischi piu' importanti del decennio. Nel mio libro l'ho definito il capolavoro della musica elettronica, e non ho ragione di cambiare opinione.
Nel frattempo erano usciti i madrigali del Live At Alaron, un episodio minore
della sua discografia.
"Il pezzo per organo e' pero' il seme che ha dato origine al Novus Magnificat.
Se lo ascolti attentamente, e' la stessa melodia. Decisi di registrare quel
concerto perche' quella notte ci fu un feeling particolare. E poi il pubblico
voleva la mia musica, voleva un nuovo disco. Io sapevo che sarebbero dovuti
trascorrere ancora due anni (NDI: tanto richiese il parto del Novus Magnificat),
e sapevo gia' che l'album successivo sarebbe stato immenso. Non potevo perdere
tempo a comporre un album intermedio, e allora perferii fare un album dal vivo."
Anche l'antologia Light Of This World ha parzialmente deluso gli appassionati:
"Light Of This World e' una raccolta in cui ho voluto soltanto dare un ultimo
sguardo retrospettivo al primo decennio della mia carriera musicale. Sapevo
che era finita un'era e che adesso non sarebbe piu' stato lo stesso. Ero
in montagna durante la convergenza armonica ed ebbi la sensazione che il mondo
stava cambiando e io sarei cambiata con esso. Poi volli anche sperimentare
con il ritmo, per vedere cosa potevo ottenere."
"Poi ho fatto Set Free, sapendo che tutti si aspettavano un altro Novus Magnificat. Invece era proprio cio' che non volevo fare. Volevo continuare a sperimentare nuove forme. Avevo nuovi strumenti e volevo suonare ancora con il ritmo e volevo provare un formato piu' breve, fare della musica con uno spirito molto piu' leggero dopo quel bagno di sangue del Magnificat! Cosi' la prima facciata e' soltanto un'occasione per divertirmi un po'. La seconda facciata e' piu' seria, e credo che, almeno gli ultimi brani (da Lotus Opening a Celestial Communion), possa essere concepita come una sinfonia in piu' movimenti."
Il disco contiene alcuni dei suoi brani piu' leggeri (il Waltz Of Joy,
la world-music di Tribal Gregorian, la marziale I Set Myself Free,
la toccante Mother Of The World), ma soltanto i brani che ha citato Demby
lambiscono la grandeur del Magnificat.
Secondo Billboard, Set Free e' stato fra i quaranta album piu' venduti
degli Stati Uniti per ben trentacinque settimane.
"Dopo Set Free venni invitata a un tour che ha toccato diversi continenti:
Brasile, Egitto, Indonesia,... Recentemente sono stata a suonare alle Isole
Canarie, dentro una
caverna vulcanica, con Pauline Oliveros, Paul Horn, David Hykes e altri."
(NDI: Il concerto era parte di un festival che si e' svolto dal 9 al 14
dicembre 1991).
"Oggi passo le mie giornate lavorando per lo piu' nell'ufficio. Voglio
assumere una segretaria, perche' non riesco piu' a star dietro a tutto il
lavoro che ho da fare. Poi sto facendo delle ricerche per decidere come
cambiare le apparecchiature dello studio, e prima o poi comprero' qualcosa
di nuovo. Sto anche passando molto tempo ad apprendere il software che uso.
Sto leggendo "Il Materialismo Divino" di Satpremi Rother e "Olo-dinamica"
di Vern Woolf. Non ascolto quasi mai musica, non mi interessa molto.
Ascolto la mia musica interiore: quella e' la mia unica ispirazione.
Vedo spesso gli amici, faccio lunghe passeggiate, svolgo attivita'
psico-spirituali, curo una vita interiore che e' molto intensa."
Demby e' rappresentativa di una generazione di artisti che non sono piu'
spaventati dalla tecnologia. La sua generazione crebbe nel terrore della
tecnologia, che avrebbe alienato lo spirito e schiavizzato l'umanita'.
Da quella cultura hippie molto naif e' nata questa cultura new age, in cui
uno spiritualismo molto simile si guarda bene dal ripudiare la tecnologia,
anzi ne fa lo strumento principale per esprimere il proprio misticismo.
Proprio l'elettronica e' il veicolo maggiormente usato per esprimere le
sensazioni di intensa religiosita'.
"La tecnologia elettronica e' fondamentale. Il prezzo che devi pagare e'
lo studio: prima ci volevano soltanto dei giorni per impratichirsi con una
nuova tastiera elettronica, adesso ci vogliono mesi per leggersi questi
manuali del software! Cio' che faro' domani sara' diverso da cio' che ho
fatto ieri anche perche', banalmente, il computer mi consente di fare molto
di piu'. Con questo Macintosh posso usare fino a 99 tracce!"
Demby ci da' una dimostrazione pratica. Lo studio contiene un controller
ELKA MK88 connesso ad altri sintetizzatori: un emulatore II+HD (quello
del Magnificat), un KORG M1, un Roland D50, un arpeggiatore Kurzweil Pro II,
un expander Kurzweil 1000 PX. E un impianto di registrazione MIDI della
AIWA. Il punto focale e' pero' il computer, un Macintosh SE/30 con i
programmi Vision (per comporre) e Galaxy (per editare). Demby compone un
brano sul computer, usando le potenti funzionalita' di editing, che consentono
di cambiare la musica in tempo reale. Poi con un comando il Macintosh si
mette a suonare la musica usando tutti gli strumenti dello studio.
"L'ho usato per i due brani della compilation Polar Shift, Into Forever e
Polar Flight. Quei brani sono tipici dell'era tecnologica: io ho composto la
base, poi l'ho spedita a Paul Sutin in Svizzera che vi ha aggiunto gli archi
e l'ha mandata a sua volta a Steve Howe, il quale ha aggiunto il mandolino.
Comunque ogni tanto ci rinuncio: spengo lo studio
anche per un anno intero e faccio altro. Qui in America tendiamo troppo a
produrre in continuazione. Rischiamo di diventare "human doing" invece che
"human being"! Preferisco dare un po' di affetto e attenzione al mio ego".
La new age?
"C'e' un declino dell'industria, ma i nostri dischi entrano nei Top-40.
Credo nel formato della musica "strumentale contemporanea" (NDI: come viene
adesso chiamata da molte riviste).
La new age e' strumentale perche' la gente vuole essere lasciata sola nel
proprio spazio di meditazione, e non cercare di decifrare cosa il cantante
sta dicendo. Penso che questo rimarra', al di la' delle mode."
"Il prossimo disco?"
Posso soltanto dire che sta nascendo nella mia testa.
Penso che sara' pronto per la fine dell'anno.
Bisogna lasciare che maturi e poi, con la strumentazione
nuova che comprero', verra' alla luce.
Sicuramente il computer avra' una grossa parte nella sua composizione.
Penso che, in questi anni cosi'
importanti, cosi' turbolenti, il pianeta ci stia chiamando. Il nostro pianeta
ci chiede di rigenerarci, e ci chiede certamente di smettere di avvelenarlo.
Devo riuscire a catturare questa frequenza nella mia mente.
Per il Novus Magnificat ho dovuto viaggiare molto lontano nello spazio per
trovare la musica che mi serviva. Penso invece che per questo nuovo lavoro
trovero' il suono dentro la nostra Terra!"
