James McCarthy
(Copyright © 1994 New Sounds)

James McCarthy e' un nome storico della musica rock, essendo stato uno dei membri originari degli Yardbirds, il complesso inglese che negli anni Sessanta contese ai Rolling Stones e agli Animals la palma di miglior complesso bluesrock dell'epoca. Oggi lo ritroviamo nelle vesti di compositore new age.

Cosa successe dopo lo scioglimento di quella mitica formazione?
"Il cantante Keith Relf e io (che a quei tempi suonavo la batteria) continuammo per un po' a praticare insieme. Avevamo deciso di abbandonare il rock, che stava diventando sempre piu' rumoroso, e di tornare a fare musica folk. Formammo cosi' i Renaissance, che, per la strumentazione insolita, vennero presto inglobati nel fenomeno del rock classicheggiante. Ma eravamo ormai stanchi di fare tour e cose simili, per cui stavano pensando di lasciare agli altri il ruolo di strumentisti e di riservarci ruoli di comando: io avrei scritto le canzoni e lui le avrebbe prodotte. Invece il gruppo si spense. Dopo un album con gli Shoot, riuscimmo a riformare i Renaissance come Illusion, dei quali uscirono due album. Per quanto noi ci sentissimo all'avanguardia di un nuovo genere, l'esplosione della new wave e del punkrock ci lasciarono senza lavoro: la casa discografica decise che i giovani volevano ascoltare altro e ci abbandono'. Io continuai a scrivere canzoni finche' non riformammo con Jeff Beck gli Yardbirds sotto lo pseudonimo di Box Of Frogs. Ancora due album e poi ero di nuovo senza gruppo.

"A quel punto incontrai Louie Cennamo, che era stato il bassista dei Renaissance. Avevamo un problema in comune: avevamo bisogno di rimetterci in sesto dopo una vita di eccessi. Durante l'epoca degli Yardbirds avevo accumulato molto stress, nonche' molte droghe, ed ero precipitato poco a poco in uno stato disperato. Entrambi avevamo finito per rivolgerci ai gruppi di "spiritual healing". Fu in uno di essi che ci incontrammo. In breve ci venne l'idea di fare musica per quello scopo sotto lo pseudonimo di Stairway. Se aveva funzionato su di noi, doveva funzionare anche sugli altri. Registrammo quattro album, a partire da "Aquamarine", riscuotendo un discreto successo negli ambienti new age. Stairway non e' mai veramente esistito come gruppo dal vivo, per cui e' difficile dire se oggi esista ancora o meno. Posso solo dire che a un certo punto mi venne voglia di fare qualcosa da solo, qualcosa che combinasse le mie radici blues e la new age, e fu cosi' che registrai il primo album solista della mia carriera, "Out Of Dark".

Cosa significa il titolo?
"Meno di quanto si potrebbe pensare. E' solo in parte autobiografico. Certamente ha un riferimento: e' la musica di una persona che e' passata attraverso un processo interno di purificazione. E' musica che entra da un estremo del corpo ed esce da un altro. Vi sento tutte le influenze che ho avuto nell'arco della mia carriera (blues, folk, musica classica). Vi volevo dire qualcosa che fosse positivo, volevo dire qualcosa di incoraggiante sulla vita. Alla fin fine, non e' poi cosi' male: qualcosa del genere."

E' un album di musica new age?
"Non so esattamente cosa costituisca musica new age, non e' tanto un genere musicale quanto un fatto di costume. Se new age significa essere coscienti del pianeta in cui si vive, allora lo e'. Direi che per meta' la mia musica e' espressione istintiva e per meta' e' in relazione con l'ambiente che mi circonda. Non nascondo che vivere a Richmond, su queste splendide colline da cui si abbraccia un panorama mozzafiato, ha esercitato una certa influenza su molte delle composizioni. La bellezza naturale puo' essere trasformata in musica."

La bellezza, non il dolore? E il blues allora dov'e'?
"Sai, il blues e' dolore, ma quando la gente vuole dimenticare il dolore, il blues puo' diventare la musica piu' allegra che ci cia."

Quindi la sua musica adesso ha uno scopo sociale oltre che artistico?
"Senz'altro. Sono uscito da uno stato disperato grazie allo "spiritual healing" e adesso ne sono sempre piu' coinvolto, fino al punto da volerlo fare a mia volta ad altri."

Della musica attuale cosa pensa?
"Non ascolto molto, ma cio' che ascolto mi lascia perplesso. Mi sembra che le cose migliori le stiano facendo i vecchi, non i giovani. Mi dispiace molto che non ci siano buoni cantanti new age. Bisognera' porvi rimedio! Ascolto soprattutto musica classica (Beethoven, Bach), musica che mi faccia rilassare."

I prossimi progetti?
"Ho molte idee per un album simile a "Out Of Dark", ma non so quando comincero' a registrarle. Vorrei rimanere legato a questo genere di musica non troppo orecchiabile, ma non troppo eterea. Canzoni che posso ancora cantare benche' siano molto atmosferiche. Mi e' sempre piaciuta la musica atmosferica, perche' consente di associare una melodia a cose che mi riguardano personalmente. In questo senso la mia musica e' sempre stata autobiografica."

Perche' si trova in Colorado?
"Avevo letto cosi' spesso le meraviglie di Boulder e del Colorado. E' un peccato che nevichi tanto, perche' mi sta impedendo di godermele per intero. Qua, poi, ho degli amici che stanno facendo "music healing" e ne ho approfittato per venire ad imparare. C'e' la Music Healing Association e c'e' il gruppo di Don Campbell, che insegna a guarirsi tramite l'uso della propria stessa voce. In Inghilterra sto cominciando a compiere esperimenti con i ritardati mentali. Spero che la mia musica possa essere utile a qualcuno. Secondo me e' importante che la musica dia un beneficio alla gente, che la aiuti in qualche modo a vivere." William Aura


William Aura
(Copyright © 1994 New Sounds)

William Aura e' da piu' di dieci anni uno dei protagonisti della new age, e in particolare della world music. I suoi dischi sono certamente fra quelli che hanno coniato la maniera moderna di integrare sonorita' esotiche nelle forme elettroniche della musica popolare occidentale. Aura e' anche considerato uno dei piu' "onesti" revisori del patrimonio musicale altrui, nel senso che non si limita a "rubare" un timbro o uno strumento, ma ne conserva lo spirito originario. In tal senso e' un autentico musicista "del mondo".

Come nacque l'amore per le musiche etniche?
"Arrivai alla world music nella maniera piu' naturale possibile. Negli anni Settanta, come tanti ragazzi di quell'epoca, suonavo il rock and roll assordante che era di moda a Detroit, quello che oggi chiamano heavymetal. Al tempo stesso mi capitava ogni tanto di suonare o sentir suonare altri generi di musica che erano in circolazione nella mia citta': il rhythm and blues, il jazz, il soul e il funk. Naturalmente erano tutti generi africani, ma pochi se ne rendevano conto. Poco a poco cominciai a percepire il "feeling" di quella musica, cominciai a rendermi conto che c'era qualcosa di profondamente diverso fra la musica occidentale e quella africana. Piu' o meno nello stesso periodo scopersi Paul Horn, il flautista canadese che era andato a suonare nelle piramidi. Capii il suo anelito di entrare in contatto con quelle culture, diventammo amici. Mi resi conto che lui stava "trovando" un sound che aveva cercato a lungo, per il quale sarebbe stato disposto ad andare sulla Luna. Fu cosi' che mi diedi allo studio della musica indiana, partendo dai classici, e che imparai a suonare i loro strumenti. Piano piano nel mio repertorio di musicista si insinuarono ritmi sempre piu' etnici, fino all'ultimo disco che rappresenta uno degli esempi piu' radicali di fusione fra diverse culture musicali".

Perche' i musicisti occidentali devono "viaggiare" per trovare il sound?
"Perche' l'America non ha un suo ritmo: usiamo quelli che abbiamo importato dall'Africa e dall'Europa. Gli unici ritmi originali dell'America sono quelli che abbiamo soppresso, quelli dei pellerossa. Non abbiamo ritmo perche' non abbiamo storia. Ma come tutti gli esseri umani abbiamo bisogno del ritmo. E allora dobbiamo tornare ai nostri antenati per ritrovare il ritmo primordiale che e' andato perso in tutte queste migrazioni verso il Nuovo Mondo. Dobbiamo percorrere la strada opposta a quella che abbiamo compiuto per colonizzare questo continente. D'altronde non dovremmo mai considerarci americani, ma semplicemente persone di questo pianeta. Cosi' andiamo a prendere il ritmo dalle altre culture, perche' ci dia energia, perche' ci riporti all'essenza dell'esistenza umana, perche' ci trasporti in altre epoche e in altri posti."

World music non e' diventato un termine troppo generico?
"Non solo. Se vogliamo, tutto e' world music! Cos'e' che non sia world music? Per l'ascoltatore medio cio' che la world music ha davvero portato di nuovo e' l'essere coscienti che esiste musica altrove, suonata con uno spirito diverso dal nostro. Il fatto che oggi le musiche etniche stiano penetrando nella nostra musica di consumo non fa che ristabilire quella verita': tutto e' world music. La musica popolare e' sempre piu' "popular world music". Con questo non voglio dire che si stia perdendo l'identita' di quella musica etnica: e' senz'altro importante che ogni cultura badi a conservare la propria tradizione. Ma non e' vero che la world music sia un fatto recente: e' sempre stato cosi', abbiamo sempre usato musiche antiche e integrato fra di loro musiche diverse. Se ci pensiamo, non e' piu' chiaro cosa sia nuovo, altro che il modo in cui presentiamo cio' che e' vecchio! Anzi, non so neppure so cosa ci sia di nuovo riguardo la new age: se ci pensi, e' "old age"! Non facciamo altro che ricordare qualcosa che accadde molto tempo fa."

