"Baby Jane" Baby Jane B.c.F. Production (2003)
"Tiepidazione" e' il brano di apertura di questo nuovo lavoro dei Baby Jane, formazione milanese impostasi
all'attenzione della critica nel 2000 con il primo disco autoprodotto intitolato "Babygenesi"; parola
composta che ben rappresenta l'essenza musicale distillata da Barbara La Cecilia & Co. "Baby Jane" e'
un disco d'azione, le chitarre tese, il ritmo energico, il basso profondo, costruiscono un'impalcatura
noise-rock indiscutibile, la voce fa da contraltare, con la sua energia pulita, le linee tiepide e limpide,
melodie costruite sugli spigoli. Una voce indubbiamente interessante, che scandisce stralci di poesie
metropolitane, con lo sguardo di chi ha voglia di grattare via la superficie e tradurre in urla controllate
quello che vede. Una voce ben utilizzata alla quale tuttavia si possono fare alcuni appunti, soprattutto
nella scelta dei registri e della metrica, in particolare da quest'ultimo punto di vista, in alcuni momenti il
risultato appare troppo uniforme. Probabilmente si tratta di una scelta consapevole, dovuta alla volonta' di
vestire con abiti meccanici i testi essenziali, ma a volte un po' pretenziosi, tuttavia l'effetto globale e'
quello di una struttura dei brani eccessivamente schematica.
Sei pezzi in tutto, piu' una settima traccia introdotta da sei giochi di suoni sul filo della fluidita'. Come
detto si parte con "Tiepidazione", riff tiratissimi sui quali Barabara sale e scende energicamente tessendo
una trama fittissima alternata a momenti di pausa scanditi dal basso di Andrea Bulletti, sempre puntuale,
e sostenuta da una controvoce urlata che aggiunge forza; un brano d'apertura molto efficace che da subito
l'idea di cosa ci aspetta in seguito. "400 colpi" parte morbida, per salire fino al nucleo del brano, scandito
ancora dalla sezione ritmica, vero punto di forza della band; il cantato riporta ai gruppi rock italiani piu' in
voga, Verdena e Scisma per fare due nomi, ma in generale l'impatto e' inferiore alla traccia d'apertura. La
voce si esprime in tutte le sue sfaccettature in "Karmiko" brano sulla stessa linea dei due precedenti, ma
con una tessitura vocale piu' frastagliata e fantasiosa che ricopre il tutto di una patina grigia e spiazzante
scandendo piu' volte "..simulo un orgasmo..", dissacrante e irriverente dichiarazione di intenti, non
completamente convincente. "Oriente magnetico" apre la seconda parte del disco, che risulta essere
quella piu' efficace, il brano in questione, costruito su un giro di basso interessante, e' un dialogo tra le
chitarre e la voce in un continuo rincorrersi tra gli acuti di Barbara e i riff di Alessandro Borsani e Stefano
Lacherca. I due si mettono in evidenza anche nella nř5, "Calambour"; l'attacco e' un arpeggio ben
costruito sul quale si inserisce un riff alla Sonic Youth ruvido e sporco al punto giusto che raggiunge il suo
apice nel refrain centrale fondendosi in maniera equilibrata con il cantato melodico e contraddistinto da
una doppia voce ben studiata. "Anime anonime" e' un tributo ai C.S.I. sia nel cantato che nella
costruzione del brano; derivazione piu' che legittima, soprattutto se l'effetto e' questo, ovvero quello di un
ottimo brano ben suonato e molto evocativo. Dopo i sei episodi sonori ed essenziali si arriva alla traccia
numero 13, pezzo che si distacca nettamente dal resto del disco. L'incipit e' un paesaggio sonoro
elettronico in cui una voce effettata si inserisce lievemente, quasi sottovoce; il ritmo e' quello dei brani
chill-out alla Massive Attack o, per rimanere in casa nostra, di alcuni passaggi dei Delta-V. Non e'
chiarissimo il ruolo di questo brano, ed anche se il risultato e' tutt'altro che sgradevole, e' inevitabile
chiedersi la ragione dell'inserimento di una simil ghost-track in un cd compoosto da solo sei
composizioni. Trentuno minuti di musica con pochi dubbi, il gruppo dimostra di sapere benissimo dove
vuole arrivare, e traccia il percorso senza tentennamenti, un disco sicuramente promettente e con un
ottimo potenziale commerciale, che tuttavia mette in evidenza la necessit… di definire ulteriormente una
personalita' e un'identita' ancora acerbe. Il sound e' quello giusto, la voglia di distaccarsi dai cliche' anche,
con un po' di coraggio in piu' potremmo presto sentir parlare dei "Baby Jane".