Comprensibilmente orgogliosa, Constance mi fa vedere la montagna di lettere
che riceve dai suoi fan. Quasi tutti le scrivono per comunicarle le sensazioni
che hanno provato ascoltando il Novus Magnificat. Sembra lei stessa commossa
di aver fatto commuovere tanta gente. Quell'opera e' diventata, in effetti,
piu' di un capolavoro artistico, ha ormai la statura di un totem della nuova
spiritualita'.
Forrest (Los Angeles, 1959) e' figlio di un dottore cinese.
"Mio padre amava la musica piu' di ogni altra cosa. Sia io sia i miei tre
fratelli siamo stati circondati dalla musica fin dalla piu' tenera eta'. Io
cominciai a suonare il violino a dieci anni, e passai al mandolino a
quattordici. Non avevo ancora finito l'high school che gia' avevo un mio
laboratorio casalingo di registrazione con cui sperimentavo la stratificazione
dei suoni. In quegli anni ascoltavo molta musica progressiva inglese (Jade
Warrior, Mike Oldfield, Robert Fripp, i musicisti di Canterbury, i dischi della
Virgin) e continentale (PFM, Banco) ed ero influenzato dai primi esperimenti
dei musicisti rock con l'elettronica, in particolare dalla "frippertronics".
Quando mi diplomai, i miei genitori mi regalarono il mio primo sintetizzatore,
e quello fu il regalo piu' importante della mia vita."
Nel 1977 Forrest si trasferi' a St Louis, nel Missouri, per studiare
alla Washington University.
"Li' ebbi la mia prima educazione formale alla composizione. Studiavo jazz
ed elettronica e componevo brani per tape-delay. In questo periodo venni a
conoscenza dei minimalisti, che avrebbero esercitato una forte influenza
sul mio primo periodo."
Come per gran parte degli americani di origine orientale, la sua vita privata
procedeva molto tranquilla. Nel 1980 un gruppo di amici lo aiutarono a
registrare il primo album, Music From The Blackboard Jungle , che venne prodotto
in soli duecento esemplari.
"In quel disco, a parte l'approssimazione della registrazione, si avverte
ancora molto l'influenza di Terry Riley. Mi ero appena comprato un nuovo
sintetizzatore, e avevo iniziato a familiarizzarmi con i mezzi dello studio.
Piu' che un disco organico quella fu una raccolta di pezzi composti un po'
a caso, per sperimentare diverse tecniche che stavo apprendendo."
Il disco contiene sette brani, fra cui una suite di dodici minuti ("Greenway 112") e un assolo alla Fred Frith ("To The Limit"). Non e' un caso che Fang si fosse ispirato in questo brano all'improvvisatore inglese: reminescenze di musica folk spuntano un po' dappertutto ed esse sono stratificate con altre attrazioni sonore in maniera assai simile a quanto faceva Frith nel periodo di Gravity. I brani della prima facciata (Sequence, Tales of Yog e il finale Eventide Rising) sono quelli che anticipano piu' chiaramente gli sviluppi futuri.
Nel 1981 Fang ando' a studiare legge alla Northwestern School of Law
di Chiago. La sua musica era ancora un fatto molto privato.
"Non eseguivo, e non eseguo, concerti dal vivo. Raramente ho provato questo
bisogno. Non mi sento a mio agio dal vivo. Inoltre il mio stile non si adatta
molto bene al MIDI: io manipolo, elaboro, trasformo moltissimo il suono in
studio. I pezzi che ho composto recentemente sono piu' classici e quindi
si prestano all'esecuzione dal vivo. Due mesi fa ho tenuto un concerto.
Ma in generale non sono interessato a questa attivita'."
In tal modo Fang, gia' tagliato fuori dall'ambiente accademico, si auto-isola anche dall'ambiente dello spettacolo.
Nel 1982 esce comunque il secondo disco, Some Brighter Stars, registrato ancora in tiratura limitata (trecento copie) e in gran parte a St Louis. Sono molto piu' intensi gli esperimenti di tape-delay, che ne fanno un disco piu' "serio", ma tolgono anche un po' di comunicativita' al sound. Fang suona un Korg MS20, un ARP 2500, un Moog Satellite e, precisa, nessun sequencer. Sul primo lato spicca Monsoon (che rende la sensazione del monsone attraverso un minimalismo fortemente percussivo), sul secondo Mirrors Surround The Sun (formicolio; ma sono ancora idee a seguire, sviluppate in maniera piuttosto ingenua.
Il disco viene comunque accolto
bene da diversi critici illuminati. Fang deve pero'
concentrarsi nello studio per conseguire la laurea. Fino al 1983 non
mettera' piu' mano agli strumenti. Nel 1984 si laurea e nell'autunno
decide di stabilirsi nella zona di San Francisco, dove tuttora risiede.
Intraprende la professione di avvocato, con cui si mantiene da allora.
"Ogni progetto e' un processo di apprendimento. Quando finalmente usci'
Migration, ero diventato molto piu' esperto nel campo della produzione del
suono. Avevo comprato una CZ, la mia prima tastiera polifonica, e potevo
miscelare suoni molto piu' vari e suggestivi. Migrations impiego' due anni
ad uscire perche' non avevo alcuna fretta. Vedevo questa attivita' come un
hobby che non mi avrebbe mai portato ne' soldi ne' fama, per cui non le
davo la stessa importanza di altre cose. Decisi di fare il disco anche perche'
in quel periodo questa musica stava diventando di moda. Purtroppo il fatto
che cosi' tanti musicisti uscissero nello stesso anno con cosi' tanti
dischi simili fra di loro fece si' che il mio venisse trascurato o criticato.
C'era troppa concorrenza... A tutt'oggi Migrations e' il disco che ha raccolto
meno consensi."
In quel periodo avvenne la trasformazione piu' importante. Fang entro' in
contatto con Zhang Yan, una maestra cinese della cetra, che ne ha anche
inventato una versione "doppia" (la cetra cinese e' uno strumento diatonico,
la doppia-cetra ha un pedale che consente di cambiare scala). Sotto la guida
di questo prodigio della musica cinese tradizionale, Forrest apprese la
filosofia musicale della Cina e abbandono' il minimalismo.
Fang e' uno dei pochi musicisti occidentali a saper scrivere e leggere la
notazione musicale cinese, la quale non ha il nostro pentagramma ma uno
strano (per noi) sistema di codifica numerica e simbolica. Secondo Fang,
questa notazione riesce a catturare con facilita' fenomeni (come i microtoni)
che sono difficili da esprimere con la notazione occidentale.
"E' piu' facile descrivere cosa succede alle note!
"Adesso scrivo anche musica per ensemble. Il concerto di due mesi fa si
e' tenuto presso un college e ad eseguire le mie musiche era un gruppo da
camera. I miei spartiti sono dei misti di notazione cinese e notazione
occidentale."
L'influenza di Yan e' molto forte in The Wolf At The Ruins , il capolavoro
di Fang.
"E' l'album che mi ha dato piu' soddisfazioni. Probabilmente lo ristampero'
presto. E' il primo disco su cui mescolo con successo suoni acustici e suoni
elettronici. C'e' anche molto piu' ritmo, ma non nel senso del rock. Mi
piacciono tutte le percussioni, nel senso orientale del termine: non come
accompagnamento ma come linea musicale che guida le altre. Ho anche
ampliato al mia collezione di strumenti con un metallofono giavanese.
Direi che la musica di strada giavanese e' stata un'altra influenza molto
profonda di questo periodo".