Non e' che questo boom della world music sia piu' che altro un fatto commerciale?
"Il consumismo ha la sua parte, non c'e' dubbio. E funziona in entrambi i sensi: ho prodotto un gruppo della Gambia, che erano molto puri, e recentemente il loro ministro della cultura ha chiesto loro di incorporare generi occidentali per essere piu' "vendibili" all'estero. Il lato positivo della medaglia e' che queste operazioni commerciali non fanno che evidenziare il potere delle altre musiche, il potere di usare tante musiche invece che una sola. Non tutti poi sono cosi' disponibili agli innesti. Vivo vicino a un cantante pellerossa che va sempre al pow-wow annuale. Una volta mi hanno lasciato registrare la loro musica, ma mi hanno imposto di non usarla mai per campionamenti o comunque per includerla in un disco. Sono molto gelosi della loro musica, come se fosse un fatto religioso. In generale spero che in tutte le operazioni di world music si celi sempre un'intenzione piu' nobile. Tutto sommato l'intera new age e' un'intenzione: l'intenzione di fare qualcosa di nobile dietro la musica che si ascolta. La musica new age e' sempre qualcosa di piu' di un semplice intrattenimento (rilassarsi, eccitarsi, pensare). Il suo scopo globale e' quello di far si' che la gente si senta meglio, viva meglio. In questo senso world music e' la musica new age per eccellenza, perche' gran parte delle musiche etniche hanno da sempre la connotazione "taumaturgica". Da millenni vengono usate per scopi "medici", riescono a guarire, a compiere veri e propri miracoli. Se questo diventa un prodotto per il consumo di massa, sinceramente non vedo cosa ci sia di male. Anzi."

Qual'e' stato in definitiva il contributo principale della world music alla nostra societa'?
"Sta portando la gente ad essere piu' vicina, riduce le differenze fra stranieri, li riconduce tutti alla stessa essenza. Una persona che suona percussioni in un certo modo in Africa e una persona che suona percussioni in un altro modo in Indonesia suonano in maniera diversa, ma suonano entrambe le percussioni. Aiuta a rendersi conto che possiamo essere diversi, ma alla fine siamo sempre uguali. Aiuta a sconfiggere il razzismo, a far convivere in armonia."

Cosa succedera' adesso?
"In futuro questo grande "melting pot" musicale potrebbe farci perdere le radici dei generi che ascoltiamo. A forza di integrare un po' di tutto, finiremo per non renderci piu' conto che stiamo ascoltando musica africana, cubana, etc. Insomma torneremo indietro agli anni Cinquanta, quando ascoltavam musica caraibica senza saperlo. Oggi i ragazzi pensano in maniera molto diversa dagli adulti: direi che i ragazzi si sentono piu' cittadini del mondo di come ci sentivamo noi, che eravamo americani al 100%. Loro sono americani soltato al 50% e forse di meno. Le nuove generazioni assorbono il mondo. Il mondo e' la loro citta'. E' inevitabile. Mi dispiacerebbe se la purezza delle origini venisse persa e se la musica antica venisse disprezzata a favore della fusion moderna. Spero che i ragazzi rimangano sempre in grado di riconoscere che quel certo ritmo e' un ritmo delle tribu' africane, che vivono da millenni migliaia di chilometri da qua e hanno una cultura diversa dalla nostra, ma sono esseri umani come noi. Spero che questo sia soltanto l'inizio del comunicare insieme. Davanti alle tragedie che dilaniano il mondo di oggi posso soltanto sperare che la world music aiuti a costruire un mondo migliore."

Perche' i paesi del terzo mondo sono a loro volta cosi' ossessionati dalla musica nostra?
"L'ho notato anch'io. Dovunque tu vada sono loro a volere qualcosa della cultura americana, fosse anche soltanto una maglietta con due parole in inglese. Il problema e' che i loro media gli hanno detto che questa e' la Terra Promessa, che qui tutto e' perfetto, e cosi' loro sono diventati ancor piu' fanatici del mondo occidentale di quanto lo siamo noi. In questo modo talvolta non fanno che premiare gli occidentali che li sfruttano. E' triste."

Adesso a cosa sta lavorando?
"Ho appena finito il nuovo album, Third Force. E' il quindicesimo della mia carriera ed e' anche il piu' radicale in assoluto. Ho assunto due giovani partner grazie ai quali ho potuto integrare l'hip-hop con la new age, oltre ad inflessioni latine, africane e jazz. A cambiare la mia vita di musicista furono gli africani Soto Koto, con i quali lavorai due anni fa. Da allora ho capito l'importanza di mettere l'enfasi sullo spazio fra le battute, invece che sulle battute come facciamo noi occidentali. Il nuovo disco applica la mia nuova visione della musica: a muovere la musica, ad originare le canzoni, e' la "groove". E' la groove che cura lo spirito, che induce eccitazione, che crea lo stato alterato della coscienza di cui abbiamo bisogno per recuperare la nostra identita'. Sono dieci canzoni fortemente ritmate in questo modo con l'accompagnamento di chitarra, tastiere, flauto, una sezione di fiati e il mio amico Craig Chaquico alla seconda chitarra. E' il piu' world di tutti i miei album, in quanto e' quello che conserva l'aspetto percussivo delle musiche a cui mi sono ispirato."

"Per concludere, vorrei poter ringraziare ogni cultura che mi ha ispirato. Mi sento come se stessi compiendo un lungo viaggio, di cultura in cultura. E non sono nemmeno sicuro di voler completare il viaggio prima di morire: spero di continuare fiuno alla fine a scoprire nuove musiche, che continuino ad accendere scintille di creativita' dentro di me giorno dopo giorno. Con la gente che suona con me si stabilisce un rapporto di amicizia, di convivenza, e nel mio piccolo cerco di superare le barriere che causano tante tragedie. Vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno consentito di vivere questa vita. Ma forse dovrei ringraziare il mondo intero..."


Jon Hassell
(Copyright © 1994 New Sounds)

Jon Hassell deve essere considerato fra gli inventori della world music, perlomeno nell'accezione moderna. I suoi dischi della fine degli anni Settanta hanno coniato un linguaggio a cui si e' ispirata un'intera generazione, nonche' santoni del genere come David Byrne e Brian Eno. Il suo stile unico alla tromba ne ha fatto uno dei collaboratori piu' apprezzati da personaggi come Peter Gabriel. Recentemente, con i suoi ultimi dischi, Hassell ha ulteriormente ampliato gli orizzonti della sua musica, incorporando anche l'hip-hop, e tracciando in tal modo di nuovo il cammino per innumerevoli imitatori.

Qual'e' la sua relazione con la world music oggi?
"Ho sempre avuto una strana relazione con la world music. Essendo stato fra quelli che l'hanno lanciata, non posso dire di essere deluso dalla situazione odierna. Ovviamente sono molto felice che sia diventata un fenomeno cosi' capillare. Da un punto di vista ideologico e' semplicemente stupendo che cosi' tanta gente venga a contatto con musiche come quella di Giava o dell'Africa che fino a vent'anni fa erano note soltanto a una ristretta cerchia di specialisti. D'altro canto, pero', questo fenomeno sempre piu' commerciale sta perdendo un po' dei suoi connotati originali, che erano soprattutto di scoperta e avvicinamento a quelle culture lontane, di interiorizzazione delle loro radici sociali, e di riflessione sulla condizione umana. Oggi sta diventando semplicemente una moda in cui si gettano un po' tutti, in maniera caotica e frenetica. I mass media ne parlano alla stregua di un ennesimo sfruttamento commerciale, perdendo di vista tutti gli aspetti piu' autentici del movimento. Sono arrivato al punto da annoiarmi cosi' tanto a leggere e ascoltare sempre le stesse cose, che negli ultimi anni ho smesso di suonare world music come la suonavo vent'anni fa e ho cominciato a guardarmi intorno. E' stato salutare: ho infatti scoperto che la world music non e' soltanto quella che troviamo nei paesi lontani, nasce e cresce anche nel proprio giardino. Qui negli USA siamo oggi testimoni di un fenomeno che durera' nei decenni, siamo testimoni della nascita di una nuova cultura popolare, le cui radici non sono meno "terzomondiste" di quelle di Giava e dell'Africa. Per qualche forma di reazione al successo della world music tradizionale, oggi mi trovo molto piu' a mio agio con l'hip-hop, con una forma di musica moderna. Mi sembra paradossale correre quasi con l'affanno a riscoprire musiche che sono vecchie di mille anni, quando questo genere, l'hip-hop, viene inventato qui, oggi, dietro casa mia, sotto i miei occhi. E si tratta esattamente dello stesso fenomeno: la musica di un certo paese africano ebbe origine da una simbiosi fra i suoi abitanti e l'ambiente naturale, una simbiosi che produsse strumenti capaci di imitare i suoni della natura. Oggi i neri urbani non fanno altro che compiere la stessa operazione in un ecosistema che purtroppo non e' piu' definito dai suoni di uccelli, vento, pioggia, ma dai suoni nevrotici della metropoli, dalla jungla urbana dell'Occidente. Mutatis mutandis si tratta pero' dello stesso fenomeno: a cambiare sono soprattutto i mezzi, perche' oggi i neri hanno a disposizione il giradischi (o, meglio, il campionatore). Tutto sommato la world music contemporanea, l'hip-hop, rende anche piu' attuale quella antica."

Ma come avvenne la sua maturazione come musicista di world music?
"E' una storia lunga e contorta. Intanto nacqui e crebbi a Memphis, nel Tennessee, uno stato che non e' particolarmente famoso per lungimiranza artistica, ma, come tutto il Sud americano, ha la fortuna di essere un melting pot in miniatura, nel quale si incontrano e intersecano le culture dei bianchi e dei neri. Per quanto ai miei tempi esistevano ancora delle potenti barriere razzialli, e quindi mi era quasi impossibile interagire con i neri in maniera diretta, venni esposto fin da piccolo alla loro musica. Anni dopo cercai di scoprire da dove veniva la loro cultura, cosi' diversa dalla nostra. Crescere in Tennessee fu pertanto molto importante per suscitare la scintilla del mio interesse per le culture del Terzo Mondo. Furono tanti piccoli episodi, apparentemente non correlati fra di loro, che mi portarono alla musica. A nove anni mio padre, che aveva suonato la cornetta al college, mi porto' in un locale esotico, di cui non ricordo assolutamente nulla, ma che mi rimase impresso per sempre; un'altra volta mi lasciarono solo nell'auto con la radio accesa, e fu cosi' che ascoltai per la prima volta l'orchestra di Stan Kenton. Dal sound latino e caraibico di questi e dalle mie fantasia esotiche nacque la passione che mi sospinge ancora oggi alla ricerca di nuove sonorita'."