Banco del Mutuo Soccorso: omonimo Il movimento Prog negli anni '70 coinvolge in Italia tutta una serie di gruppi i quali nel giro di pochi anni riescono a sfornare album che rappresentano sicuramente quanto di meglio sia stato prodotto in Italia dagli inizi del Rock fino ad oggi. Gruppi come PFM (Premiata Forneria Marconi), Osanna, Orme e Banco del Mutuo Soccorso rimangono sicuramente le punte di questo innovativo genere ognuno dei quali ha un proprio stile, piu' o meno impegnato nel fondere generi musicali diversi: dalla classica, al jazz, al blues ma con una originalit… mai sentita fin qui. Il Banco del Mutuo Soccorso assieme alla PFM e' riuscito ad avere un minimo di popolarita' anche all'estero tanto da essere stati inseriti nell'"Enciclopedia Mondiale del Rock" fimata da Nick Logan e Bob Woffinden. Il loro primo omonimo album ("Banco del Mutuo Soccorso") esce per la Ricordi agli inizi del 1972 e vanta un organico di sei elementi due dei quali sono i fratelli Gianni e Vittorio Nocenzi, rispettivamente tastierista e pianista quest'ultimo di estrazione classica; il gruppo quindi affidava il suo suono oltre ai soliti basso, batteria e chitarra, a due "tastiere" per cui le sonorita' dei moog venivano "addolcite " dal pianoforte che veniva a dare spesso un'impostazione classica al tutto. Ultimo ma non ultimo, la voce di Francesco Di Giacomo, che con un' impostazione drammatica spesso molto vicina alla lirica rimane senza dubbio tra le piu' potenti ed espressive voci del panorama italiano , superata quanto ad impostazione tecnica solo dal compianto Demetrio Stratos, simbolo, in Italia, di un'esaltazione sublime delle corde vocali nell'uso della tecnica dei suoni. Quello che esce dall'Omonimo e' quindi qualcosa di particolarmente originale per l'Italia, considerando che era solamente il 1972 e che dominavano gruppi come Led Zeppelin, Deep Purple, Rolling Stones e Beatles. L'album parte con un'introduzione ("In volo") che invita l'ascoltatore a solcare il terreno "_dove ferve l'opera dell'immaginazione_" con Astolfo che si fa guidare dal suo Ippogrifo; dopo questa breve, cavalleresca introduzione, un riff introduce "R.I.P. Requiescant In Pace", mette in prima linea la voce di Di Giacomo ed i fratelli Nocenzi. Visioni catastrofiche degli effetti della guerra accompagnate da un tempo molto ritmato proseguono per la prima parte del brano per poi sfociare in una seconda parte classica in cui un monito avverte l'uomo bramoso di potere che si fa da sempre strada con la guerra. Con un finale drammatico molto classico, il pianoforte chiude il brano. Un intermezzo barocco ("Passaggio") ci porta a quello che e' uno dei due capolavori dell'intero album, "Metamorfosi". Il brano, strumentale per _ della durata , sviluppa una cella melodica dapprima con un esemplare pianismo in bilico tra il classico e il jazz per poi cedere il passo all'organo che duetta con la chitarra elettrica. Il culmine arriva nel drammatico finale cantato; un testo brevissimo, Quasimodiano, che prende le distanze dalla follia dell'uomo. Il secondo lato dell'album si apre con "Il Giardino Del Mago", lungo oltre venti minuti e strutturato in quattro movimenti. Il brano rappresenta probabilmente l'apice della carriera compositiva del Banco raggiunto ancora e solamente da "L'evoluzione" del secondo album "Darwin!" Un'introduzione funerea ci porta al brano vero e proprio che in un'atmosfera tra il visionario e l'onirico ci parla della capacita' da bambini di estraniarsi con la fantasia, capacita' che si trasforma col crescere in una sorta di estraniamento dal mondo; "_chi ride e chi geme_" e' il secondo sviluppo piu' movimentato in cui si mettono in vista le doti di Di Giacomo e del batterista Pier Luigi Calderoni che con un ritmo cavalcante ci porta alla terza parte ("_coi capelli sciolti al vento_"). L'ultima parte ("_compenetrazione_") sintetizza, in perfetto stile classico, tutti i movimenti precedenti; questo brano-suite, e' indubbiamente il secondo capolavoro dell'album. Infine, e' "Traccia" a concludere, con un duello vocale contrappuntistico, l'ascolto dell'album in maniera straordinaria. Questo album, ricordato anche per la curiosa copertina con un salvadanaio gigante, e' rimasto tra le produzioni migliori in campo Prog del nostro Paese.
Nel complesso 8/10.
Tiromancino: La descrizione di un attimo (2000)
I Tiromancino, che iniziano la loro attivita' musicale nel 1989,
collaborando lungo la strada con vari personaggi della scena romana
(Frankie Hi-NRG, Riccardo Sinigaglia, Daniele Silvestri), e cambiando molte
formazioni, esplodono presso il grande pubblico nel 2000 con il pezzo "La
descrizione di un attimo", tratto dall'omonimo album. Il
successo di questa canzone non e' immotivato, almeno dal punto di vista di
chi, come chi scrive, ama la musica pop italiana ed e' costantemente alla
ricerca di musicisti che sappiano imporsi con decisione e un minimo di
originalita', meglio se riescono a farlo pescando con eleganza nella nostra
tradizione. Ne "La descrizione di un attimo" i Tiromancino utilizzano con
sapienza anche il mandolino, e riescono a nobilitare una storiella di
liceali con un suono gradevole e armonico, creando in sostanza una ballata
nazional popolare, ma moderna ed efficace. Il testo e' di quelli che
vengono gettati alla fine dell'anno scolastico insieme ai diari delle
ragazzine, ma i Tiromancino sono, o si dotano, di buoni arrangiatori,
scrivono canzoni rassicuranti, mediamente deprimenti, non fastidiose, che
hanno il pregio di allontanare una fetta di popolazione, giovane e non, dal
pericolo Pausini e Ramazzotti, e di rasserenare i nostri zapping
radiofonici estivi. Dopo il successo del primo singolo, viene sfornato "Due
destini", pezzo legato a doppio filo con il fortunato film di Ferzan Ozptek
"Le fate ignoranti", di cui accompagna i titoli di coda, e di cui condivide
il successo. E' inutile dire che il pezzo, dotato anche di un ritmo
vagamente dance, alla Kings of Convenience o Phoenix per esempio, diventa
una colonna sonora dell'estate 2001, pur essendo meno originale del primo,
e dotato di un testo maggiormente dimenticabile seppure piu' pomposo. Altri
pezzi interessanti sono "Il pesce", che combina sonorita' battiatesche e un
testo surreale, e che lascia intendere che si stiano per dischiudere nuove
e interessanti strade, rimanendo invece privo di seguito, e "Strade", forse
uno dei pezzi migliori, ma arrangiato e cantato un po' grossolanamente,
che vede la partecipazione di Ricardo Sinigaglia. "Strade" viene
addirittura presentato al festival di Sanremo 2000, giungendo secondo nella
sezione nuove proposte. Pezzi orecchiabili, ma che si consumano come
candele dopo pochi ascolti, sono l'"Anima" e "Muovo le ali di nuovo"; una
onesta partecipazione di Frankie Hi NRG da' corpo alla lugubre "Roma di
Notte". Non e' un caso che la sorte dei Tiromancino sia legata a quella di
un regista come Ferzan Ozptek, che e' il corrispettivo cinematografico del
gruppo romano: un regista vero e autonomo, non il puro frutto di
un'operazione commerciale, capace di sfornare film gradevoli, abbastanza
coinvolgenti e di successo commerciale, che si rivolgono a un pubblico il
piu' possibile trasversale. Forse il difetto piu' grande, in entrambi i
casi, e' la
mancanza di lungimiranza e di spessore, la scarsa durabilita' del
prodotto, che pure e' confezionato con artigianale umilta' e sincerita', e
non e' fastidiosamente modaiolo e ammiccante.