Fondamentale e' stato anche l'acquisto di un sampler Korg DSS1 (a cui
recentemente si e' aggiunto un Prophet 5).
"Il sampler mi consente di simulare strumenti in modo tale che l'ascoltatore
non sappia piu' quando a suonare e' lo strumento vero e quando e' invece il
sampler. Mi consente anche di dare la sensazione della musica d'ensemble."
Nel 1989 Fang ha iniziato anche una collaborazione a distanza con il duo
elettronico olandese Par Example: si stanno scambiando cassette che alla fine
dovrebbero dare origine a un disco. Hanno gia' composto in questa maniera circa
quaranta minuti di musica, di cui Fang e' molto soddisfatto, in particolare
una suite di diciotto minuti ancora senza titolo.
"Negli ultimi due anni ho iniziato a lavorare con altri musicisti. E'
un'esperienza nuova per me, in quanto in passato avevo sempre operato nella
piu' totale clausura."
"Adesso sto cercando di finire il nuovo CD, World Diary, che dovrebbe essere in commercio verso agosto. Manca soltanto la copertina. Sono stato molto influenzato anche da alcuni musicisti folk del Tibet che ho incontrato a San Francisco. La loro musica e' molto diversa dallo stereotipo che abbiamo (musica ritualistica, campanelli, canti statici e cosi' via): e' una musica anzi molto colorata, molto dinamica e incredibilmente melodica. Questo genere mi ha fatto ripensare al mio approccio alla musica."
E' da un anno che Forrest sta lavorando a questo disco. In questi settanta
minuti sta in effetti cercando di condensare tutte le sue esperienze e
conoscenze musicali. E' un tour de force di meticoloso collage sonoro. Spesso
un timbro o un sample viene sfruttato per pochi secondi, invece che essere
esplorato per minuti e minuti come fanno di soliti i musicisti new age.
I suoni si susseguono cosi' rapidamente che il sound da' l'impressione di
essere piu' aggressivo di quelli precedenti. L'ascoltatore rischia di essere
disorientato dalla quantita' di eventi sonori, anche se le parti piu'
incalzanti si lasciano godere senza alcuno sforzo (per esempio, la progressione
di balalaika in Song Of Divination). E' anche un disco molto piu' folk, molto
piu' etnico, dei precedenti. L'elettronica e' ora soltanto un sottofondo,
una decorazione discreta. La parte del leone la fanno gli strumenti acustici.
"Questa casa e' il primo posto tranquillo che abbia avuto in cui posso
registrare gli strumenti acustici. Mi piace l'acustica delle mie stanze piu'
di quella artefatta dello studio, anche se in tal modo devo aspettare che
i cani dei vicini smettano di abbaiare e cose simili.."
Ne risulta uno stile di musica popolare e intellettuale che ricorda sempre
piu' Fred Frith.
"La mia e' world-music nello spirito prima ancora che nel contenuto. Viviamo
in un'era in cui non e' piu' possibile vivere nel vuoto. La musica deve
riconoscere in qualche modo l'interdipendenza culturale dei vari popoli,
l'enorme quantita' di influenze che ci condiziona quotidiamente.
A differenza di molti musicisti, che sdegnano la musica degli altri e
si vantano di comporre soltanto sulla base dell'ispirazione, io non nascondo
di ascoltare moltissima musica degli altri; anzi io ascolto piu' di quanto
suoni. La maggior parte del mio tempo e' dedicata ad ascoltare."
Il clou dell'album e' la suite Nomads, di ben trentun minuti, strutturata in otto sezioni. Del tutto astratta, si snoda attraverso un certo numero di brani da camera eseguiti con strumenti orientali (fra i tanti, si aggiunge il "suona", l'oboe cinese). Se Ceremony At The Edge Of The Great Abyss ricorda Wolf, Archipego e' gia' un altro universo sonoro, molto piu' vicino alla musica di strada giavanese; The Bushmen Clear The Savannah vira verso una world-music piu' sinfonica, con tanto di gong birmani, kora, gramtang, mbira africano, il tar (mandolino) dell'Asia ex-sovietica; mentre New China (eseguito con Yan e Liou Qi-Chao) e' il brano piu' convenzionale ed elettronico, ancora succube del minimalismo benche' mescoli folklore balinese e cinese. L'ultima sezione di questa suite e' il primo brano della carriera di Fang ad impiegare il canto, un tipico canto tibetano estremamente acuto e nasale sommerso in un'elettronica da incubo.
Fang e' soddisfatto di questo disco, ma non si fa illusioni:
"In USA e' difficile essere riconosciuti e avere successo se non sei inserito
in una delle correnti dominanti. Appartengo a una generazione che sta creando
una musica che non e' ne' accademica ne' popolare. In tal modo, pero', perdiamo
il supporto tanto delle fondazioni serie quanto dell'industria discografica."
Ripercorriamo rapidamente le tappe della sua formazione.
Delle sue origini musicali Danna preferisce citare soltanto gli anni
in cui ascoltava la musica progressiva italiana:
"Tim (ndr Clement) e io suonavamo in un complesso progressivo che si
ispirava soprattutto alla musica di Banco, PFM e cosi' via. Eravamo
soggiogati dalle atmosfere neoclassiche e romantiche di quei gruppi."
Poi venne la crisi:
"Verso la meta' degli anni Settanta Tim e io (compagni al corso di chimica)
ci sentivamo profondamente
insoddisfatti. Volevamo fare della musica che nessuno faceva: musica
strumentale basata soprattutto sul mellotron, lenta, atmosferica,
vellutata. Oggi e' facile riconoscere in questa descrizione la musica
strumentale elettronica, ma a quei tempi era futuribile. Fortunatamente
riuscimmo a vincere un concorso indetto da una stazione radio locale
e il primo premio era proprio la registrazione di un disco. Cosi' nel 1976
incidemmo questo disco che in effetti anticipa tutto cio' che abbiamo fatto
dopo, da soli o insieme. Quel disco e' oggi estremamente raro e non lo
troverai in nessuna discografia ufficiale."
Il primo disco della discografia ufficiale lo incise ancora giovanissimo, nel 1979. Si intitolava Elements.
"Ogni movimento di quell'opera era dedicato a uno dei quattro elementi
alchemici".
L'anno successivo fu la volta di The Electronic Orchestra ...
"Era suonato da otto musicisti, tutti al sintetizzatore, che eseguivano
adattamenti di brani classici, un mestiere che avevo fatto per un po' di tempo".
Sarebbero passati quattro anni fra quel disco e il successivo. La nuova occasione di registrare un disco venne quando ritrovo' l'amico. Clement, ormai affermato polistrumentista e produttore del Quebec, si era ritirato nel nord disabitato del Canada per stare a contatto con la natura e aveva iniziato da solo a studiare i suoni delle foreste e delle pianure. I due misero insieme le loro competenze e forgiarono una musica "ambientale elettronica" fra le piu' intense della new age. Ci vollero in realta' due anni (dal 1982 al 1984) per mettere insieme il materiale e trovare una casa discografica disposta a pubblicarlo.
Nel disco, A Gradual Awakening, protagonisti sono i suoni naturali del paesaggio canadese: gorgoglii d'acqua, ronzii d'insetti, versi di uccelli, ululati di lupi e cosi' via. L'elettronica e' lussureggiante, ma senza mai deprimere/opprimere l'atmosfera pastorale. Sintetizzatori, chitarre, arpe e flauti accompagnano questi poemi di suono-verita'.