E la formazione musicale vera e propria come avvenne?
"Studiai composizione e tromba all'Eastman School of Music, nella citta' di Rochester (stato del New York). Composi diversi pezzi orchestrali che sono rimasti inediti, poi (a quei tempi il servizio militare era obbligatorio) venni accettato nella banda militare e ne approfittati per studiare Musicologia all'Universita' Cattolica di Washington. Passavo le giornate a trascrivere canti gregoriani dai manoscritti medievali, ma nel frattempo ascoltavo Miles Davis e i compositori dell'avanguardia europea, due aree che erano in piena esplosione, e, per quanto nettamente separate l'una dall'altra, catturavano l'attenzione di noi giovani musicisti bianchi. A Washington scrissi diversi pezzi per collage di nastri. Nel 1965 decisi allora di andare a completare i miei studi a Cologne. Ebbi cosi' l'occasione di studiare con Stockhausen e Berio. Due anni e mezzo dopo tornai negli USA ed entrai subito in contatto con la nostra avanguardia di allora: in particolare conobbi Terry Riley (suonai sulla "In C", la prima registrazione in assoluto di un lavoro minimalista) e LaMonte Young, nonche' il Pandit Pran Naht, dal quale presi lezioni di canto indiano. Fu grazie alla loro influenza che cominciai a domandarmi perche' le culture classiche e quelle popolari fossero cosi' separate in Occidente, mentre in Oriente sono sempre state la stessa cosa; tanto piu' che l'avanguardia classica e quella jazz stavano scoprendo la stessa cosa: il valore dell'improvvisazione.

"Sviluppai cosi' la nozione del "quarto mondo", un mondo che accomuna gli impulsi istintivi del Terzo Mondo e gli impulsi razionali del Primo Mondo (tre piu' uno uguale quattro). Registrai "Vernal Equinox", che fece scalpore nel 1977 e mi segnalo' all'attenzione di Brian Eno. Eno viveva a New York, lavorava con i Talking Heads e la new wave in generale. Venne a un mio concerto al Kitchen e ascolto' un nuovo pezzo, "Charm", che sarebbe diventato la seconda parte di "Possible Musics", il disco del 1980 prodotto da lui. Fin da quel disco non fui molto soddisfatto della nostra collaborazione. Da un lato ero orgoglioso che la mia musica servisse a introdurre la world music nel mondo della musica rock, ma dall'altro dovevo subire una sorta di ostilita' da parte dei mezzi d'informazione che attribuivano la mia musica a Eno. Lui era naturalmente molto piu' famoso ed influente, io non ero nessuno. Anche oggi ho problemi con le case discografiche che mettono Brian Eno prima del mio nome, anche quando io ho composto quasi tutta la musica. Il mito che Eno invento' tutto e noi eravamo soltanto i suoi collaboratori mi diede molto fastidio. Fu comunque fondamentale per far si' che la world music si diffondesse capillarmente nel mondo del rock. A quei tempi uscivo con Eno e David Byrne e facevo loro ascoltare i dischi etnici della Ocora. Fu cosi' che Byrne inizio' la fase "africana" della sua carriera. Avevamo anche in programma un disco insieme, che avremmo dovuto registrare in solitudine nel deserto della California con una tecnica simile a quella di "Eskimo" dei Residents. Un mese dopo averne parlato ai miei due amici ricevetti invece una cassetta che conteneva le loro registrazioni, quello che poi sarebbe diventato "My Life In The Bush Of Ghosts". Naturalmente mi risentii di essere trattato come la ruota del carro, quando l'idea originale era mia. Ma, ancora una volta, i loro nomi erano molto piu' famosi del mio, per cui la stampa di tutto il mondo lo fece diventare un fenomeno storico, quando invece era semplicemente un derivato delle mie ricerche. Inutile aggiungere che ancora oggi non ho perdonato ne' quei due signori ne' la stampa... Si arrivo' al punto che qualche critico, ascoltandomi, mi accuso' di essere un epigono di Eno e Byrne!

"Fu proprio quella situazione, in un certo senso, a spingermi ad allontanarmi da quella world music. Provai l'impulso a fare qualcosa di completamente diverso. Fu cosi' che nacquero "Dream Theory in Malaya" e "Magic Realism"; ma soprattutto nacque il mio programma "cosmologico", in cui esplicitavo tutte le influenze spirituali e filosofiche sul mio lavoro, dal modello "futuro/primitivo" del quarto mondo di cui sopra al multi-culturalismo a livello sociologico. Ci sono tutte queste dicotomie "antico/moderno", "religioso/secolare", "nord/sud", "naturale/tecnologico", "piacere/dolore" che mi affascinano. Oggi aggiungerei anche la realta' virtuale, le tecniche informatiche per ricreare mondi reali o immaginari dentro il tuo mondo.

Oggi i rapporti con Eno come sono?
"Molto buoni. Siamo ridiventati amici. A scanso di equivoci, aggiungo che sono addirittura il padrino delle sue due figlie. Fu proprio Eno che produsse il disco successivo, "Power Spot".

Come nacque l'amore per la tromba?
"Quando ero piccolo, c'era quasi sempre una cornetta in giro per casa. Fu inevitabile imparare a suonarla. Ma soltanto da adulto riscopersi lo strumento. Capito' al ritorno dall'Europa, quando rimisi in discussione la dicotomia fra classica e popolare, e quando il Pandit Pran Nath mi insegno' a usare la voce come uno strumento. Cominciai a perdere fede nell'astrazione di scrivere musica sulla carta in contrasto con l'azione di suonare uno strumento per davvero, dal vivo. Cosi' cominciai a suonare di nuovo la tromba. Non mi soddisfava pero' lo stile tradizionale. Cercavo di suonare i raga con la tromba, ovvero senza le pause della musica occidentale, producendo invece un flusso continuo, come quando suoni una conchiglia. Poco alla volta cominciai a capire come usare le valvole dello strumento per produrre tale flusso continuo. il timbro che ne e' risultato e' quasi casuale: non stavo cercando il timbro, stavo cercando un modo di suonare i raga con la tromba! Soltanto in seguito cominciai a impiegare anche l'elettronica, per esaltare ulteriormente la qualita' spirituale della mia musica. In quest'ultimo disco ho rinunciato all'elettronica e probabilmente sara' questa la strada del futuro."

E l'avventura californiana quando e' cominciata?
"Nel 1987 mi trasferii da New York a Los Angeles, originariamente per lavorare con il regista d'opera Peter Sellars. Grazie all'intervento di Riccardo Squaldini, che conobbi durante un concerto in Italia, decisi anche di fare un disco con i Farafina, un gruppo dell'Alto Volta. Nel 1989 usci' cosi' "Flash Of The Spirit". Ma sinceramente la mia fase a Los Angeles e' iniziata con "City", un disco che e' ispirato da tantissimi fatti culturali: "Le citta' invisibili" di Calvino, la visione di Jean Baudrillard dell'America come "la societa' primitiva del futuro", la Reggiolo di Fellini, la Londra mitica di Rushdie, la Los Angeles fantacatastrofica di "Blade Runner", la "psicogeografia" dei Situazionisti, e cosi' via. Sono tutte icone che si integrano in un concetto unico, difficile da definire a parole, la "citta' del futuro". E quale citta' meglio di Los Angeles puo' rappresentare la citta' del futuro? A questo punto la mia passione per il folklore urbano era gia' incontenibile. Quel disco aveva veramente riassunto la mia carriera, dagli inizi avanguardistici fino alla scoperta dell'hip-hop.

"Negli ultimi anni mi sono reso conto che avevo esaurito il tema della world music. Mi concentrai sulla letteratura e sulla tecnologia: mentre leggevo ogni sorta di libri, imparavo a suonare computer e campionatore. Conobbi BLK Lion, un musicista di Oakland che era un mio fan e che e' diventato la mia "finestra" sul mondo dell'hip-hop. Un anno fa produssi il suo gruppo. "Dressing For Pleasure", il disco attuale, e' il frutto di questi anni di ripensamento.

In retrospettiva quale ritiene sia stato il contributo della world music alla nostra societa'?
"Piu' ti rendi conto di quanti modi esistono di pensare alla musica, piu' le tue possibilita' di comporre nuova musica si arricchiscono. Se vivi sempre in un piccolo villaggio, avrai una visione molto limitata di cio' che la vita puo' essere; se vivi in una grande citta', entrerai in contatto con cosi' tante storie comuni, che alla fine la tua visione della vita ne risultera' completamente cambiata. Grazie alla world music e all'interesse in generale per le culture degli altri mondi oggi possiamo vivere nel "villaggio globale" e renderci conto quanto piu' complessa la vita puo' essere di come la consideravamo, nonche' di tutti gli aspetti che la compongono, dai fatti dolorosi a quelli edonistici. E' un discorso che vale a tutti i livelli. Per esempio, al livello psicologico di ciascun individuale, la world music ti aiuta a capire come sei tu stesso, facendoti vedere come sono gli altri. Oggi grazie all'introduzione di communicazioni globali abbiamo l'occasione unica di poter entrare nel piccolo ambiente locale del villaggio isolato geograficamente, di penetrare questo microcosmo sociale, di stabilire connessioni con tanti altri villaggi e di creare un ecosistema piu' grande e complesso per tutti. Il lato negativo di questo fenomeno e' che questa e' forse l'ultima volta che possiamo apprezzare quelle culture nella loro forma originale: il villaggio globale, inevitabilmente, distruggera' qualcosa, quel qualcosa che era dovuto al loro isolamento."

E il futuro?
"Il futuro penso che sara' sempre piu' globale; ma comincia ad interessarmi sempre di meno. Invecchiando uno capisce meglio cosa gli piace davvero. Adesso vorrei registrare un disco nello stile delle big band, un disco con un sound orchestrale. Vorrei suonare la tromba in maniera romantica, nel senso piu' tradizionale del termine. Fellini disse: "Invecchiando, voglio dimenticare chi sono".


Bruce Becvar
(Copyright © 1994 New Sounds)

Bruce Becvar e' uno dei piu' brillanti chitarristi new age in circolazione oggi. A una tecnica virtuosistica unisce una sensibilita' quasi mistica che trasforma i suoi pezzi in miniature romantiche traboccanti di pathos. "Arriba" e' il suo settimo disco. Dei precedenti vanno ricordati soprattutto il primo, "Take It To Heart", e quel "Forever Blue Sky" che lo lancio' su scala internazionale. "Nature Of Things", "Rhythms Of Life", "Samadhi" e "Tibetan Sacred Temple Music" completano la discografia.