Tiromancino: In continuo movimento (2002) Decisamente piu' serioso e pretenzioso e' l'album "In continuo movimento",
in cui i Tiromancino sembrano voler abbandonare un genere pop che, per
quanto raffinato, ha sempre la coscienza dei propri limiti, per sonorita'
in certi casi piu' melense, che si avvalgono di inserzioni di pianoforte ed
archi ben congegnate ma un po' sovradimensionate per le deboli melodie e la
scarsa voce di Zampaglione, leader e voce del gruppo. I tre pezzi che
caratterizzano l'album, nella ricerca di un pop
melodico piu' raffinato ed essenziale, sono la dolce e triste "Come
l'aria", "I giorni migliori", che vive del grande respiro del suo
ritornello, e il primo singolo dell'album, "Per me Š importante", melenso
ma ben orchestrato. Piuttosto azzeccato e' pure "Sarebbe Incredibile", che
segue la scia piu' leggera dei Radiohead. Molto deludente il pezzo,
"Nessuna Certezza", cantato in coppia con due delle migliori cantanti
italiane, cioe' Meg dei 99 Posse e Elisa, cosi' come poco riuscito sembra
anche "Il progresso da lontano", pezzo new global caratterizzato dalla
partecipazione, in veste di voce recitante, del guru radiofonico Jack
Folla, con cui il gruppo si lancia in un proclama
politico che e' meglio per tutti dimenticare. Anche "Polvere" affonda in
sonorit… radioheadiane, e "Conchiglia" soffre di un brutto testo cantato
maluccio.
In questo ultimo album i Tiromancino scomodano molti personaggi e molti
generi, ma non prendono una direzione precisa, non si sa dove vogliano
approdare, ne' dal punto di vista della loro musica ne' della loro poetica,
si tratta di un album insicuro, disarmonico e, forse forse, inutile.
La banda del Ducoli: Taverne, Stamberghe, Caverne (I.R.D., 2003) In principio era il Ducoli: cantautore poliedrico di sangue camuno, ibrido artistico fra un’ispirazione da folksinger americano di razza (con una devozione particolare per Neil Young), una sensibilità poetica tutta italiana e un estro bizzarro da sbronza molesta, lo stesso che sfoggerebbe un Capossela imbarbarito dal sesto / settimo whisky della serata. Per dare una forma, uno sfogo e una destinazione alle pulsioni più propriamente rockettare esisteva, a onor del vero, anche un gruppo, dedicato alla figura grottesca e misteriosa di un qualunque Bacco il matto di provincia, e artefice di uno degli esordi di rock tradizionale più maturi del suo tempo. Di tutte quelle multiformi ispirazioni oggi non è rimasta che una banda: non certo una banda qualunque ma, naturalmente, la Banda del Ducoli, quintessenza di uno stile evolutosi negli anni e vittima inerme -come molti altri ensemble odierni- di un pubblico qualunquista che ha decretato, impietosamente, l’affermarsi di un rapporto inversamente proporzionale tra qualità e notorietà. Dispiace quindi, in fin dei conti, ascoltare un disco come Taverne, un pò perché si sgretola un altro pezzetto di speranza circa la presenza di una "giustizia" musicale, un po’ perché potenziali singoli di presa non mancano e, perdio, questa volta non c’è neppure l’alibi dell’album cervellotico o eccessivamente impegnativo. E’ forse la cura, a lato pratico, quella che non paga: una cura maniacale, favorita anche dalla presenza (inedita, nel curriculum del Ducoli) di una produzione di alto livello; cura nel dosare gli umori in maniera equilibrata, cura nel rielaborare e fondere i temi -e, per così dire, i generi- degli album precedenti senza concedersi troppi favoritismi e, soprattutto, cura nel porre la musica a servizio di Testi con la T maiuscola che, inseriti in un vago continuum narrativo/concettuale di provincia, al di là della sostanziale immediatezza sono capaci di innescare riflessioni che non si esauriscono al secondo ascolto. Insomma, Taverne è un album troppo raffinato per il grande pubblico, e probabilmente ne sconterà le conseguenze con la solita, deprecabile indifferenza. Noi ci auguriamo che non sia così e anzi, approffittando della buona distribuzione, ne consigliamo caldamente l’acquisto: per l’eleganza matura dei brani soft, su cui si posano dolcemente i coretti femminili di stampo easy listening, mitigandone la cruda malinconia di sottofondo (La fiera, squisito folk nel senso più genuino del termine, A proposito di questi giorni, che chiude l’album in un tripudio di assoli variegati e Un sabato felice, dallo sguardo meno pessimista); per l’acume irresistibile della vena goliardica, di tradizione assolutamente ducoliana (Berlicche, con la sua goffaggine funky irruente quanto un inno freak punk, e Sgangherata, forte di un ritornello accattivante che potrebbe nobilitare da solo una hit parade di obbrobri); per il deja vu de L’alluvione che, con una buona dose di grinta in meno e una di classe in più, ci riporta agli episodi più propriamente rock di Malaspina e soprattutto Anche io non posso entrare. Impossibile poi non menzionare Nina, omaggio commosso al talento musicale e narrativo di Fabrizio De Andrè, ricordato attraverso un’immagine straordinariamente evocativa sullo sfondo dei cori di Creuza de ma (riadattati per esigenze metriche) e di un nuovo vociare di pescivendoli, proprio come sarebbe piaciuto a Faber. Ma il vertice dell’album risiede forse altrove, in quel capolavoro di teatralità malata che è Delirio ordinario, in cui domina il contrasto fra le tinte fosche di un accompagnamento retrò e il brio macchiettistico, vivacissimo, dell’autore, capace di cantare con ironia leggera la disperazione quotidiana di una provincia uggiosa. Quello che resta, da Maledetta Africa a Lenta, passando per un’efficace italianizzazione di Maligno degli Aterciopelados, non è certo da meno, complici gli arrangiamenti studiati fin nei minimi particolari da una squadra di musicisti di primo livello che, quando allentano i freni, si lasciano andare a excursi strumentali