L'anno successivo Danna torno' a registrare in coppia con l'amico, producendo
Summerland.
"Questo disco venne composto e registrato in gran parte nel posto dove vive
Tim, nel mezzo della natura piu' selvaggia e tranquilla. Non c'era assolutamente
nessuno per miglia e miglia. E' un posto meraviglioso per lavorare in pace.
Quando ti trovi in posti cosi' ti viene naturale pensare di incorporare
i suoni della natura. La tua ispirazione e quei suoni entrano in risonanza."
Summerland e' infatti di nuovo immerso in un universo di uccelli, insetti, onde, gabbiani e campane di cattedrale. Dedicato all'estate, e' tutto giocato su un tempo languido. Il primo brano, intitolato di nuovo A Gradual Awakening, culla dolcemente l'ascoltatore nel mondo fiabesco del duo. La title-track indulge in nenie vagamente orientali, senza mai definire una personalita' ben precisa, come oscillando tra due mondi. Stars And Spells, non meno lenta e rarefatta, sdipana melodie di flauto sul tintinnio ipnotico delle tastiere. E' un'arte di riflessi sull'acqua piu' che di affreschi monumentali; di sensazioni episodiche piu' che di pensieri razionali. Domina l'opera la suite di ventiquattro minuti To The Land Beneath The Waves, quasi "documentaria" nel suo sfruttare i suoni del mare, anche se verso la fine l'elettronica, per la prima e unica volta, alza per un attimo la voce.
Nel 1986 Danna e Clement completarono la terza parte della loro trilogia,
Another Sun, la piu' folk e la piu' realista.
"In questo disco abbandonammo un po' il nostro naturalismo ambientale
per sperimentare con qualche idea etnica."
Si tratta di una raccolta di ritmi
tribali, di suoni naturali e di temi celtici. Il duo impiega una dovizia
di strumenti esotici (soprattutto percussioni africane) e cerimoniali in genere,
pervenendo qua e la' (Hyenas) a rievocazioni sonore del ritualismo pagano
in linea con l'ideologia musicale di Jon Hassell.
Una forte dose di sequencer in qualche caso (Sunrise West) porta a una forma
di minimalismo esotico al confine con Kitaro e Schulze; ma in generale
l'armonia e' sempre quella ipnotica ed eterea che contraddistingue il duo,
con l'obiettivo di contemplare e riprodurre un paesaggio naturale.
L'apice del descrittivismo viene forse toccato nel rombo
surreale e minaccioso di Aurora Borealis.
Il disco e' il piu' vivace e drammatico della carriera di Danna.
"Nel 1987 ottenni il posto che ho lasciato ieri (ndr: letteralmente ieri)
al Planetarium, un lavoro
che ha occupato tutto il mio tempo libero degli ultimi anni, a parte le
colonne sonore (ndr: dodici in tutto). E' stato pero' a causa di quel lavoro che
non ho piu' trovato il tempo per comporre musica. Ed e' stato per questa
ragione che dovetti smettere di frequentare Tim. Era un bel lavoro,
che mi faceva sentire come un compositore importante, una sorta di Bach di
Toronto; ed era l'ambiente ideale per trovare un'ispirazione di natura
spirituale ed cosmologica; ma mi toglieva troppo tempo. E non mi consentiva
di sperimentare piu' di tanto."
Nel 1988 Danna firmo' un contratto con la Chacra Alternative Music, che gli ha consentito di registrare due delle colonne sonore realizzate per il Planetarium di Toronto: "Planets Stars And Galaxies" e "Mars: The Journey Begins".
"Sirens" e' il suo esordio su Hearts Of Space, che non si lascia sfuggire il
nuovo talento. E' un disco splendido, che ha lanciato Danna ai vertici
della new age.
"Hearts of Space e' il veicolo ideale per la mia musica.
Mi sento parte di un movimento musicale nel senso che un numero crescente di
persone concepisce la musica nel modo in cui la concepisco io, anche se non mi
sento di appartenere ad alcun circolo di musicisti; anzi non ne frequento
proprio alcuno, a parte Tim. Riconosco pero' che si e' creato un humus culturale
favorevole a una musica strumentale atmosferica come quella che faccio io e in
tal senso mi riconosco parte di una corrente piu' ampia. Sono peraltro piu'
interessato a passare il mio tempo con gente al di fuori del movimento musicale,
come dottori, avvocati, commercialisti.
Faccio musica perche' ha un ruolo nella mia vita, non perche' e' di moda
farlo: volevo diventare un compositore prima ancora di imparare a suonare il
pianoforte.
Mi piace fare cose per la gente, che le faccia sentire meglio e che faccia
loro sentire il mondo come un mondo migliore. Le mie influenze non sono
certamente nella musica popolare. Ascolto tantissimo Corelli. Trovo la sua
musica allegra, fresca, gioviale. Ho tutto di lui in due o tre versioni.
Ma non sarei cosi' presuntuoso da considerarlo un'influenza."
"Oggi sto finendo di mixare nel mio nuovo studio "Skys", un album nato sei anni fa, e che soltanto adesso posso pubblicare, grazie alla Heart of Space. E' un'opera diversa dalle precedenti. In larga parte acustico, e' suonato con strumenti classici (anzi, originariamente era stato concepito per un'orchestra). Il tono e' grigio, malinconico, crepuscolare, monocromo."
Ma Danna, come tutti gli artisti con la "A" maiuscola, non ha alcuna intenzione di sfruttare commercialmente il momento favorevole.
"Sto per partire per un viaggio in Asia che durera' un periodo indeterminato
di tempo. Ho bisogno di stare lontano per un po'. A Marzo sono stato in
Sri Lanka. Questa volta vorrei passare un po' di tempo in India, e forse
tornero' anche in Sri Lanka. Ringrazio la tecnologia che mi consentira' di
portare con me uno studio portatile a sedici tracce. Penso che le diverse
culture e i diversi paesaggi che incontrero' lungo la strada influenzeranno
in qualche modo il mio futuro artistico. Prima di partire devo soltanto
completare la colonna sonora di un film (ancora una volta per il regista
Atom Egoyan), che mi fornira' il capitale per
viaggiare tutti questi mesi. Non so se e quando ci risentiremo..."
E' un vero peccato perche' Sirens e' stato di fatto il suo esordio. E' come
se avesse ricominciato da zero. Dovremo invece aspettare qualche anno per
sapere come continua la storia.
Elevations, pubblicato nel 1987, venne subito accolto con grande favore dalla
stampa. L'abilita' tecnica di Harriss e' fuori discussione, visto il suo
background. La qualita' digitale del suono e' eccezionalmente cristallina.
La sua formazione classica emerge chiaramente in una sonata romantica come la
title-track (punteggiata da un sequencer). Altri brani si situano all'estremo
opposto dello spettro, in una nicchia quasi folk; per quanto formalmente curati
come gli altri, appartengono al lato "leggero", persino comico, e descrittivo
della sua arte: Improptu, La Promenade e soprattutto Leaving Sedona.
Il panorama e' completato dalle inflessioni africane di Reunion
e da quelle sudamericane di Mi Cuatito.
"La musica elettronica e' il mio medium ideale.