Come ebbe origine la sua carriera?
"Sono originario del Kentucky, uno degli stati del centro-sud. Sono stati molto musicali, ma anche molto tradizionali. In effetti non posso negare che anche sul mio stile abbia esercitato una certa influenza la musica nazionale del Kentucky, il bluegrass, una forma di country molto veloce. Sono cresciuto maneggiando chitarre, violini, mandolini, e andando a fare il tifo per questo o per quello ai concorsi per "picking", in cui i maggiori strumentisti si sfidano in abilita' tecnica. Da bambino ero affascinato dai chitarristi, un po' come altrove i bambini sognano di diventare giocatori di football. Da adolescente iniziai a costruire strumenti, per conto di una societa' del luogo. Costruivo e aggiustavo chitarre. Grazie a quel mestiere conobbi numerosi musicisti, che mi spinsero a cominciare a suonare."

Lo stile era gia' quello di oggi?
"Lo stile era un misto di tutto. Gia' allora pero' valeva la regola che domina ancora oggi il mio metodo di composizione: fidarsi dell'intuito. Mettevo l'orecchio vicino alla chitarra e lasciavo che le dita andassero con i suoni che pruducevo. I miei idoli in effetti erano i grandi jazzisti Django Rheinardt e Pat Martino, che sapevano improvvisare. Come tecnica, mi ispiro tuttora al chitarrista classico John Williams, che stimo anche piu' di Segovia. Devo aggiungere che nel Kentucky, oltre al bluegrass, si ascolta molta musica classica, e io ascoltai Vivaldi e Mozart fino alla nausea."

Perche' decise di fare il musicista piuttosto che altro?
"Prima di tutto, confesso che non ho mai imparato a suonare la musica... per cui non so se posso definirmi un musicista. Poi devo ammettere che fu praticamente un caso. Nel 1984 registrai le prime canzoni, non ricordo neppure perche'. Qualcuno le ascolto' e mi fece i complimenti. Piano piano presi coraggio. Un giorno decisi che mi sentivo abbastanza sicuro di me stesso da abbandonare il mestiere di costruire strumenti per darmi alla composizione. La mia motivazione non e' pero' mai stata quella di avere successo, diventare ricco o che so. La motivazione principale e' sempre stata quella di raggiungere la gente, di trasmettere messaggi positivi, di comunicare con persone che non conosci e non conoscerai mai, ma che possono sentirti e capirti".

Dal flamenco di "Arriba" alla musica indiana di "Samadhi" mi sembra che abbia esplorato uno spettro impressionante di stili di musica
"Un chitarrista ha il vantaggio che la chitarra e' stata usata per fare un po' di tutto... La svolta determinante fu certamente quando conobbi la mia partner, Nada Shakti, che canta in sanscrito e lavorava gia' per guarire con i suoni, secondo la tradizione yoga, sia in USA sia a Praga. Con lei ho realizzato due dei miei album, che mi hanno profondamente segnato. Sono lavori sono piu' spirituali rispetto a quelli che faccio da solo, sono preghiere devozionali piu' che album. La cosa sorprendente e' che alcune delle stazioni radiofoniche di musica rock li vogliono programmare..."

Cosa ascolta?
"Non ascolto molto, ascolto distrattamente un po' di tutto: pop-jazz, rock leggero, musica strumentale. Semmai faccio molta meditazione e molto yoga, ogni giorno ho il mio regime."

Perche' vivere alle Hawaii?
"Perche' le Hawaii sono come un polo magnetico per me. Sono vissuato a Santa Barbara, in California, dal 1989 al 1993. Poi l'anno scorso ho scoperto questa isola che ha molti elementi di diverse zone della California, ma al tempo stesso e' circondata dall'oceano, e' tranquilla, e' immersa nella natura. E, ovviamente, non stiamo parlando di un'isola turistica sommersa di turisti."

La natura e' importante?
"La natura e' la cosa piu' importante dell'universo! Personalmente sono costantemente ispirato dalla natura, c'e' un rapporto costante fra di noi che viene rinnovato con ogni canzone."

Come nascono le sue canzoni?
"Ci sono un paio di modi in cui puo' nascere una canzone. In generale capita che io mi sieda ad accarezzare le corde, senza cercare di fare nulla di particolare. Lascio soltanto che la chitarra suoni da se attraverso le mie dita, e all'improvviso un motivo tende a ripetersi, sempre piu' forte, finche' prende corpo, comincia ad espandersi e diventa una canzone. Altre volte comincio invece dal ritmo, un ritmo qualsiasi, con uno strumento a percussione qualsiasi."

E' giusto chiamare la sua musica "new age"?
"Non sono molto contento di essere classificato in una corrente particolare. Penso che la la mia musica sia diversa da ogni altra musica, ma che alla fine un'etichetta me la devono affibbiare. Un mio amico l'ha definita "neo-classical space pop-jazz". Credo di aver esporato molti generi di musica, e spero che ci sara' sempre un pubblico per qualcosa di cio' che ho fatto. Che poi sia new age o meno mi pare irrilevante."

A cosa sta lavorando adesso?
"Sono molto entusiasta del mio prossimo progetto, a cui sto dedicando molto molto tempo e molta energia. Il Dr Deepak Chopra, autore del bestseller "Ageless Body Timeless Mind" e divulgatore delle tecniche di guarizione indiane, che tenta di fondere alla medicina occidentale, ha bisogno di musiche per complementare il suo metodo. Nella sua pratica medica la musica serve a equilibrare la personalita' dei pazienti. E' una forma di medicina preventiva, insomma. Quindi mi trovo oggi a comporre musica specificamente per la ragione per cui in passato ho sempre (inconsciamente) fatto musica. Anche dal punto di vista tecnico non e' banale: devo fare musica per ciascuno dei tre stati del corpo che sono riconosciuti in questa teoria, che possono essere identificati da una diagnosi."

Il suo disco preferito?
"Take It To Heart", che va ascoltato su vinile perche' ha senso soltanto in analogico. Credo che l'analogico porti piu' informazione del digitale. Il CD taglia le frequenze, sia quelle alte sia quelle basse. Quel disco venne registrato facendo leva proprio sulle frequenze estreme. Naturalmente sono affezionato anche a "Forever Blue Sky", che mi ha dato la fama. Di "Arriba" mi piacciono soprattutto "Spanish Rose" e "Forever In My Heart".

Cosa si aspetta adesso dalla musica?
"Nulla. La gente capisce chi sono dalla mia musica. La musica e' comunicazione. Non c'e' bisogno di fare alcuno sforzo. Tutta l'informazione su di me e' dentro le vibrazioni della mia musica."


Suzanne Ciani
(Copyright © 1994 New Sounds)

Suzanne Ciani e' musicista di formazione classica, che inizio' frequentando le nuove musiche elettroniche degli anni Sessanta. Di quella scuola assorbi' soprattutto la curiosita' e la propensione all'esperimento. Negli anni Ottanta Ciani ha scoperto un uso piu' umano e comunicativo dell'elettronica e ha dato vita a una delle carriere piu' ammirate della new age. Le sue "Waves" rimangono un punto di riferimento obbligato per le giovani generazioni: si tratta sostanzialmente di una revisione in chiave moderna del formato della fantasia melodica. Il suo forte e' il contrappunto, che amplifica a dismisura le felici intuizioni melodiche, le arie classicheggianti che compongono l'ossatura delle sue composizioni.

Il suo retroterra "tecnologico" le consente spettacolari fughe in avanti nel campo dell'arrangiamento, che si traducono in armonie eleganti e maestose, in una perfezione formale che rasenta il manierismo. L'effetto fortemente ipnotico di queste composizioni prese il sopravvento a partire da "Velocity Of Love", l'album che l'ha rivelata al grande pubblico. I suoi flussi di coscienza sonori danno origine a musiche rilassanti e orecchiabili, al tempo stesso erudite e di facile consumo. I temi melodici per pianoforte di questo disco schiusero a loro volta nuovi orizzonti, lanciando Ciani nel mondo piu' fiabesco di "Neverland", un album curato a livelli maniacali tanto nella composizione quanto nell'esecuzione. Con il passare del tempo la musica di CIani ha subito un'evoluzione naturale, dall'esibizionismo emotivo dei primi tempi all'impressionismo sommesso delle ultime opere. Lontana tanto dagli scenari apocalittici della new age elettronica quanto dagli acquarelli festosi dei pianisti solisti, Ciani ha imposto uno stile privato e incantato di analizzare le proprie emozioni e di trasferirle in suoni.

Suzanne Ciani e' oggi una delle maggiori pianiste new age. Recentemente e' tornata brillantemente in corsa con un album che sembra aprire una nuova fase nella sua gia' lunga e luminosa carriera.

Di origini italiane, crebbe in una cittadina del Massuchussetts, nei pressi di Boston...
"La nostra era una famiglia molto unita e molto tradizionale. In casa avevamo uno di quei giganteschi pianoforte a coda Steinman (giganteschi per una bambina), ma francamente all'inizio non provai un grande interesse per la musica. Il problema era l'insegnante, che per ragioni misteriose voleva insegnarmi soltanto motivi pop. Cosi' a sette anni cominciai a suonare da sola, quasi di nascosto, i miei pezzi preferiti, Bach, Chopin, Rachmaninoff, Grieg, e piu' tardi i grandi compositori russi, il jazz e cosi' via. Avevo imparato a leggere musica e per me era come leggere libri: cercavo di leggerne quanti piu' potevo, tutto cio' che riuscivo a trovare. Durante gli anni del liceo passai gran parte del mio tempo a studiare piano, composizione e direzione. Al Wesley College, una scuola per sole ragazze (dove ha studiato anche Hillary Clinton), presi una laurea in musica nel 1964. In quegli anni feci un ottimo apprendistato."