jazz-pop degni di un’ipotetica Dave Matthews band italiana. Tirando le somme, abbiamo per le mani un album di undici buone ragioni, esattamente quante sono le sue tracce: per comprarlo, per ascoltarlo, per anteporlo alla tristezze dei concorrenti blasonati cui nulla è rimasto da dire. Aspettiamo solo, disillusi come sempre, che qualcuno se ne accorga. Voto: 6,5. Alessio Gambaro24 Grana - K-Album (2001) Non e' ancora chiaro quello che e' lecito aspettarsi dai 24 Grana, forse nulla. Dopo i primi due dischi, l'attesa per il terzo lavoro era tanta. Un gruppo che era stato capace di sorprendere, di emozionare e di essere originale. Le possibilita' che la nuova uscita fosse una delusione, la riproposizione dei cliche', erano molto alte obiettivamente. Ebbene dopo il primo ascolto si rimane spiazzati, forse un po' interdetti. Al secondo si ritrovano alcune sonorit… tipiche della band partenopea. Poi dolcemente, lentamente i brani entrano sottopelle, diventano familiari e si incuneano tra i nostri pensieri, la voce di Francesco Di Bella diventa un piacevole eco, sussurra parole pesanti come il piombo. I nostri sono cresciuti, maturati, il suono e' pulito, uno dopo l'altro i pezzi si snodano tra gli accordi semplici, nel pieno rispetto dell'essenzialita' dei paesaggi sonori di "Loop" e "Metaversus". Ma laddove i due album precedenti graffiavano, "K-Album" accarezza, apparentemente la rabbia e' scomparsa, ma in realta' si e' trasformata in reazione contraria. Giu' le armi, il modo migliore di combattere e' la delicatezza. Intendiamoci, non mancano le chitarre distorte e le urla, da "Piccola canzone per k" a "kanzoneanarkika" fino a "kanzone su un detenuto politico" il sound e' elettricamente ruvido. L'atmosfera del disco pero' e' diversa, forse i quattro hanno acquistato una consapevolezza maggiore, i toni si ammorbidiscono, e' come appoggiare la testa su un cuscino lasciandosi andare a riflessioni profonde, chiudendosi nel proprio mondo, indignati, ma padroni della propria vita. Cullati dalle note malinconiche della chitarra di "Keste so 'e kose ka spakkano", o dalla ninnananna di "Kanzone del pisello". Ipnotizzati dal suono elettronico, quasi industriale di "Kanzone su Londra", storia di un uomo che sceglie di vivere free-style, accorgendosi che la rabbia non puo' che aumentare o dalle note decadenti della strumentale "Kanzone del fumo". Ma e' con "Kevlar" e "Kanzone doce" che il disco tocca le punte piu' alte. La prima e' una "romanticheria", introdotta dagli scrosci della pioggia e dalle note tristi di un pianoforte, una canzone d'amore di una fragilita' emozionante con un ritornello assolutamente stupendo. La seconda e' un'autodescrizione di Francesco, mescolata ad una danza metropolitana che si infila tra i vicoli di Napoli, dove la chitarra lavora continuamente su arpeggi e assoli rallentati, il basso comprime ed espande continuamente il ritmo, la voce che canta "i nun song' accussi' doce"(io non sono cosŤ dolce) nega quello che la musica disegna. Come una pennellata nera su un quadro completamente bianco. Una conferma di un gruppo realmente alternativo. Voto: 7. Davide Lavecchia Subsonica - Microchip emozionale (1999) Torino e' una citta' che difficilmente mostra il suo lato migliore al primo approccio. Il clima freddo, il grigio dei suoi palazzi, la monotonia delle sue strade, lo scorrere sintetico dei suoi giorni, nascondono il battito sotterraneo dei luoghi. Nascondono il cuore pulsante di una citta' in bilico tra la dispersione della metropoli e la voglia del contatto pelle contro pelle. I Subsonica hanno puntato la luce sui vuoti del posto in cui sono nati, gli hanno dato un nome, gli hanno dato un suono. Il loro secondo lavoro nasce dalle rive del Po, dalla tecnologia e dall'anima operaia del loro mondo. Ma le radici non gli impediscono di raggiungere altri luoghi, oltre il mare, oltre le Alpi che circondano e proteggono il capoluogo piemontese. L'apertura di "Sonde" punta il dito al cielo, suoni aperti, la tastiera di Boosta apre la strada, "..con la mano li puoi salutare", non siamo mai soli, non siamo mai liberi. L'atmosfera spaziale, il ritmo cadenzato coinvolgono, sballottano. Il "Colpo di pistola" ci riporta a terra, nella metropoli, sembra di essere in un film noir. Contro tutti quelli che ne sanno di piu', che non si mettono in discussione, un pugno nello stomaco, forte. CosŤ come quello sferrato da "Aurora sogna", una ragazza del 2000, ingabbiata negli schemi metallici di una vita asettica. Non mangia, non dorme, Š arida, come la musica che la circonda .. afferra un sogno e lo rincorre, la voce di Samuel la istruisce. Nessun dolore, nessun piacere, nessuna voglia di farsi guardare pi— a fondo. "Lasciati" Š una canzone d'amore. Mai banale, forse Š diretta proprio ad Aurora, al greto della sua intimit… .. il tappeto sonoro e' dolce e amaro allo stesso tempo, struggente .. un chitarra spinge in fondo, una tastiera afferra la mano tremante e ci riporta a galla, spenti. I suoni sintetici sono stranamente caldi, i Subsonica oltre ad assemblare tracce campionate sono anche dei buoni musicisti, magari non dei virtuosi, ma sicuramente fantasiosi nella ricerca di sonorita' particolari che facciano da sfondo ai loro deliri controllati. "Liberi tutti" nasce come uno stacchetto radiofonico ed in qesto disco si trasforma in un pezzo coinvolgente, in cui ancora una volta la tastiera di Boosta troneggia, Daniele Silvestri appare improvvisamente in una strofa, a duettare con Samuel. Poi e' il turno di "Strade", e' quasi un brano pop, di gran classe, chitarra funky, batteria puntuale, ritmo incalzante e melodia particolarmente indovinata con la voce in grande evidenza soprattutto nella parte finale. Segue "Disco labirinto", forse una delle loro canzoni pi— conosciute; una traccia scritta e cantata