In teoria potrei anche orchestrarla per strumenti acustici, ma capita che io
abbia strumenti elettronici e non un'orchestra, anche
se sto pensando seriamente a comporre qualcosa di piu' sinfonico.
Il suono elettronico richiede cosi' tanto lavoro preparatorio, mentre
l'orchestra, anche se non e' altrettanto flessibile, e' incredibilmente
semplice da "suonare": un oboe fa il suono dell'oboe, e non c'e' molto
altro da fare. Sono contento dell'orchestra elettronica, un'orchestra vera
sarebbe un'aggiunta, non una sostituzione."
"Devo pero' anche dire che nessun brano appartiene a un genere prestabilito. Ho un principio fondamentale che guida tutta la mia musica: melodie semplici e dirette; e questo forse fa si' che tu senta un'analogia con la musica folk. C'e' senz'altro anche il colore ricco della musica classica . I brani esotici nascono dalla mia voglia di non essere limitato; non penso di aver sperimentato come fanno alcuni studiosi dell'etnica: ancora una volta mi piace la semplicita', mi piace catturare un'emozione, una sensazione, e se un suono esotico ci riesce lo prendo a prestito. Prendo la mia nusica molto sul serio, ma al tempo stesso e' musica popolare."
Il minimalismo non e' estraneo alla sua tecnica compositiva. Anzi i brani piu'
suggestivi sono proprio quelli basati su qualche forma di ripetitivita'.
L'ondulare cadenzato di Motion #4, l'andamento onirico di Caravans
e piu' ancora il lungo excursus esotico di
The tortoise the Temple and the Rain sono brani minimalisti che si conservano
lievi, leggiadri, delicati e insolitamente movimentati.
"C'e' un punto di incontro fra il minimalismo e la musica basata sul sequencer,
anche se puo' sembrare blasfemo: il sequencer si presta ovviamente a schemi
ripetitivi, e anzi i primi sequencer in particolare erano cosi' limitati
che tutto cio' che potevi fare era davvero una sequenza; eri quasi obbligato a
fare il minimalista, ma direi da un punto di vista piu' ritmico che armonico.
Ancora una volta a me interessa pero' piu' la semplicita' che non la
minimalita': sono concetti diversi."
Con Vanishing Point Harriss raffino' ulteriormente le sue conoscenze dello
studio di registrazione, impiegando in maniera piu' approfondite il computer
e il mixing digitale. Come sempre il suo marchio di fabbrica e' la chiarezza
cristallina del sound. Il disco e' complessivamente piu' pop, piu' spontaneo e
piu' volitivo.
"Elevations era diverso, e tutti mi chiedono perche'. In verita' non so
spiegare perche'. Penso che sia semplicemente parte della maturazione di
un artista. Scrivo a blocchi, per garantire la coesione del disco,
e cio' che finisce nel disco rappresenta lo spirito di quel periodo."
Lo spirito dei Sixties, quel contemplare radioso la maesta' della Natura con
l'animo stracolmo di sensazioni estatiche, si intuisce in Morning Glory, non
lontana dalle atmosfere sognanti degli It's A Beautiful Day,
e Sunlight Samples (vagamente giapponese);
anche se, naturalmente, tutto e' ricoperto da uno strato di vernice pop.
I Sixties vengono esplicitamente presi in giro in The Rajah's Tea Party.
"Gli anni Sessanta sono certamente dentro di me.
Li ho vissuti con i Liberty Street, che fu uno dei primi complessi di
acid-rock.
Fui sorpreso nello scoprire che esistono cosi' tante somiglianze fra
il metodo compositivo della new age e il modo in cui suonavamo noi allora.
A quei tempi l'imitazione era fuori leggi: dovevi essere originale,
altrimenti non trovavi lavoro!
C'era tantissimo suono in giro che non era quello dei Jefferson Airplane
e che non riuscirei a descriverti a parole."
Lo stile di Harriss e' ora il manierismo del manierismo, il barocco del
barocco della new age. I brani, come l'incantevole Pirouettes and Promises
sono danze leggiadre di melodie e di ritmi elettronici, rigurgitano di
effetti impressionistici, come nei tintinni di Just Around The Bend,
si dilatano in formalismi sempre piu' perfetti, come nei cicli di variazioni
della title-track.
"Questo e' l'effetto della mia maturazione tecnica. Il software stava anche
diventando sempre piu' sofisticato, le capcita' degli strumenti si stavano
espandendo..."
Che l'arte di Harriss consista sostanzialmente in una manipolazione artificiale
delle strutture formali dell'emozione e' confermato da Abacus Moon, dove gli
effetti sono ancor piu' calcolati.
Melodie memorabili come quelle di Crystal Canyons
vengono sfruttate fino all'osso da una delle menti piu' lucide della new age,
che non affida nulla al caso.
Ciascuna di queste "canzoni", per quanto semplice e lineare possa sembrare, e'
costruita con cura maniacale assemblando diversi spunti.
Alchemist, per esempio,
alterna un ritmo di sequencer a una melodia
con contrappunto basso e infine un valzer per pianoforte.
Ma in generale i brani non hanno molto sviluppo in orizzontale, bensi' in
verticale:
Inventions saltella su un tema orecchiabile che viene ripetuto ogni volta con
un'"orchestrazione" diversa, ora scimmiottando un'arpa contrappuntata dai
tintinni dissonanti e quasi metallici dell'elettronica ora facendo pensare a un
metallofono caraibico; i travestimenti camaleontici dell'orchestra
di Cloud (la favorita di Harriss)
sono attentamente calcolati per generare il massimo di
emozione da un minimo di ritornello.
Sono sempre cascate di suoni deliziosi che si intrecciano l'un l'altro secondo
geometrie perfidamente suadenti.
In Porcelain Sky, in Southern Lights e in Escapade (a ritmo di reagge)
e soprattutto nella title-track viene invece fuori il pianista, e sembra
di tornare alle sonate romantiche di Elevations. In Sea of Storms, un'ovvia
dedica a Philip Glass, Harriss si ricorda di aver studiato minimalismo.
Nell'insieme
Abacus Moon costituisce il vertice melodico della carriera di Harriss.
"Gran parte del lavoro e' fatto prima di entrare nello studio. Registro
il disco in due settimane. Spesso se senti una parte, senti le note suonate
sul synth, ma se ascolti attentamente e' un processo molto piu' complicato;
ci sono dei suoni di sottofondo che richiedono decine di sovrapposizioni
e manipolazioni.
Una delle ragioni per cui non faccio esibizioni dal vivo e' perche' non
posso portarmi dietro lo studio di registrazione.
Con il titolo cerco di mettere l'ascoltatore nella situazione migliore per
ascoltare la musica e poi mi muovo in quella situazione finche' posso.
Inventions, per esempio, e' il caso estremo: prima di tutto dico all'ascoltatore
"non prendere questo brano troppo sul serio"..."
L'ultima puntata dell'avventura musicale di Harriss e' Shell Game. Ancora una
volta ad esaltare il suo talento melodico e' soprattutto l'orchestrazione
caleidoscopica di questi gioiellini elettronici.
Harriss si avvale di un ensemble di tutto riguardo, capitanato da Peter Maunu
alle chitarre.
"Avevo lavorato con Maunu in alcuni commercial. E' un ottimo chitarrista.
Sfortunatamente non ho il budget per utilizzare questo tipo di professionisti
per tempi piu' lunghi. E poi non ne ho bisogno. No, non lo rimpiango.