In cosa consiste un apprendistato musicale?
"La musica puo' essere approciata da diversi punti di vista. Puoi essere interessata ad imparare come apprezzare un brano di musica. Puoi desiderare di immergerti nella matematica della musica. Puoi fare musica per mestiere. E cosi' via. E' sempre musica, ma la prospettiva e' diversa. La parte che io preferivo era quella del contrappunto, soprattutto nella musica del Cinquecento e del Seicento, fino a Bach, fino i suoi miracoli di armonia. Il mio apprendistato fu molto tecnico, in un certo senso. Tanto piu' che ci obbligavano a scrivere musica per altri musicisti. Era un esercizio molto istruttivo. Cosi' dovevo scrivere un po' di tutto, e potevo in tal modo sperimentare con gli strumentim. Capire cosa gli strumenti sanno fare e cosa non sanno fare e' fondamentale. Il mio apprendistato fini' a Berkeley, dove presi il mio master in composizione. A quel punto pero' mi stavo gia' lasciando alle spalle il mondo accademico, che trovavo piuttosto angusto." "Avevo scoperto la musica elettronica, un mondo eccitante che stava nascendo proprio allora. Non mi era stato consentito di aggiungerla ai miei studi, e questo non fece altro che acuire la mia insofferenza nei confronti dell'approccio accademico alla musica, che, non essendo guidato dall'emozione, e' un palese controsenso nei confronti della musica, la piu' personale delle espressioni artistiche. Fu cosi' che incontrai Don Buchla, uno dei primi ingegneri a costruire sintetizzatori, ed entrai a lavorare nel suo "laboratorio", assemblando i suoi strumenti elettronici e dandogli del feedback sui suoi progetti. Da un lato cio' mi consenti' di diventare una virtuosa dello strumento, e dall'altro mi fece affezionare all'elettronica. Per dieci anni di fatto non suonai piu' il pianoforte. Feci le mie prime perfomance dal vivo a gallerie d'arte e musei della zona di San Francisco, accompagnando anche compagnie di ballo. Poi un giorno mi venne offerto di suonare in una galleria d'arte a New York. Era il 1974: andai a New York per dare il concerto e vi rimasi per diciannove anni! Restai infatti affascinata dall'energia, dalla mancanza di un orologio, di un tempo: la citta' era sempre viva, non c'era differenza fra giorno e notte, lunedi' e domenica; mi innamorai dell'ambiente degli artisti di New York, dell'esplosione culturale che era in corso a SoHo (prima che diventasse la Disneyland che e' oggi), e divenni amica di Philip Glass, Steve Reich, Ornette Coleman, Dicky Landry, e tanti artisti visivi. Si stava compiendo una delle trasformazioni culturali piu' importanti del secolo e io ne ero parte."

"Fu a quel punto che decisi di fare la musicista a tempo pieno. Dopo sei mesi stavo morendo di fame... (risata). Arrivai a toccare il fondo, a livello dei barboni. A scuola non ero mai stata ricca, ma avevo qualche finanziamento perche' ero una brava studentessa. A New York non e' bello essere poveri... il clima non e' quello della California. Fui costretta a "vendere" il mio talento all'industria pubblicitaria. Con mia grande sorpresa il sound del mio Buchla divenne presto richiesto, e mi ritrovai dall'oggi al domani gettonatissima per la mia capacita' di suonarlo. Lavoravo molto duramente, composi la musica per pubblicita' di Coca Cola e Columbia Pictures. Divenni una businesswoman con i fiocchi, avevo la mia societa', Ciani/Musica. Stavo diventando ricca! Ma la motivazione non era quella di far soldi, era quella di potermi permettere una cosa che altrimenti non avrei mai potuto fare: realizzare un album. Volevo comporre e registrare qualcosa di mio, senza le costrizioni delle case discografiche, ma registrare un album per me significava poter disporre di una certa somma di denaro, perche' a quei tempi l'alta tecnologia era cara, troppo cara per un individuo qualsiasi, soprattutto in un periodo in cui nessuna casa era disposta a investire una lira nella musica elettronica. Avevo bisogno di trovare i soldi per produrre da indipendente i miei due album. E finalmente nel 1982 in Giappone venne pubblicato "Seven Waves" (negli USA usci' nel 1984)."

Perche' "onde"?
"Onde" perche' sono sempre stata ispirata dal mare. Ho scritto molte cose all'oceano. "Onde" anche perche' la forma dei brani e' quella alle onde, da un punto di vista strutturale: iniziano dolcemente, crescono fino a un climax, poi recedono. Infine "onde" perche' ero sempre stata affascinata dall'idea di ricreare in maniera elettronica il suono delle onde. Tutto su quell'album e' elettronico. Usai persino un vocoder per incorporare la mia voce. Era un'altra invenzione magica in cui ero stata coinvolta da Harold Bode, un tedesco che viveva a New York e adatto' lo strumento apposta per me in modo che lo potessi usare anche se non ero una cantante e non volevo usare liriche. La cosa piu' importante era che alla fine io ottenessi il registro organico e sensuale, soffice e forte al tempo stesso che mi serviva. Quell'album e' in effetti un unico pezzo continuo."

E fu l'inizio di una luminosa carriera...
"Per la verita' pensavo che sarebbe stato l'unico e ultimo album della mia vita. Tutto cio' che volevo era soltanto fare quell'album. Non ero al corrente di nessun altro facendo quella musica, ispirata dalla classica ma cosi' ampia, cosi' colorata, cosi' potente, cosi' popolare. Era classica perche' aveva una struttura e uno svolgimento molto rigorosi. Ma era popolare perche' era fatta per essere ascoltata anche da chi non aveva una preparazione tecnica. Toltami quella soddisfazione, pero', non avevo altri stimoli da soddisfare. Ero contenta di vivere con il mio sintetizzatore, che faceva musica di continuo a casa mia. Lo programmavo per suonare qualcosa per me, e mi piaceva avere quel suono attorno a me tutto il tempo, divenne una presenza quasi fisica nella mia vita. Invece un giorno mi venne l'ispirazione per il secondo album e, forte della mia fama, ottenni un contratto con la RCA. Tutti pensano che "Velocity Of Love" sia stato il mio colpo di fortuna: in realta' fu un disastro, perche' la RCA venne venduta alla BMG e il nuovo manager non mi prese minimamente in considerazione. Venni relegata in qualche angolo del loro archivio. Fu cosi' che l'album divenne un hit all'inizio del boom della new age, ma nei negozi non c'erano dischi da comprare... La cosa migliore di quel contratto e' che dopo cinque anni decadde e i diritti del disco tornarono a me."

Poi passasti alla Private...
"Neverland" usci' per la Private perche' ne conoscevo il fondatore, anche era un appassionato di tecnologia (Peter Baumann, ex Tangerine Dream). Ci incontrammo a Manhattan: lui era interessato in certe nuove drum machine di cui io ero gia' diventata un'esperta. Per la prima volta mi fidai a firmare un contratto discografico a lungo termine, e l'inizio mi conforto'. "Neverland" usci' all'apice della new age, e venni persino nominata per un Grammy Award in quella categoria. La mia vita si stava pero' complicando un po' troppo. Avevo il mio studio a New York, e avevo deciso di non fare piu' commercial e film. Volevo soltanto fare l'artista, ma non me lo potevo permettere perche' l'agenzia Ciani/Musica era troppo grossa: avevo gente che lavorava per me, troppi costi e complicazioni. Insomma, alla fine decisi di rompere, ma ci vollero quattro anni per uscirne."

Nel frattempo uscirono "History Of My Heart" e "Pianissimo"...
"Quando composi "History Of My Heart" vivevo ancora in New York, ma sognavo di tornare in California. Cosi' mi trasferii nel nord della California a scrivere e registrare i pezzi. "Inverness", "Eagle" incorporano il pianoforte. Avevo grandi speranze per l'album, mi piaceva proprio molto. Ma a quel tempo la Private si stava spostando a Los Angeles e qualcosa ando' storto. L'album non ebbe il genere di promozione che avrebbe meritato. Mi scoraggiai, non mi sentivo di fare un altro album, non avevo mai fatto un album per farne un altro. Ma Peter mi incoraggio' a fare qualcosa di piu' semplice, suonando soltanto il pianoforte. Con la collaborazione della Yamaha, che mi mise a disposizione mezzi e tempo, feci "Pianissimo", che, sorpresa, fu un successo insperato. Dopo quell'album mi rappacificai finalmente dopo tanti anni con lo strumento della mia infanzia, il pianoforte. A quel punto ero di nuovo senza uno scopo, pero'. Decisi che se qualcosa poteva ispirarsi, doveva essere l'Italia. L'Italia era sempre stata nei miei sogni. Avevo sempre desiderato vivere in Italia. Nell'autunno del 1990 mi recai cosi' per sei mesi, visitare la mia famiglia e imparare l'italiano. Partendo da MIlano, continuai a girare per l'Italia alla ricerca del posto giusto per cio' che stava nascendo dentro di me, per partorire il nuovo periodo della mia vita. Man mano che scendevo verso sud mi sentivo sempre meglio, finche' arrivai a Mirabella, vicino a Avellino, il paese di cui erano originari i miei antenati. Scoprii cosi' che la storia dei miei antenati era ancora li', dal letto in cui mori' mio nonno agli scritti dei miei bis e trisnonni. Affittai una villa a Capri e la Yamaha mi mando' un pianoforte. Fu cosi' che ebbe origine "Hotel Luna".

Perche' adesso hai provato il bisogno di fondare la tua casa discografica?
"Le cose andavano bene, ma non ero del tutto felice: tradizionalmente all'artista non viene concesso di interessarsi del marketing, ma per me questi album erano i miei bambini. E' come avere un bambino e darlo via in adozione. La casa discografica non vuole sentirti: "dacci il bambino e va a farne un altro!" Avevo messo cosi' tanto di me stessa in questi album... Non potevo essere felice di vederli accuditi da altri, e talvolta persino maltrattati. Poi ci sono ragioni personali. Ero stata una vagabonda per qualche anno, ero stata operata di un tumore al seno. Non stavo bene. A questo punto vivevo per lo piu' a Los Angeles. Il contratto prevedeva altri due album con la Private, ma nel 1992 incontrai quello che adesso e' mio marito, che e' avvocato, e lui trovo' il modo di farmi rompere il contratto. Ero cambiata io ed era cambiata la Private, che si stava dedicando al rap."

Dell'album cosa ci dici?
In "Dream Suite" ho dato priorita' alla direzione artistica. E' un album per orchestra e pianoforte, una cosa che alla Private pensavano fosse una follia. Adesso vivo a nord di San Francisco, ho uno studio sull'oceano. In questi anni intensi e avventurosi ho trovato il modo di lavorare con quest'orchestra russa ed e' stata un'esperienza eccezionale. Spero che questo disco possa riassumere tutto cio' che ho imparato nella mia vita."


David Darling
(Copyright © 1994 New Sounds)

Ennesimo prodotto del Paul Winter Consort, il violoncellista David Darling e' stato ed e' tuttora uno dei protagonisti della rivoluzione che sta portando gli strumenti ad arco al centro dell'attenzione della musica new age.