insieme a Morgan dei Bluvertigo, che strizza l'occhio alla dance inglese, chitarra psichedelica, atmosfera lisergica, un loop che si fissa in testa e non si dimentica pi—. Sulla stessa via Š "Il mio d.j.", tipicamente dance, ma con le chitarre in primo piano a ricordarci dove siamo. "Il cielo su Torino" racchiude una fotografia sulla citta', ritmo cadenzato dalla batteria del Ninja, voce "megafonata", ma sussurrata, un pezzo di vita che scorre lieve e rabbioso, inafferrabile. "Depre" e' una degenerazione dello stato mentale, il testo e' un'elenco di psicofarmaci, la base tipicamente industrial e' angosciante, cosi' come quella di "Perfezione", brano di chiusura, rigido, che batte un tempo insolito per poi esplodere in un ritornello energico e rabbioso. In seguito sono state aggiunte due tracce: "Tutti i miei sbagli", brano incalzante e privo di ritornello, coraggiosamente presentato a Sanremo (alcuni dicono furbescamente), che con la presenza degli archi poco si adatta all'atmosfera dell'album; "Albe meccaniche", che invece si integra alla perfezione nel discorso, un testo sull'alienazione, un ambiente cupo e decadente in perfetto stile torinese. Nel suo genere davvero un ottimo lavoro. Voto: 7. Davide Lavecchia Mau Mau - Eldorado (1998) Cittadini del mondo, Š questa la definizione che pi— si addice ai Mau Mau, gruppo piemontese dalle molteplici influenze musicali e non. Giunta al quarto lavoro in studio, la formazione guidata da Luca Morino, intensa voce e autore di quasi tutti i testi, e Luca Barovero, fisarmonica e coautore delle musiche, raggiunge il vertice di una produzione davvero notevole. "Eldorado" estrae il meglio dei tre dischi precedenti e lo riunisce in maniera eccellente: c'e' il clima festaiolo di "Sauta rabel", ci sono le atmosfere rarefatte e acustiche di "Bass paradis" e c'e' il sound di "Viva mamanera", con i suoi affreschi di chitarra elettrica, introdotta per la prima volta proprio nel terzo episodio della loro carriera. Il gruppo da realmente l'idea di aver raggiunto l'equilibrio giusto, la coesione Š quella di una band che si diverte, per accorgersene basta assistere ad un loro concerto, e si sente. Si parte subito alla grande con la title-track, un insolito suono di chitarra distorta introduce un ritmo tribale scandito dallo djembe' di Tate Nsongan, percussionista camerunense della formazione. La fisarmonica, vero marchio del sound "Maulero", Š come al solito puntuale, cosi' come la tromba di Roy Paci. I Mau Mau sono unici nel costruire mondi, nell'evocare atmosfere lontane e lo fanno benissimo anche con questo brano in cui le liriche si fondono in modo delizioso con l'atmosfera da et… dell'oro. Dopo l'amara e acustica "Inferno", interpretata magistralmente dalla voce di Morino, arriva il lato festaiolo scandito dall' "eh .. ho" di "Nozze", che filosofeggia ironicamente sui matrimoni, e dal ritmo incalzante di "Pueblos de langa" che narra, in idioma rigorosamente piemontese, le avventure dei nostri tra le colline del Barolo. "Vagamundo" Š in pratica la versione introspettiva del brano precedente, un viaggio nei sogni, tra luoghi incantati, davvero emozionante soprattutto nei momenti in cui il violino di Davide Rossi pennella squarci di dolcezza. Il vagabondaggio si arresta "Nella citt… proibita", luogo qualunque in cui i suoni di una banda malinconica e il coro delle Voci Atroci creano un'atmosfera quasi funebre, ripresa da "Solo sfiorando", preghiera in punta di piedi a meta' tra Paolo Conte e il lato oscuro di Vinicio Capossela. Il mambo di "Per amor" riporta il sole, e ci scaraventa sulle coste dell'America latina tra le danze al chiaro di luna, poi chiudiamo gli occhi e ci ritroviamo a "Finisterre" il punto pi— occidentale d'Europa, in Galizia, terra omaggiata dai nostri con una regale marcetta in lingua locale. Non abbiamo ancora visitato l'Africa? Niente paura, arriva il "Griot", un cantastorie-cronista-viaggiatore che custodisce e divulga la preziosa tradizione orale del continente nero. Quest'ultimo episodio Š probabilmente il pi— riuscito dell'intero disco, una danza tribale punteggiata da un arpeggio costantemente in sottofondo e dalle percussioni scatenate di Tate e colorata dalle improvvise incursioni della chitarra elettrica e della tromba che donano una solennita' struggente alla progressione costante del brano. Stanchi alla meta non resta che applaudire un grande disco ed un grande gruppo. Voto 7. Davide Lavecchia Alamamegretta: Sanacore (1995) Dopo aver destato l'interesse di pubblico e critica con "Animamigrante", il loro primo album, nel 1995 gli Almamegretta danno alle stampe uno dei dischi pi— originali del panorama italiano degli ultimi anni. La band napoletana parte per un viaggio che ha come destinazione Bristol, passando per la Grecia e facendo sosta a Marrakesh dopo aver attraversato tutto il mediterraneo. Il leader carismatico del gruppo, Raiss (al secolo Gennaro Della Volpe), e' reduce dalla collaborazione con i Massive Attack per la versione anglo-partenopea di "Karmacoma" e l'esperienza inglese ha lasciato segni indelebili. I colori e i paesaggi di questo disco sono scuri, cupi, ma improvviasmente si aprono in sgargianti e solari sfumature, la nebbia inglese che si mescola al calore del Europa meridionale. I ritmi vellutati, i bassi costantemente in primo piano, i suoni dell'Africa, la voce potente del Raiss che tesse trame vocali tanto inaspettate quanto emozionanti. E' il mediterranean-dub, genere che nasce e muore nello spazio di un album: "Sanacore" (che tradootto significa guaritrice del cuore). La compattezza del disco Š sorprendente, un continuum che parte con la linea di basso penetrante di "'o sciore cchiu' felice"(il fiore piu' felice) e si chiude col suono quasi psichedelico di "Tempo", manifesto del disco, una dichiarazione