Se mettessi insieme un complesso per suonare cio' che compongo, so che
non suonerebbe alla stessa maniera. Mi deluderebbe. Questa non e' musica
concepita per essere suonata da uomini, ma da macchine. E poi non voglio
che l'ascoltatore pensi a quanto bene il bassista suona il basso, ma
voglio semplicemente che si concentri sulla mia musica. La mia musica e'
fatta per essere ascoltata, non per essere usata per show solisti.
Non permetto alcuna improvvisazione, anzi l'improvvisazione nuocerebbe
alle mie melodie. Un performer contribuirebbe la sua personalita' al
suono globale, e nel mio caso lo riterrei sbagliato. Un po' come nella
musica classica."
L'inizio, Blue Dancer, parte all'insegna del jazz e dei Caraibi,
ma presto si apre in un corale estatico che in breve lascia spazio al tema
melodico del pianoforte.
Il sound e' piu' maestoso, sereno, celestiale che mai: le canzoni
si susseguono in perfetta armonia, ricamando nel nulla le loro lente
silouette e lasciandosi alle spalle una traccia lieve e impalpabile di
ritornelli.
C'e' pero' un tocco esotico piu' marcato che talvolta nuoce al lirismo delle su
composizioni: Arabesque e la title-track sono i risultati piu' riusciti di
questo nuovo corso.
Il languore estremo di The Quiet Pool e il sinfonismo tragico di Gates of
Atlantis redimono comunque qualsiasi caduta di tono.
Bridge Across the Night corona il disco con un ritono al metodo delle mille
variazioni di Abacus Moon.
"Non e' il coronamento della mia carriera. Sto ancora maturando e voglio
continuare a registrare dischi. Dopo cinque dischi credo di poter dire
che il modo in cui registro dischi io e' diverso da come lo fanno altri:
non voglio imitare gli altri, non voglio imitare me stesso (una sindrome
molto comune), voglio usare le tecniche che ho appreso e esplorare i
luoghi che mi interessano. Non ho in mente un pubblico particolare
quando compongo la mia musica: scrivo cio' che mi viene di scrivere,
e chi mi ascolta puo' essere un ragazzino o una vecchietta. E' musica
scritta per me stesso. Peraltro ritengo importante che ci sia un pubblico
per la mia musica. Non credo che sia giusto fare arte nel vuoto, per
nessuno. Penso che sia importante fare arte per gli altri."
Il nuovo disco, Mysterium, ha richiesto due anni di lavoro.
Le melodie si sono fatte ancora piu' orecchiabili, al limite della
filastrocca per bambini e delle marcette militari. Lo spessore sinfonico
e la purezza cristallina della produzione contribuiscono all'effetto di
immediatezza. Mysterium continua la progressione verso un suono sempre
piu' composito ed elaborato eppure all'insegna della semplicita'.
"Il nuovo album mi soddisfa molto. Dimostra la giusta quantita' di crescita
e di cambiamento, senza essere condizionato dalla voglia di crescere e
cambiare a tutti i costi.
E' stato registrato a Palo Alto, invece che a Los Angeles, interamente in
digitale, usando i programmi Vision e Performer (su un Macintosh).
Ogni volta che faccio un disco cerco di farlo piu' veloce e piu' lento,
piu' complesso e piu' semplice... cerco di limare i confini, di rifinire
i contorni..."
Qualche brano (Julian) ha la forza, l'intensita', l'irruenza di un concerto di pianoforte e conferisce al disco nel suo insieme un carattere piu' drammatico dei precedenti. E' un suono che sa come spalancarsi in spazi romanticamente orchestrali e classicheggianti (When Statues Dance). Anche le melodie piu' orecchiabili, come Return to Half Moon Street (un altro dei suoi capolavori), sono velate di una tenue malinconia. La title-track conferma questa tendenza verso toni piu' "scuri" e "spessi", ma si concede anche qualche licenza di effetti sonori piu' spaziali del solito (peraltro moderati da un ritmo sofficissimo di piatti, che e' insolito per Harriss). Di umore invece decisamente solare e disimpegnato e' la marcetta di Isle of Light, che apre il disco.
Il messaggio della tua musica?
"Non appartengo a nessuna ideologia spirituale. Ho sempre creduto
che "buona musica fa buona gente" ("good music makes good people").
Ci sono sempre stati due generi di musica, e soltanto due: uno utile e uno
inutile. Vorrei semplicemente appartenere al primo, anche senza appartenere
all'accademia classica."
E del resto della musica strumentale elettronica cosa ne pensi?
"Mi piace molta della musica elettronica di oggi. I musicisti che
preferisco sono O'Hearn, Ciani, Demby, Roach, Serrie.
Stiamo arrivando al punto in cui molte persone sono saltate sul vagone
di questo genere e molti verranno gettati fuori e quelli che sopravviveranno
sono quelli che hanno lo stile piu' personale, che hanno veramente qualcosa
da dire.
Vorrei che la scena elettronica venisse piu' apprezzata dai media.
Le riviste (pensa a Keyboard, che pure vive della pubblicita' degli strumenti
elettronici) sono cosi' critiche verso di noi, anzi, neppure critiche,
semplicemente indifferenti.
Un problema c'e' certamente:
ci sono tantissime stanze negli USA come questa (e punta il dito a tutto
l'armamentario
elettronico) che consentono a un numero sempre maggiore di persone di fare
musica elettronica. Il problema e' che molti di loro non hanno alcuna
istruzione musicale.
Penso che questo sia un genere, non un episodio, e che diventera' sempre
piu' importante. Penso che chi parla di un revival dell'acustico non sappia
cio' che dice: non c'e' paragone fra la flessibilita' e la creativita'
che ti concedono gli strumenti elettronici. E poi chi ha detto che gli
strumenti acustici siano piu' "naturali " di quelli elettronici? Certe
chitarre e persino certe armoniche costano decine di volte di piu'
di questa stanza e hanno richiesto decine di anni di ricerca tecnologica.
Perche' questo semplice sintetizzatore da 200 dollari dovrebbe
essere meno naturale della chitarra di Segovia che costa 1.000 dollari?
E poi perche' mai il modo in cui componeva Bach dovrebbe essere piu'
naturale di quello che uso io? Bach doveva chiamare un'orchestra e un coro
per riuscire a sentire come suonava cio' che aveva composto, mentre io
lo posso fare nel giro di un secondo. Perche' lui era naturale e io no?
Perche' il suo organo a canne era naturale e il mio organo elettronico
e' artificiale? Hai mai visto crescere un organo a canne in un campo?
Mi pare che ci sia molta confusione...
Siccome non e' un genere di musica gestito dalle grandi corporation o da
qualche critico musicale che crea trend, credo che noi ci mettiamo
veramente l'anima, e che i nostri dischi valgono di piu' e dureranno di piu'."
Harriss ha una storia alle spalle, e si sente. Riesce a fare delle considerazioni di una profondita' che pochi dei musicisti di questa generazione riuscirebbero anche solo a sfiorare.
Un canzoniere che vanta gia' gemme del calibro di Elevations, The tortoise the Temple and the Rain, Vanishing Point, Bridge Across the Night, Abacus Moon, Inventions e soprattutto Crystal Canyons costituisce uno dei risultati piu' importanti della new age per invenzione melodica e maturita' espressiva.