David Darling e' anzi l'uomo che ha imposto il violoncello all'attenzione del pubblico della new age. Anche lui e' un discepolo del Consort di Paul Winter, e a Winter rende infatti omaggio in quasi tutti i suoi dischi. Dopo una serie di collaborazioni di alto livello, Darling trovo' il coraggio e lo spazio per registrare il suo primo album solista, "Journal October", sul quale brillano alcune improvvisazioni per violoncello ed elettronica che sono state importanti per l'evoluzione dello strumento. La tecnica da virtuoso risaltano particolarmente nei brani intitolati "Solo Cello": contrariamente a quanto facevano i jazzisti d'avanguardia in quel periodo, gli assoli di Darling rifuggono dalla fredda elucubrazione stilistica per immergersi senza ritegno in una cornucopia di accenti esotici e di melodie occidentali. La suggestione cromatica di "canzoni" come "Minor Blue" e' elevatissima, benche' l'architettura della partitura sia fra le piu' audaci del periodo (un trio di violoncelli). L'album "Cycles" prese lo spunto da queste innovazioni, ma giovandosi di un ensemble di tutto riguardo, nel quale spiccano Jan Garbarek al sassofono, Steve Kuhn al pianoforte e Collin Walcott al sitar e alle percussioni. Evidente l'influenza della scuola ECM, incontenibile l'estetismo, quasi barocco il risultato. Darling conia una forma di ballata popjazz con accenti vagamente indiani. I suoi temi struggenti infervorano anche il successivo "Eos" e l'album con Eric Tingstad (chitarra) e Nancy Rumbel (oboe). L'esperienza matura di Darling e' quella nei Radiance, un altro ensemble (come gli Oregon) formato da discepoli di Paul Winter. L'ispirazione e' appena piu' etnica, ma e' l'esecuzione a costituire il fatto saliente, all'insegna di una pulizia formale degna della musica da camera piu' austera. Il ritorno all'album solista e' avvenuto due anni fa, con un'opera che ha fatto scalpore, seguita da un "Eight String Religion" che e' da molti considerato uno dei dischi piu' importanti degli ultimi anni.

Quali sono le tue origini musicali?
"Ad Elkhart, il paese dell'Indiana dove sono cresciuto, avevano un programma musicale incredibile. Grazie ai mezzi messi a disposizione dalla scuola locale era molto facile per un ragazzino venire a contatto con gli strumenti piu' svariati. Io scoprii il violoncello da bambino e imparai a suonarlo in una settimana. Crebbi in un ambiente saturo di entusiasmo per la musica, per cui non mi accorsi fino ad eta' adulta di aver scelto uno strumento insolito."

E' facile imparare a suonare il violoncello?
"Tutto cio' che ti piace veramente fare e' facile da fare. Non ho mai trovato difficile suonare uno strumento, qualunque strumento mi venisse proposto, perche' mi piace la musica. Punto. Ho suonato il basso in un complesso di rock and roll, il sassofono alto e quello baritono in complessi jazz. Ho suonato persino la tuba in una delle bande marcianti del mio paese. Ho improvvisato musica per pianoforte. Non capita mai che io abbia troppa musica attorno a me, anzi, non ne ho mai abbastanza. Fammi suonare un bicchiere con uno stuzzicadente e vedrai che imparero' in fretta. E' chiaro che c'e' qualche difficolta' tecnica nel suonare il violoncello. Richiede molto orecchio. Paragonato agli altri strumenti, soltanto l'oboe e il corno francese sono piu' difficili. Ma secondo me questo e' un dettaglio: cio' che conta e' quanto ti appassiona il farlo."

Cos'ha di speciale il suono del violoncello?
"il suono del violoncello e' cosi' profondo, ricco, maschio. A scuola ero un ragazzo innamorato di basket, football, atletica, insomma un adolescente medio americano. In qualche modo il violoncello rifletteva quei valori semplici ed elementari, ma al tempo stesso universali. Il suo suono emotivo e drammatico e' diventato talmente comune per me che non mi rendo neppure piu' conto quali corde tocchi nel mio animo. E' stato soltanto con gli anni che ho scoperto come il violoncello sia il piu' versatile di tutti gli archi. Lo puoi suonare come una chitarra o come un'arpa, basso il come un contrabbasso o alto come un violino."

Perche' ci sono cosi' pochi violoncellisti?
"Ottima domanda. Molti non vogliono suonare il violoncello per ragioni triviali: per esempio, perche' e' difficile da portarsi dietro. Poi richiede comunque una certa energia fisica, non tutte le donne, per esempio, hanno voglia di fare palestra per riuscire a suonare un violoncello... Ma credo che la ragione seria sia un'altra. Negli anni '60 e '70 suonare strumenti classici e' diventato sempre piu' difficile, perlomeno qui negli USA. La musica e' stata progressivamente abbandonata dalle autorita', relegata alle scuole per fanatici. Non e' piu' cosi' facile per un ragazzino innamorarsi del violoncello. La musica classica e' un privilegio esclusivo dei pochi che se la possono permettere. Ormai tutti i media sono focalizzati sulla musica pop, nella quale il violoncello puo' essere al massimo un vezzo, un orpello occasionale. Un ragazzo che si metta a suonare il violoncello oggi e' un mostro. Infine non ci sono letteralmente posti dove suonarlo e guadagnarsi da vivere... Insomma, da un punto di vista politico il violoncello e' quasi fuorilegge. Adesso che, dopo gli ulteriori tagli al budget dell'istruzione pubblica, molte scuole non potranno piu' permettersi di insegnare musica per nulla, diventera' improbabile persino che un ragazzino "veda" questo strumento. Forse crescera' senza sapere letteralmente cosa sia. E' una conseguenza catastrofica della cecita' dei nostri governanti."

Quali sono i grandi violoncellisti del passato che ammiri di piu'?
"L'enfant prodige per eccellenza e' Jo Jo Ma, ovviamente. E ovviamente un maestro incomparabile e' il russo Rostropovich. Stimo molto anche l'olandese Anner Bilsma. Sono personaggi che hanno di fatto dedicato la loro vita al violoncello. Noi violoncellisti formiamo quasi un culto religioso: pochi riescono ad apprezzare la bellezza del violoncello e pochi sanno che esiste un repertorio cosi' vasto e meraviglioso di brani per violoncello. Al punto che mi vergogno io stesso di comporre musica originale quando ce n'e' gia' cosi' tanta da eseguire. In cima alla mia classifica personale metterei il concerto per violoncello di Dvorak e "Shelomo" di Bloch. Fra le nuove generazioni di violoncellisti citerei Eugene Friesen, che prese il mio posto nel Paul Winter Consort, un musicista di formazione classica, un grande professionista che sta sperimentando come me, che usa la voce come la uso io. Nel mondo del nuovo jazz cito senz'altro Hank Roberts e Tom Cora."

Del Consort cosa ricordi?
"E' stato fondamentale per la mia formazione. E' stato la mia palestra. Suonando con Winter ebbi l'occasione unica di ascoltare musica proveniente da tutto il mondo. Era un laboratorio in cui potevo passare tutto il tempo che volevo a suonare il violoncello. Tieni presente che se non avessi suonato con Winter probabilmente avrei dovuto prendere qualche altro lavoro per vivere e avrei potuto suonare lo strumento soltanto nel tempo libero. Questi sono fatti che cambiano la tua vita, che fanno la differenza fra poter diventare un virtuoso ed essere relegato alla schiera dei dilettanti. Fu anche decisivo per decidere come la mia musica doveva svilupparsi. Con Winter ebbi modo di ascoltare musica brasiliana, folk africano, percussioni hindu... di tutto insomma. Inoltre Winter concede ogni sera un po' di spazio a ciascuno dei membri del Consort, e quando toccava a me avevo la mia occasione per perfezionare lo stile. Quegli assoli funsero da incubatrice per la mia carriera solista. Anzi, posso citare l'episodio specifico che mi trasformo' da gregario a protagonista: la prima volta che Winter prese un microfono e lo pose davanti al violoncello. Quella fu la prima volta che un pubblico molto grande pote' ascoltare il suono delle corde di do e fa di un violoncello, percepire quel suono cosi' profondo e emozionante che normalmente soltanto gli esperti piu' sofisticati riescono a notare."

Come ti consideri come compositore?
"Nei miei album solisti credo di aver dimostrato un grande amore per il suono classico. E' vero che sperimento sempre qualcosa di nuovo, ma non sono un "avanguardista" a cui piace la tecnica fine a se stessa. Alcuni musicisti che conosco fanno cose interessanti, ma molto tecniche, che generalmente consistono semplicemente nel provare a produrre suoni sempre diversi. Le innovazioni ritmiche o armoniche possono anche essere spettacolari, ma soltanto per un pubblico di esperti. Io sono piu' tradizionale, mi piace la bellezza classica, cerco di continuare la tradizione del violoncello classico. Al massimo mi sento condizionato dal jazz soffice contemporaneo. Anche nei miei sperimenti piu' audaci di etno-jazz non sono mai un tecnico del sound, non sto studiando uno stile in profondita', ma soltanto l'emotivita', il timbro, il feeling, che servono a meglio esprimere le mie emozioni. Tutto cio' che incorporo viene imitato in un modo molto personale. Tutte le composizioni e improvvisazioni dei miei dischi vengono prima dal mio animo e poi da questa o quella tecnica."

I Radiance?
"Sono un grande amico di Jim Scott, un chitarrista anche lui cresciuto alla scuola di Winter. Lo considero uno dei migliori "orecchi" che abbia mai incontrato. Sa scrivere musica senza nemmeno pensare alle corde della chitarra. La sua sfortuna e' che la sua voce e' quella di James Taylor, per cui nessuno lo prende in considerazione, ma le sue canzoni sono eccezionali. Assomiglia a Winter anche ideologicamente, nel senso che si preoccupa di salvare il pianeta e le specie in estinzione. Un giorno mi invito' a suonare con lui e Nancy Rumbel, altra reduce del Consort, e ne nacquero quei dischi."

Dei progetti piu' recenti?
"Eight String Religion" e' quello a cui sono piu' affezionato, perche' richiese dieci anni di lavoro. Non speravamo quasi piu' di pubblicarlo e siamo riconoscenti ai tributi che ci ha riservato la critica."

Di "Cello" cosa puoi dirci?
"Cello" e' interamente dedicato al movimento classico chiamato "adagio". Tutte le composizioni sono degli adagi, anzi sono degli adagi ispirati a quello che ritengo l'adagio per eccellenza, l'"Adagio per Archi" di Samuel Barber. A questo bisogna aggiungere il fascino per l'elettronica (con cui ho giocato fin dal 1972, prima con un pedale wah-wah e poi con il digital delay), grazie alla quale ottengo un sound sempre piu' spaziale. L'obiettivo e' quello di estendere il suono del violoncello, di trovare una definizione piu' grande di cosa rappresenta per me quello strumento. Il violoncello e' uno strumento per sua natura dimesso, difficile da sentire in un ensemble. E' una voce che si mescola in maniera naturale al resto dell'orcherstra. Soltanto la viola ha la stessa proprieta'. Al punto che un assolo di violoncello e' quasi un controsenso, perche' obbliga l'orchestra a suonare a meta' della sua dinamica."