d'intenti parlata .. "noi preferiamo la lentezza". Tutto Š dilatato, riverberato, trascinato, "pe' dint' e viche addo' nun trase 'o mare","ammore nemico","se stuta 'o fuoco","scioscie viento", si muovono al ritmo di un carretto tra le automobili. Mille suoni diversi, ad ogni ascolto spunta un campionamento, un sospiro del mare, c'Š spazio per tutto tra le onde e i paesaggi creati dagli Alma. L'aria salata delle citta' di mare, l'antimilitarismo, la malinconia di un sentimento che si spegne inesorabilmente, l'alienazione delle giornate di lavoro. Il lavoro di mixaggio a cura di Adrian Sherwood e Andy Montgomery in quel di Londra Š a dir poco perfetto, gli arrangiamenti sontuosi, il suono terribilmente allineato ai battiti del cuore. I brani si snodano tra le calde atmosfere di "maje" animate improvvisamente da una tastiera ipnotica e l'antica filastrocca della title-track, su sfondo elettronico essenziale. Tra i canti popolari africani di "Ruanda", brano strumentale di 7 minuti che si regge sul dialogo tra l'ispiratissimo basso di Mario Formisano e la tastiera di Pablo; fino adarrivare al capolavoro nel capolavoro: "nun te' scurda'". Introdotta da una scarica del batterista e mente del gruppo Gennaro T., si dimena al ritmo di un'antica danza, riveduta e corretta in chiave dub; la linea di basso traccia il percorso che il canto di Raiss segue trovando gli gli spiragli tra l'eco degli accordi della tastiera e il fantasioso uso di percussioni e campinamenti. E' un inno al piacere fisico, al diritto delle donne di godere del proprio corpo in una cultura bigotta che scimmiott… la modernit… e reprime i suoi istinti nel nome di un'immagine ipocrita, ma pulita in superficie. "Sanacore" Š un viaggio, un disco importante ed imperdibile. Voto 7,5. Davide Lavecchia 24 Grana - Metaversus (2000) I 24 Grana sono una band formatasi nel contesto della nuova scena napoletana, nata all'inizio degli anni '90 e che vede come maggiori esponenti Almamegretta e 99Posse. "Metaversus" Š il loro secondo lavoro, preceduto da "Loop" e da un live che ricalca esattamente il primo lavoro in studio, uscito sul mercato discografico in coincidenza col passaggio ad un major, precisamente la CGD. Se col primo lavoro non erano pochi quelli che li consideravano come dei cloni degli Almamegretta, con questa seconda fatica riescono a ritagliarsi uno spazio nella scena musicale italiana, spiccando non tanto per originalit…, ma sicuramente per un uso del formato canzone che si distacca dalle linee melodiche e dai facili ritornelli. Quello che pi— sorprende e colpisce di questo disco Š la passione che trasuda dalle note, dalla voce estremamente coinvolgente del cantante Francesco Di Bella e dall'uso, mai fine a se stesso dell'elettronica. L'album si apre con "Nel metaverso", brano strutturato su un riff di chitarra accostabile alle sonorit… anni '70, tra il punk e lo slow-core, tra il "lo-fi" ed il garage-rock; le liriche in italiano sono come al solito taglienti, vagano tra concetti estremamente introversi e strampalati a brani di poesia post-industriale, fino ad arrivare ad un quasi-ritornello canticchiabile in napoletano che con il tono canzonatorio che lo contraddistingue inserisce un momento di solarit… in un'atmosfera che Š stranamente cupa. Il secondo pezzo, "Rappresento", anch'esso cantato in italiano, Š una sorta di hard-core rallentato in cui Franceso scarica tutto il suo disagio tra le ombre che lo circondano .. "Niente da dire su ci• che rappresento .." Š il suo urlo .. ; lungi dall'issarsi come paladino di una filosofia di vita, la sua figura esile, dolce e rabbiosa allo stesso tempo, ne fa un'icona dell'anticommerciale, verrebbe da dire dell'antiglobal, ma lui stesso rifiuterebbe questa etichetta probabilmente. Dopo i primi due episodi, coraggiosi e che fungono da manifesto per le intenzioni del gruppo parte uno dei brani pi— riusciti dell'album: "Vesto sempre uguale". L'impianto sonoro Š costituito da una tastiera strampalata che crea un'atmosfera estratta direttamente dai vicoli napoletani, il ritmo incalzante sfocia in una parte centrale condita da chitarre distorte alternate ad incursioni "reggaeggianti"; il testo Š una metafora del mondo della droga, in alcuni momenti velata, in altri palese, ma che nel complesso appare davvero evocativa e geniale. Il trittico "Nun me movo mai","La pena","La costanza" riporta il disco alle sonorit… del lavoro precedente, ma con una personalit… decisamente superiore, l'impressione Š quella di un'unica suite dai ritmi rallentati, dove l'elettronica fa da sfondo a delle vere e proprie confessioni, quasi sottovoce, che passano dai sentimenti alla rabbia per i propri limiti; Š questo l'ambito in cui Francesco si esprime al meglio, quasi come parlasse ad un'ipotetico dio laico con il trasporto e il tono trascinato che caratterizza il suo modo di cantare. "Le abitudini" Š forse il momento pi— toccante in assoluto, l'apertura con una sorta di ronzio lancinante crea un'atmosfera claustrofobica in cui il riff malinconico e doloroso di una chitarra distorta si mescola al suono campionato degli archi; una cantilena quasi parlata traccia un solco che crea uno spazio vuoto tra le parole e la musica, come a rappresentare il distacco dal mondo, tema di fondo di tutto il lavoro. Segue "Resto acciso", episodio che si definire il pi— rock dell'intera produzione della band, l'impianto Š quello tipico della rock-song, ma sempre caratterizzato dal minimalismo tipico del gruppo, che prende le distanze dai virtuosismi prediligendo la creazione di atmosfere che facciano da sfondo ideale per l'espressione vocale di Francesco. Il pezzo Š un urlo di rabbia, probabilmente contro qualcuno, ancora contro il mondo e chi lo incarna e lo rappresenta. "Epitaph" riporta alla mente le atmosfere dark di alcuni