La sua specialita' divenne presto quella di accompagnare i musicisti di
colore, blues e rhythm and blues. Spesso, quando suonava con loro, Douglas era
l'unico bianco sul palco. Quell'esperienza gli insegno' naturalmente tutti
i segreti delle sezioni di fiati del rhythm and blues.
"Il rhythm and blues fu una rivelazione per me, dopo aver ascoltato per tanti
anni soltanto musica pop bianca. Mi innamorai della musica nera. Era un suono
piu' duro e grezzo. I musicisti neri scrivevano e suonavano le stesse cose che
stavano facendo i bianchi, ma le facevano in una maniera che io riuscivo a
capire meglio. Sam Taylor, session-man tuttofare sassofonista, King Curtis,
e soprattutto Lee Allen (ndi: quello che accompagna tutti gli hit di
Little Richard e Fats Domino) influenzarono moltissimo il mio sound."
A scoprirlo, appena finito il liceo, nel 1958 fu Duane Eddy, il grande chitarrista bianco autore di "Peter Gunn", "Cannonball" e "Forty Miles of Bad Road". Su tutti questi hit l'assolo di sassofono (che era diventato obbligatorio dopo il successo dello "yakety sax" dei Coasters, ovvero quello di King Curtis) e' di Douglas. Fu anche grazie a lui che il complesso di Eddy divenne uno dei primi gruppi bianchi a suonare all'Apollo Theatre di New York, il "bunker" nero di Harlem.
Dopo quell'avventura Douglas lascio' Eddy, avviato a un rapido declino,
e registro' due dischi in proprio per la Crown. Era il periodo degli album
strumentali dedicati ai balli dei teenager, e anche lui si lascio'
trascinare nella moda del twist.
"Registrai quei dischi per una casa discografica che aveva diversi artisti di
rhythm and blues. Quei dischi venivano chiamati "meat market records", nel senso
che erano dischi destinati al macello nei supermercati. Se ne vendevano
tonnellate, ma all'acquirente non interessava sapere chi suonasse."
L'altro nome destinato a cambiare la vita di Douglas e' Phil Spector.
Il glorioso produttore, che avrebbe anzi cambiato l'intera storia della
musica rock, era stato suo compagno di liceo ed ero stato il leader di
un complesso di skiffle i cui lui suonava la chitarra e cantava.
A New York Spector stava lanciando il
suo "wall of sound" e si ricordo' dell'amico, al quale affido' l'incarico
di mettere insieme i migliori session-man di Los Angeles.
"Ancora oggi non riesco a credere che Phil decidesse di chiamare me invece
che Curtis o altri. Non mi reputavo un grande sassofonista, ero sorpreso
io stesso del mio sucesso. Ero bravo a suonare assoli di rock and roll
che pochi altri sapevano fare, e questo fu forse il segreto del mio
successo. Spector si affido' a me per tutto il sound della band."
Il risultato lo potete ascoltare in tutti gli hit dei complessi di quella prodigiosa stagione: Crystals, Ronettes, Darlene Love e cosi' via. I classici di Spector non sarebbero cosi' classici se Douglas non avesse suonato il sassofono nel modo in cui lo suono'. E quello stile influenzo' tutti i sassofonisti rock del futuro.
Nel 1963 a casa Douglas busso' niente meno che Brian Wilson in persona.
I Beach Boys avevano bisogno di qualcuno che suonasse i fiati nei loro
arrangiamenti e tutti avevano consigliato loro di assoldare il sassofonista
di Spector. Fu cosi' che Douglas partecipo' alle incisioni di tutti gli hit
da Surfin' USA a Good Vibrations.
"Suonai su tutti i loro dischi. Se non suonavo il sassofono, suonavo
le percussioni, il tamburello, qualsiasi cosa. Ancora oggi lavoro per lui."
La scena musicale della West Coast stava esplodendo e Douglas si trovava ad essere uno dei session-man piu' richiesti. Talvolta non veniva neppure citato sulla copertina del disco (a quei tempi il sassofonista non "poteva" far parte di un complesso rock), ma per Douglas furono comunque tempi eroici: Ventures, Jan & Dean e tanti altri gruppi surf, strumentali e non, si servirono del suo sassofono. E quasi sempre il risultato era un record di vendite. Stranamente Douglas non riusciva invece a sfondare in proprio: i complessi di cui era titolare (Catalinas, Custom Kings, Vettes, Liberation Street Band) passarono del tutto inosservati, protagonisti soltanto di qualche party sulla spiaggia.
Nel frattempo l'elenco dei suoi "patroni" si allungava: Dion, B.B. King,
Elvis Presley in persona, Four Tops, Aretha Franklin, Monkees,
Everly Brothers, Sonny & Cher, Ventures.
"Feci molti dischi con B.B.King. Ho registrato talmente tanto con lui che
dopo un po' mi sembravano tutti uguali. Non sono un suo grande ammmiratore.
Mi impressionava molto di piu'
Maxwell Davies, sassofonista e arrangiatore di King."
Nel 1966 ottenne un importante posto in una delle compagnie discografiche
piu' importanti, la Capitol, e produsse parecchi dei suoi successi (fra cui
il famoso tema della colonna sonora di "A Summer Place", uno dei brani
strumentali piu' celebri di sempre). Poi passo' alla Mercury, per la quale
segui' Leon Russell e Blue Cheer. Per la Mercury registro' l'album
"Reflections Of A Golden Horn", ma ancora una volta la fortuna non gli
arrise. Douglas si rassegno' a fondare una propria casa discografica a
Hollywood, la Pentagram, in societa' con un altro personaggio "storico", Al
Schmitt.
"Mi ero stancato di suonare tutto questo surf e twist.
Avevo un minimo di rispetto per me stesso, e suonare questa musica mi
dava soldi ma non soddisfazione. Cosi' pensai che diventare un produttore
mi avrebbe dato piu' occasioni di fare dischi migliori.
Imparai come si fanno i dischi. Imparai ad apprezzare il valore dei
bravi musicisti. Certi musicisti sono in grado di fare un disco, altri no.
Hal Blaine, per esempio, e' un mostro: basta la sua presenza a trasformare
un'idea in un successo."
Negli anni Settanta, durante il "riflusso" che fece chiudere baracca
a tanti artisti (effimeri e non) dei Sixties, Douglas torno' a guadagnarsi
da vivere come session-man. Al tempo stesso Douglas inizio' a comporre per
la televisione e il cinema (per la cronaca e' suo il sassofono nelle
colonne sonore di "Top Gun", "Gremlins", e, per chi se lo fosse
domandato, di "Blues Brothers"!).
"Negli anni Settanta, dopo i Beatles e l'acid-rock, i sassofonisti non
erano piu' di moda. Al tempo stesso io dovevo smaltire gli eccessi di cocaina,
eroina, LSD, come tutti coloro che avevano vissuto i tempi degli hippie.
Mi sentivo anche insoddisfatto: sentivo dentro me stesso di essere un
buon musicista. Alla fine del 1968 ebbi un attacco cardiaco, e cio' mi
fece meditare: odiavo il mio lavoro, e dovevo fare qualcosa. In piu' mettici
anche un cattivo matrimonio e il successivo divorzio.
Mi spostai a Vancouver, in Canada, con l'idea di imparare a suonare il
flauto e di tornare a fare della buona musica. Dopo tre anni, nel 1974,
tornai a Los Angeles rigenerato. Ero determinato a diventare un artista
serio."