A cosa stai lavorando adesso?
"A un nuovo album per la ECM, che si intolera' "Dark Wood" e uscira' a febbraio. Ho anche in cantiere diverse collaborazioni, comprese alcune colonne sonore per Wim Wenders e Jean-Luc Godard. Ho in ballo diverse iniziative con musicisti norvegesi e sto meditanto a dare un seguito a "Eight String Religion".


Darol Anger
(Copyright © 1994 New Sounds)

Il violinista Darol Anger, cresciuto alla scuola di David Grisman, esordisce in proprio con l'album "Fiddlisticks" alla fine degli anni '70. Sul disco suonano quelli che rimarranno i suoi amici/collaboratori preferiti: la pianista Barbara Higbie, il mandolinista Mike Marshall e il violinista Dave Balakrishnan, tutti musicisti dell'area di Grisman. Con essi Anger forma in seguito uno dei primi ensemble di musica acustica, i Saheeb.

Negli anni seguenti Anger registra dischi con Balakrishnan ("Jazz Violin Celebration"), Marshall ("The Duo", "Gator Strut" e soprattutto "Chiaroscuro") e Higbie ("Tideline"). Con Higbie, Marshall e Michael Manrig da' vita nel 1984 ai Montreaux, dei quali usciranno tre album. Quel quartetto costituisce uno degli eventi fondamentali nella storia della musica acustica new age. "Sign Language" e' tuttora uno dei capolavori dell'intero genere, un'opera in cui temi country, jazz, classici e pop si fondono in maniera naturale. E' lo spirito soprattutto a distinguere questa musica acustica da quella della musica classica, lo spirito semplice, genuino ed entusiasta della civilta' rurale, trapiantato in un'eleganza e una compostezza tipicamente urbane. Il virtuosismo dei quattro musicisti non fa che aggiungere emozione all'emozione. Il loro metodo di improvvisazione collettiva rilassata fa scuola, e ovazioni vengono tributate al successivo "Let Them Say", il satori di Marshall. La squisita eleganza degli arrangiamenti e' ormai il loro marchio di fabbrica.

Il Turtle Island String Quartet, formato da Anger e Balakrishnan con il violoncellista Mark Summer e con la violista Irene Sazer, si spinge ancora piu' a fondo in quell'operazione di riformulazione del paradigma acustico. Questa volta lo spirito e' molto piu' erudito, formale, classico. Balakrishnan e' infatti un compositore di prestigio, e con le sue musiche ambisce a porre il Quartet nella storia della musica moderna. Il suo primo quartetto (sul primo album) rimane forse il loro capolavoro.

Come decidesti di diventare un vuolinista?
"Iniziai suonando la chitarra, per imitare i Beatles. Ma la mia chitarra era un oggetto terribile, mostruoso, per un bambino: troppo grande, troppo difficile da impugnare. Un giorno in un ristorante vidi un violinista ambulante, di quelli di passano di tavolo in tavolo. Mi sembro' cosi' facile da suonare che volli farlo. Ovviamente non era cosi' facile, ma tanto basto' per fare di me un violinista. Ci vollero anzi dieci anni per cominciare a capire che strumento meraviglioso sia. Il violino e' in realta' uno strumento estremamente difficile da suonare. Con la chitarra puoi imparare due tre accordi in pochi giorni. Con il violino ci vogliono molta pratica e molta forza di volonta'. Dico sempre ai miei studenti che i primi dieci anni sono i peggiori. Soltanto la coordinazione per muovere le dita richiede uno sforzo notevole. La ricompensa e' pero' anche molto maggiore. Penso che questa sia la ragione per cui non viene utilizzato piu' spesso. Il regime di provare e studiare e' molto piu' intenso di quello di qualsiasi altro strumento, eccetto forse qualche strumento a fiato. L'unica eccezione e' naturalmente il country, un genere in cui il violino e' sempre stato molto usato, ma ovviamente la qualita' tecnica del "fiddle" e' piuttosto bassa."

Ci sono altre ragioni che rendono il violino meno appealing alle giovani generazioni?
"Non e' certamente uno strumento cosi' assordante come altri strumenti preferiti dalla musica popolare. L'amplificazione di un violino non e' mai molto soddisfacente. Di fatto il violino e' uno strumento che si presta soltanto per la musica acustica."

A cosa si deve invece il suo fascino?
"Il violino divenne cio' che e' attraverso un'evoluzione millenaria. Nella musica folk e' sempre stato centrale, in realta', dall'Irlanda all'Africa, dall'India all'Argentina. E' molto recente il fenomeno che ha portato alla ribalta altri strumenti, come la chitarra nella musica occidentale e il sassofono in quella dei neri. Secondo me un momento cruciale fu quello in cui a New York nel 1923 il nero Stuff Smith uso' un pickup elettrico. Regno' al leggendario Cotton Club per tre anni, stupendo con il suo swing e il suo approccio africano allo strumento. Di fatto fu lui a renderlo popolare presso il grande pubblico. Joe Venuti e altri grandi violinisti jazz perfezionarono quest'arte, facendosi anche influenzare dalla musica classica. Bisogna arrivare fino a Jean-Luc Ponty per trovare un'altra rivoluzione degna di nota: Ponty rivoluziono' il violino, trasformandolo in uno strumento piu' contemporaneo, piu' versatile. A mio avviso non fece altro che imitare Miles Davis, e a migliorare la qualita' dell'amplificazione. Trovo' un ruolo naturale per lo strumento nella musica fusion. Da allora nessuno ha fatto molto. Mi vengono in mente soltanto i "fiddle players" della musica country, gente come Vassar Clemens che conservano peraltro le influenze del jazz (assimilate fin dal western swing, un genere che era nato grazie alla comunanza a Kansas City di country singer e big band)."

E la tua formazione com'e' avvenuta?
"Credo di essere un'eccezione in questo campo, perche' non ho ne' influenze classiche ne' influenze jazz. A dire il vero le mie origini sono di musicista acustico bluegrass, la versione a rotta di collo del country, ma i tempi mi portarono a sperimentare fuori dal seminato. La svolta fu il combo di David Grisman, con il quale esordii professionalmente. Grisman ama e amava sperimentare con tutti i generi, e pertanto costitui' una scuola ideale per me. Feci sei album con Grisman, in nove anni (1974-84). Quello fu il mio college musicale, in un certo senso. Grisman e' un grande collezionista di dischi, una biblioteca vivente di musica. La sua collezione di dischi fu una scuola importantissima per me, mi diede il background della musica americana che mi mancava. Nel suo combo si alternarono musicisti straordinari, sia come personalita' sia come tecnica, il che' mi spinse ad assorbire influenze diverse e a migliorare il mio stile."

Fin dall'inizio ci sono alcuni personaggi che sono stati importanti nella tua carriera...
"La maggior parte li conobbi nell'entourage di Grisman. Il mandolinista Mike Marshall e' tuttora uno dei miei collaboratori preferiti. Conobbi la pianista Barbara Higbie in Europa durante un tour: stava viaggiando e si manteneva suonando il fiddle. Il violinista Dave Balakrishnan era semplicemente un fan del gruppo. Con loro Anger formai a Berkeley uno dei primi ensemble di musica neo-acustica, i Saheeb. Con Dave Balakrishnan registrai "Jazz Violin Celebration", che diede di fatto il via alla mia carriera maggiore. I Montreaux non furono altro che la naturale evoluzione dei Saheeb, in cui io suonavo il violoncello, Balakrishnan il violino, Higbie il piano e Marshall il mandolino. Poi Marshall e io pubblicammo diversi album in duo. I Montreaux nacquero dal disco "Live At Montreaux": non riuscivamo a metterci d'accordo sul nome del gruppo, cosi' tenemmo il nome della citta' in cui era nato. Io ero passato al violino e Balakrishnan si era dato ad altro. Fu un'esperienza interessante perche' dovetti adattare il mio stile a un quartetto acustico. Suonavo molto i ritmi, riempivo i vuoti lasciati dalla sezione ritmica. A volte mi sembrava invece di suonare un sassofono, forse perche' si sentiva la mancanza di uno strumento a fiati."

Come nacque invece il Turtle Island String Quartet?
"Suonavo spesso con il violoncellista Mark Summer, avevo ripreso i contatti con Balakrishnan, e quando incontrammo la violista Irene Sazer sembro' naturale formare un quartetto acustico. Per me significo' realizzare un sacco delle cose che volevo fare insieme ad altri e non ero mai riuscito a fare. Innanzitutto potevo permettermi di manipolare il suono a piacimento. Poi finalmente ebbi modo di dedicarmi a scrivere musica piu' seria, impegnata. Infine trovai il modo di infilare nel nostro repertorio i brani classici e jazz che avevo sempre ammirato, ma che non avevo mai potuto eseguire in ensemble. Suonare con musicisti di questo calibro e' molto difficile, ma anche molto soddisfacente. Sono anche molto orgoglioso del disco che ho registrato con con Mike Marshall, "Psychograss". Adesso dovrebbe uscire il nuovo album con il Turtle e forse una nuova prova solista, "Fiddlesticks II", piu' elettronico e tecnologico, con i soliti amici."

Cosa aggiunge il violino a un ensemble?
"La gente pensa che aggiunga semplicemente la melodia, un suono continuo di sottofondo, una colla che tiene tutto insieme. E gia' non sarebbe poco. Ma in realta' puo' aggiungere anche un ritmo subdolo, puo' fungere letteralmente da percussione. Il timbro del violino e' una voce della natura, qualcosa di molto primordiale, che risuona con il nostro animo atavico, come d'altronde tutta la musica deve essere per essere musica. Quando cerchi di giustificare la musica intellettualmente, non fai piu' musica. La musica cattura emozioni che risalgono a milioni di anni fa. Tutta la sofisticazione intellettuale che mettiamo nella musica deve servire a catturare quell'emozione primitiva. Il violino ha la proprieta' di facilitare questa operazione. A me sembrano particolarmente incredibili i suonatori di fiddle in Irlanda e i cinesi. Ho cercato talvolta di imitare l'intensita' con cui suonano questi popoli, ma temo che sia qualcosa di genetico. D'altronde il suono stesso di ciascun violino nazionale e' molto legato alla sua terra di origine. Noi abbiamo un detto: "puoi portare uno strumento fuori dalla sua nazione, ma non la sua nazione fuori da uno strumento".