pezzi dei Cure, il ritmo rallentato, la linea di basso e la batteria sincopata riproducono in alcuni momenti la versione napoletana e mediterranea di "Apart", ma le atmosfere degli anni d'oro del gruppo di Robert Smith riecheggiano lontanamente in diversi attimi del disco, come dei flash sparsi. L'album si chiude con "Stai-mai-cc…", divertente e irriverente filastrocca che ironizza sulla perenne condizione al limite della lucidit… di Francesco & co. voto: 7/10 Davide Lavecchia Ronin: Ronin EP (Bar la Muerte, 2002) Bruno Dorella e' indubbiamente uno dei principali protagonisti della scena underground italiana. Nel suo "curriculum" pu• vantare di aver suonato con gente del calibro di Wolfango, Bugo, Daniele Brusaschetto; di avere in prima persona dato vita ai progetti OvO e Lava; di aver promosso con la sua etichetta discografica Bar la Muerte alcune tra le esperienze pi— scostanti della musica autoctona, tra i quali Allun. I Ronin sono quindi solo l'ultimo in ordine temporale di una serie di progetti interessanti e quello a cui Dorella attribuisce l'onere di mostrare la propria maturita'. Formati attorno a musicisti come Marco Anicio, Lorenzo Rizzi, Alessadro Ruppen dei RUNI e Jacopo Andreini, i Ronin si allontanano dalle consuete sfuriate di improvvisazione per abbracciare un metodo compositivo pi— riflessivo. Si tratta di brani malinconici le cui melodie e orchestrazioni ricordano le atmosfere raffinate dei Dirty Three. La chitarra la fa da padrone nella maggior parte dei casi con arpeggi e linee rarefatte che cercano di elevarsi in ambiziosi voli romantici. Quando il gruppo al completo lo spirito che si respira e' addirittura bandistico, spartito tra la Jugoslavia di Bregovic e l'Arizona dei Calexico. "Nada" e "Outro" si propongono invece per una sorta di minimalismo chitarristico che ricorda Loren Mazzacane Connors. Il giudizio complessivo di questo EP e' comunque interlocutorio. A dispetto delle dichiarate ambizioni compositive, sembra per lo piu' di trovarsi di fronte a episodi estemporanei confezionati in studio in momenti di pausa. Lo stile inoltre rimanda ancora troppo ai propri referenti ispiratori. Sembra quindi piu' un lavoro di studio che un disco in grado di proporre un'identita' ben definita. Occorrera' quindi aspettare l'album vero e proprio, programmato per la prima meta' del 2003, per valutare appieno il valore di questo gruppo che per il momento non aggiunge gran che a quanto gia' conoscevamo in precedenza di Dorella. Massimiliano Osini Afterhours: Hai Paura Del Buio? (Etichetta, Anno) Gli Afterhours segnano con quest'album la storia del rock italiano. Non scherzo. Evidentemente gli anni '90 per il nostro paese non devono essere poi stati cosi` musicalmente bui se proprio nello scorso decennio hanno avuto la massima espressioni band come i sopracitati, i Marlene Kuntz e i CSI. "Hai Paura Del Buio" in realta` e` un collage di suoni, canzoni differenti tra di loro che rivelano il genio (altro nome non lo trovo) di Manuel Agnelli. E` un opera d'arte in 19 canzoni. Dopo la strumentale title tack, e "1.9.9.6." (con la voce di Agnelli modificata al computer) arriva l'eccezionale potenza Grunge di "Male Di Miele", dissascrante e ironica nel testo ("la sicurezza e` un ventre tenero ma e` un demonio steso fra di noi") ed erroneamente considerata la "Smells Like Teen Spirit" italiana. Tanto di cappello per la canzone successiva: "Rapace" infatti e` uno sporco gioiello in salsa rock. Durante la canzone si alterna un ritmo che cresce sempre di piu` fino ad esplodere durante il ritornello. Dopo la dolcezza in salsa rock di "Elymania" ("Sei la rivoluzione che mi convince a risorgere, gioia sperimentale le tue mai sopra di me") e la ballata "Pelle" ("forse sei un congegno che si spegne da se"), arriva il grande punk di "Dea", con la voce di Agnelli che squarcia chi l'ascolta ("Stracciami Barbara avro` la mente contorta lo so ma non m'importa, tanto ho scoperto che io non sono mai stato l'uomo di una volta"). A seguire arriva la paranoica "Senza Finestra" (che si chiude coi violini) e la psichedelica "Simbiosi", poi ecco "Voglio Una Pelle Splendide", prima ballata acustica del gruppo ("Passo le notti nero e cristallo a scegliere le carte che giocherei a maledire certe domande che forse era meglio non farsi mai"). Poi ecco un pezzo completamente strumentale, "Terror Swing", ed ancora una canzone punk: "Lasciami Leccare L'Adrenalina". Dura poco (appena un minuto e mezzo) ma e` di un'intensita` e di una cattiveria unica ("forse non e` proprio legale sai, ma sei bella vestita di lividi"). "Punto G" e` una grandissima canzone, cosi` come "Veleno" e "Come Vorrei", la canzone piu` atipica dell'intero panorama Afterhours. Qui, infatti, Agnelli viene accompagnato solo da violino e pianoforte. "Questo Pazzo Pazzo Mondo Di Tasse" potrebbe essere definito un tentativo di sperimentazione, visto che a chitarre stridule si aggiungono illogici rumori preregistrati. Dopo "Musicista Contabile", arriva la cattiveria e l'ironia di "Sui Giovani D'oggi Ci Scatarro Su", dove la band prende di mira gli odiati ragazzini che fanno gli alternativi per moda e per poi andare "sabato in barca a vela, lunedi` al Leonkavallo". A chiudere arriva l'inno, neanche tanto velato, all'amore di gruppo di "Mi Trovo Nuovo" ("c'e` un gioco che si gioca in tre, mentre protesto io vengo"). Gli Afterhours dimostrano di saperci fare tanto con gli strumenti (grandissimi arrangiamenti) quanto coi testi, dotati di una poetica causticita`. E "Hai Paura Del Buio?" colpisce nettamente nel segno. E` uno dei tre cd che da` linfa al rock italiano. Una assoluta pietra miliare della musica italiana. Voto: 7/5 Giuseppe Cimino Francesco De Gregori: Fuoco Amico Spesso per certi artisti si ci lamenta della mancanza di testimonianze live, si ci affanna