Fu nel 1976 che ebbe l'idea destinata a causare la seconda svolta della
sua vita: prese l'aereo e si reco' in Egitto, per registrare un disco
di solo sassofono dentro la piramide di Cheope.
"Leggevo le descrizioni degli esploratori che scoprirono la piramide.
Uno di loro esplose un colpo di pistola e l'eco fu stupendo.
Pensai allora che potevo approfittarne a fini artistici.
Andai in Egitto apposta per questo. Al Cairo assoldai un po' di gente.
Per tre notti la piramide fu nostra. Producemmo sei ore di nastri.
Tornai a casa, chiamai delle case discografiche. Nessuno era interessato.
Mi incoraggio' il milieu di "Body Tree", una libreria di new age.
A quei tempi non esisteva ancora un vero movimento new age, ma li'
bazzicavano i tipi che avrebbero poi dato origine al tutto.
Decisi quindi di tentare di vendere il disco attravero annunci sui periodici
di new age, e, sorpresa, ne vendetti settemila copie in questa maniera.
Guidai persino da San Diego a Vancouver con il bagagliaio pieno di dischi,
fermandomi a venderli in ogni posto dove ci potesse essere dell'interesse.
In tutto il disco ha venduto quindicimila copie, ed e' stato recentemente
ristampato su CD dalla Allegiance. Penso che lo ristampero' anch'io
con la mia nuova etichetta, EssDee."
Oggi e' uno dei pochi dischi veramente ricercato dai collezionisti di mezzo mondo. Paul Horn e tutti i musicisti, rock e jazz, che avrebbero seguite le orme di Douglas devono comunque piu' della semplice idea a Douglas: e' il modo in cui suona il sassofono a lanciare un nuovo genere.
Ignaro dell'accaduto, Bob Dylan invito' Douglas a suonare il sassofono
nella band di "Street Legal". Le canzoni di quel disco (cosi' come quelle
dei dischi successivi fino a "Empire Burlesque") non sarebbero le stesse
senza quelle linee struggenti del sassofono.
"Facemmo un sacco di touring con quella band, per circa un anno.
Mi pianse il cuore quando il tour fini' e la band si spezzo'.
Su quel disco Dylan mi lascio' completamente libero di fare quello che
volevo. E' un tipo veramente impressionante."
Impassibile al cambiare delle mode, Douglas non esito' neppure a suonare sui dischi dei Ramones e dei Replacement. Ma nella sua testa c'era ormai una musica diversa. La piramide di Cheope gli aveva aperto nuovi orizzonti, e Douglas non vedeva l'ora di poter continuare quell'opera.
"Rainbow Suite", che a mio avviso rimane il suo capolavoro, venne registrato
pero' per una piccola casa discografica di jazz ed era pertanto destinato
fin dall'inizio a un circuito secondario.
"Entrai in studio con il tastierista di Dylan, Alan Pasqua, che aveva
uno Yamaha CS80, e improvvisammo un po' di duetti. Poi da solo presi quel
materiale, aggiunsi altri strumenti, tagliai e perfezionai. Mi piacque
il risultato, ma in quei giorni ottenni il contratto con la Fantasy, che ci
aveva sentito suonare dal vivo, e mi trasferii a San Francisco.
Ci proposero di registrare Hot Sax completamente dal vivo in studio e
naturalmente ne fummo entusiasti.
Rainbow Suite venne dimenticato da tutti. Non avevamo altri distributori
che un negozio di dischi."
Soltanto con il passare degli anni e' diventato un disco leggendario. Prima ha sofferto della difficolta' di classificarlo in qualcuno dei generi noti; poi il boom della new age ha, se non altro, reso possibile inserirlo in una corrente (benche' vi lascio immaginare quanto c'entri Douglas con la Windham Hill e similia). Infine e' stato proprio il pubblico del jazz-rock a riscoprirlo e a consentire a Douglas di mietere i frutti di quello stile nei successivi Hot Sax e King Cobra, ancor piu' raffinati. Il marchio di Douglas e' quel suonare nei registri bassi, caldi e pieni, che e' stato definito "fat sax".
A questo punto va fatta una precisazione: Douglas e' tutt'altro che povero.
Non solo riceve royalties su molti dei dischi in cui ha suonato, ma le sue
musiche sono state usate in decine di film. Complessivamente Douglas ha
guadagnato diversi milioni di dollari, e oggi vive in una splendida casa
con piscina nell'entroterra a nord di San Francisco. Se si e' permesso delle
pause, lo ha fatto per sua scelta personale. Volendo, si sarebbe potuto
comprare un'intera casa discografica e uno studio di registrazione.
"Per otto anni non ho registrato dischi. Non riuscivo a focalizzare su
qualcosa di definitivo. Registravo qua e la', ma senza avere abbastanza
idee e materiale per un album intero. In questo disco un paio di brani sono
vecchi di sei anni. Fu certamente importante il viaggio a Bali in luna di
miele, dove scoprii il gamelan. Un'altra ragione per cui non feci dischi
per cosi' tanti anni e' che ero impegnato a realizzare colonne sonore con Ry
Cooder, un lavoro che da' molte soddisfazioni economiche.
"Beyond Broadway", l'album recentemente pubblicato per la sua EssDee, e' forse il piu' esotico della sua carriera. Si comincia con il tema innamorato di "Spanish Nights", per passare al ritornello danzabile di "Lonely Voyager", affondare nell'atmosfera da jungla impenetrabile di "Etched in India" e e perdersi nei meandri mediorientali di "Trip to Market". La title-track e' una delle piu' colorite, e al tempo stesso una delle piu' strumentali, caratteristica del suo modo di accumulare dettagli armonici di squisita fattura. L'influenza del gamelan, con quel suo altelenante ipnotismo, e' percepibile in diversi brani, ma sono la lussureggiante e sinistra "Balinese Rhapsody" e il jazzato "Java Jive" ad affascinare maggiormente. La vivace sarabanda di "Journey to Shangri-La" corona il disco con due temi incrociati, uno di sassofono e uno di flauto, che sono fra i piu' riusciti dell'opera. Pur trasudando esotismo da tutti i brani, il disco non potrebbe essere piu' lontano dalla world-music. Quella di "Beyond Broadway" e' una musica profondamente personale. I brani sono calibrati e cesellati in maniera maniacale da uno dei piu' grandi professionisti che possano mettere piede oggi in uno studio di registrazione. La produzione e' splendente, solare, ariosa. Gli arrangiamenti sono di altissima classe. Douglas suona anche gli strumenti elettronici e il computer, e si sente.
Douglas si esibisce oggi con uno dei piu' assurdi supergruppi di sempre,
composto da dinosauri come Hal Blaine (il batterista di Presley e dei Beach
Boys, e forse il piu' grande di quell'era), il bassista Robin Sylvester
(quello di Chuck Berry), il chitarrista Greg Douglass (che ha suonato con
Van Morrison), il percussionista Reid Whatley.
"Blaine e' uno dei miei piu' vecchi amici. Poi incontrai Douglass, che
veniva dalla Steve Miller Band. Sono tutti grandi musicisti. Non li pago
certamente per quello che valgono, ma siamo tutti entusiasti della musica
che suoniamo. Suoniamo molti medley di musica degli anni Cinquanta insieme
al materiale piu' moderno del nuovo disco, ed e' interessante che al
pubblico piacciano entrambi."