Shadowfax
(Copyright © 1994 Piero Scaruffi)

Gli Shadowfax di Chuck Greenberg (lyricon) e G. Stinson (chitarra) nacquero nel 1976 a Chicago come uno dei tanti complessi blues-rock e jazz-rock dell'epoca. Entrambi i membri fondatori erano cresciuti a due passi dal ghetto nero e avevano trascorso infinite serate ad ascoltare i bluesmen. Traferitisi in California, rinacquero in versione di ensemble acustico con una musica fatta di atmosfere cristalline e sottilmente jazzate. L'album omonimo agli inizi degli Ottanta fu uno di quelli che contribuirono a definire la forma della musica new age nel momento in cui usciva dalle anguste strutture "soliste" per cui era nata (William Ackerman, tanto per intenderci) e riscopriva, in un certo senso, la polifonia. Il brano "Angel's Flight", forse la loro sigla piu' celebre, e le altre incantate fiabe acustiche del disco erano debitrici in egual misura nei confronti del jazz e del trascendentalismo indiano. Belle melodie ("Wheel Of Dreams", "A Thousand Teardrops") e i primi accenni di worldmusic ("Ariki") completavano la suggestione di un sound destinato a un immenso successo.

Da quelle premesse gli Shadowfax finirono (con l'album "Shadowdance") per coniare uno stile che fondeva di fatto la musica zen di Kitaro e il jazzrock da salotto di Metheny, lambendo la perfezione formale nella sonata "mediterranea" di "A Song For My Brother". Nel mucchio si ascoltano ancora accenni etnici ("New Electric India") e melodie raffinate ("Ghost Bird").

Le novita' dei tre album successivi, che per alcuni furono dei capolavori e per altri delle delusioni, furono molteplici: da un lato un melodismo piu' immediato, dall'altro un sound piu' elettronico, da un lato una worldmusic onnipresente e dall'altra un ritmo quasi funky. Il nuovo corso culmino' nelle "Folk Songs For A Nuclear Village", altra opera a cui ha arriso un enorme successo di pubblico. Dopo una lunga pausa, usci' "Esperanto", l'album piu' "etnico" della loro carriera, che aveva fatto temere a qualcuno una rapida riconversione dell'ensemble alla worldmusic tout court. Il nuovo "Magic Theatre" spiega invece che si era trattato di un altro episodio, e che la storia continua, con una lunga strada ancora da percorrere e con la fine ancora lontana.

"Esperanto" era in realta' tornato alle origini, riscoprendo (dopo l'orgia "elettronica" di "Nuclear Village") nell'ottica di dieci anni dopo il valore del contrappunto, dei timbri acustici, delle percussioni. Di "Magic Theatre" ci parla Chuck Greenberg in persona:
"Si tratta di un ennesimo rinnovamento per noi. Essendo il decimo disco che incidiamo, non e' certamente facile riuscire a rinnovare ancora, pur rimanendo fedeli a noi stessi. Inevitabilmente devi accettare lo stile a cui sei pervenuto e tentare soltanto di migliorare cio' che ritieni sia il meglio di quello stile. E' cio' che abbiamo tentato di fare con "Magic Theatre". La musica di questo disco e' semplicemente l'estensione di cio' che ci era piaciuto di piu' su "Esperanto": l'uso delle percussioni, l'assimilazione di strumenti provenienti da tutto il mondo, l'improvvisazione. Volevamo anche fugare il dubbio che fossimo diventati l'ennesimo complesso di worldmusic. Se dovessi definire la musica di "Magic Theatre", direi che e' "musica da ballo del ventunesimo secolo". Abbiamo preso gli elementi ritmici di "Esperanto" e li abbiamo inseriti in un contesto da ballo. Un altro fattore importante nella genesi del disco e' stato il ritorno allo spirito collaborativo degli inizi: sui primi dischi tutti scrivevano le musiche con me, e questo consentiva di risultare piu' coesivi. L'obiettivo e' stato quello di fare di questo nuovo disco uno dei nostri lavori piu' unitari."

E sul fronte della carriera solista ci sono novita'?
"Il mio disco solista, "From A Blue Planet", e' stato ristampato e verra' adesso distribuito dalla Warner Brothers. E sto per cominciare a scrivere le musiche per il nuovo disco, che probabilmente vedra' la luce l'anno prossimo."


Craig Chaquico
(Copyright © 1993 New Sounds)

Chaquico, l'ex chitarrista degli Starship, si e' dato alla new age con il suo primo album in proprio, "Acoustic Highway", che e' stato salutato da ovazioni dalla critica. Nonostante lo stupore destato dal cambiamento di rotta del celebre enfant prodige, il pubblico ha risposto in maniera altrettanto entusiasta, e oggi Chaquico si puo' permettere di raddoppiare la posta con un nuovo album, "Acoustic Planet".

In occasione di una precedente intervista, ci aveva preannunciato un secondo album piu' aggressivo...
"Non so se sia giusto chiamarlo aggressivo: e' certamente piu' vivace e piu' vicino al feeling delle nostre esibizioni dal vivo. Il primo album era stato essenzialmente uno sfogo personale: era la mia chitarra a contare, il resto era un dettaglio trascurabile. Dal vivo invece gli stessi pezzi erano proposti in una veste piu' di gruppo, in cui non c'e' uno strumento preferenziale. Questo secondo album rispetta quest'ultimo spirito. Dal vivo tendiamo anche a suonare piu' veloci e a un volume piu' elevato, c'e' molta piu' energia: in questo senso possiamo anche dire che la musica di "Acoustic Planet" e' aggressiva. Un'evoluzione naturale e' stata invece quella di conferire maggiore importanza alle percussioni, alla ritmica. In parte cio e' dovuto al mio incontro con William Aura. Ho suonato le parti di chitarra sull'album dei suoi Third Force e sono rimasto affascinanto dall'uso che fanno delle percussioni. Cosi' gli ho rubato il percussionista olandese anche per il mio disco... Citerei senz'altro Aura come un'influenza su questo mio secondo disco, anche se il suo e il mio sono dischi complementari, assai diversi fra di loro. Rispetto al mio primo disco, che era soprattutto una cartolina musicale dal Nord della California, direi che questo secondo e' un'illustrazione dell'intero pianeta. Sono uscito dal mio minuscolo angolo e mi avventuro nel mondo."

Siamo al secondo atto di una trilogia acustica?
"So che adesso tutti si aspettano un terzo album dal titolo Acoustic Qualcosa. Ma io sono abituato a cambiare direzione quando la gente meno se lo aspetta. Sono un motociclista, e so che quando il bagaglio ti pende dalla destra, devi spostarti a sinistra. Nella mia carriera ho imparato a non farmi mai limitare da cio' che tutti si aspettano che tu faccia. Per esempio me ne uscii dalla scena rock quando tutti si aspettavano che mi mettessi a suonare heavymetal... L'unica costante che rimarra' nel terzo album sara' lo strumento: mi piace troppo suonare la chitarra acustica. Ma credo che il prossimo album segnera' un ulteriore progresso, anche se non so dirti esattamente in che direzione."

Chi ascolta la tua musica oggi?
"La gente piu' impensata. Pensa che poco fa mi ha telefonato Sammy Hagar, il cantante dei Van Halen, per dirmi che il mio CD e' uno dei 4 che si e' portato in vacanza alle Hawaii. Avevamo suonato con loro a uno show e mi ricordo ancora lo stupore nel vedere gli "headbangers" tributarci un'ovazione. Incredibile."

Ma quale pubblico vorrebbe avere invece se potesse scegliere?
"Il miglior concerto che io possa tenere sarebbe per una persona sola, per la persona che e' l'ispirazione di tutta la mia musica. Il concerto ideale sarebbe un concerto privato per mia moglie. A parte questo, il mio pubblico ideale e' rappresentato da chiunque apprezza la melodia e apprezza la tecnica, da chiunque capisce quanto difficile e' fare cio' che faccio, da chiunque si commuova quando sente la mia musica."

Ho notato che il piano e' in primo piano...
"Si', Ozzie Ahlers condivide il ruolo di protagonista in piu' brani. In particolare "Find Your Way Back", la canzone degli Starship, e' spartita con lui. Tutti si aspettavano che io facessi una versione per sola chitarra di quella canzone: vedi, voglio sempre sorprendere il pubblico?"

I suoi brani preferiti?
"Emotivamente direi "Winterflame". Continuo a credere che tutte le mie canzoni raccontino storie. Questo brano mi fa pensare a noi seduti di fronte al camino, alla tranquillita', al romanticismo, di una serata d'inverno. Lo sguardo si perde dentro le fiamme, pensi ai tempi felici che hai passato con gli amici, diventi piu' semplice. Poi torni al presente, ti rendi conto che il tempo passa e continuera' a passare, ma il bello e' appunto il ricordo che ti rimane. Tecnicamente invece il brano piu' avventuroso e' stato "Find Your Way Back", perche' abbiamo impiegato una varieta' di trucchi di produzione, anche se forse l'ascoltatore non se ne accorgera'. Poi direi "Gathering Of The Tribes", la canzone piu' misteriosa, che ti porta dentro la foresta. E spero che al pubblico piaccia "Center Of Courage". E' una canzone che scrissi quando avevo dodici anni ed e' quasi tutta suonata su una sola corda. A quell'eta' ebbi un brutto incidente (venni investito da un autocarro) e mi risvegliai all'ospedale con tutte le ossa rotte (letteralmente). L'infermiera che mi accudiva mi incoraggio' a suonare la chitarra come passatempo, ma la mia mano, tutta fratturata, poteva raggiungere soltanto una corda, la corda in alto di "mi". La mia infermiera ascolto' per settimane e settimane, durante la riabilatizione, questa semplice composizione che avevo inventato. Per molti anni continuai a chiamarla "Elizabeth song", sia perche' l'infermiera si chiamava Elizabeth e sia perche' la nota era un "mi" ("E" in inglese). Spero che la musica di questo pezzo possa ispirare tanti di coloro che hanno bisogno di coraggio durante una convalescenza o un brutto periodo. Si', c'e' una qualche influenza della musica barocca, ma anche delle canzoni di Natale, del fado portoghese, di tutto cio' che penetra l'immaginazione di un bambino di dodici anni figlio di immigrati portoghesi."

Perche' ha cambiato titolo a quel brano?
"Perche' mi ha dato il coraggio di arrivare fin qua".