alla ricerca di bootleg, si ricorre ai mezzi piu' impensati per accaparrarsi in qualsiasi modo queste preziose gemme musicali. Tuttavia questo non e' il caso di Francesco De Gregori, infatti a partire dagli anni ottanta abbiamo per ogni disco in studio uno o piu' dischi live che riguardano il tour. Anche per Amore nel pomeriggio, splendido disco in studio, poco apprezzato dal pubblico ma abbastanza valido per la critica, De Gregori ha deciso di pubblicare una bella raccolta live di 13 pezzi quasi tutti poco noti al grande pubblico tratti da vari concerti del tour dello scorso anno. Non sembra quindi piu' logico tornare per De Gregori sulla solita questione dei live, nati come mera operazione commerciale, infatti sembra abbia intrapreso una strada completamente diversa rispetto al suo mito di sempre: "Bob Dylan" , che imita in tutto ma non per quanto riguarda la divulgazione del materiale live, il menestrello di Duluth infatti e' stato sempre restio alla pubblicazione dei sui live e del materiale inedito cosicche' ha fatto proliferare uno sterminato mercato di bootlegers. Fuoco Amico, questo e' il titolo dell'ultimo live di De Gregori, si pone in una luce diversa rispetto i due live precedentemente pubblicati, infarciti di perle sconosciute e pezzi supernoti, in questo disco mancano del tutto le superhits, viceversa il repertorio rispecchia chiaramente un normale setlist dei suoi concerti, pur limitando i brani noti a Generale e in oltre dell' ultimo lavoro Amore Nel Pomeriggio sono presenti solo due brani Spad VII e Condannato a Morte, riemergono pezzi poco eseguiti dal vivo come Bambini venite parvulos e La Casa di Hilde. La qualita' del suono e' ineccepibile, tutti i brani vengono da esecuzioni perfette del tutto prive di sovraincisioni a differenza di "La Valigia dell'Attore" in cui su alcuni brani De Gregori volle inserire archi e reincidere alcune parti cantate. Ottima la band che lo ha accompagnato a partire da marzo, dopo tre anni di assenza dai palcoscenici, in parte e' la stessa che suona nel suo ultimo lavoro in studio, sotto la direzione artistica di Guido Guglielminetti, conta: Paolo Giovenchi alle chitarre, Greg Cohen, gi… con Tom Waits, al basso e contrabbasso acustico, Alessandro Svampa alla batteria, Alessandro Arianti al piano e tastiere, Marco Rosini al mandolino e alla chitarra acustica, e, dopo 25 anni dalla sua ultima apparizione, Toto Torquati all' organo Hammond e tastiere. Si parte con una ruvida "Bambini venite parvulos" , suonata eccezionalmente, seguono in un trittico mozzafiato Un guanto, Povero Me e Generale, quest'ultima stravolta e suonata senza sezione ritmica con il solo ausilio della fida chitarra elettrica che sputa un riff ermetico quasi monotono, ma che le da una luce nuova del tutto crepuscolare, facendo emergere i lati drammatici di questo splendido testo. Spad VII S2489, rievoca l'aviatore Francesco Baracca, "l'asso degli assi" della caccia italiana nella guerra 1915/1918. Nacque a Lugo di Romagna nel 1888 e morŤ nel 1918 colpito da una pallottola sparatagli da terra mentre volava a bassa quota sulle postazioni austriache mitragliandole. Precipito' in localit… Busa delle rane a Montello dove il suo corpo fu ritrovato tre giorni dopo dai suoi compagni di squadriglia, questa versione non si discosta molto dallo standard in studio, ma si arricchisce di un arrangiamento che da l' aria di completare il lavoro svolto su Amore nel Pomeriggio. Il vero capolavoro quanto ad esecuzione strumentale e vocale e' senza dubbio Cercando Un Altro Egitto, tratto dal suo terzo album, il testo risente particolarmente dell'influenza di Dylan, tuttavia non Š la pi— classica delle copie carbone (Nel corso della sua carriera tuttavia De Gregori ha fatto qualche vero e proprio furto a Dylan: Winterlude Š ripresa in Buonanotte Fiorellino o ancora il Suono Delle Campane Š praticamente Stuck Inside Of Mobile With Memphis Blues Again, senza contare le cover Non dirle che non Š cosŤ (If you see her say hallo) dall'album La Valigia Dell'Attore e Via Della Povert… (Desolation Row) nata da una collaborazione con De AndrŠ e presente in Canzoni), infatti nel testo emerge sempre chiaro il suo stile e in questa esecuzione differente dalla struttura acustica di quella in studio, traspare un assoluto trasporto sia vocale che strumentale. Condannato a Morte e' il secondo brano tratto da Amore Nel Pomeriggio, anche qui l'esecuzione e' ineccepibile, sembra tuttavia mancare alla voce l' atmosfera di sussurro che e' invece presente nel disco e che ne faceva un eccezionale brano. I brani seguenti, Vecchi Amici, I Muscoli Del Capitano e Battere e Levare, sanno un po' di routine, ma acquistano una chiava stile unplugged ma con felici inserimenti di parti elettriche in un misto eclettico di buona musica. La Casa di Hilde, avvia alla conclusione del disco, dandoci la sensazione di andare via da un concerto senza che il De Gregori abbia eseguito i classici bis, infatti quasi posta come il pi— classico ed inaspettato dei bis, ecco un oscuro traditional italiano L' Attentato a Togliatti, scritta da un anonimo, rivista in completa chiave unplugged, presenta un testo proveniente dalla scuola folk cronistica, cita infatti tutti gli avvenimenti e alla fine ci lascia con un monito che sa molto di retorica_Insomma Francesco De Gregori gioca proprio a fare il Dylan italiano e devo dire ci riesce bene, ma la scelta di questo pezzo Š un po' infelice commercialmente parlando (E oggi si stilano le tracklist sulla base di scelte commerciali!!), tuttavia rientra in un discorso di recupero delle tradizioni poetico-musicali italiane che ha intrapreso il cantautore romano, di recente infatti ha tenuto una conferenza proprio su questo tema, e devo dire ci tutto ci• almeno culturalmente parlando non pu• che far bene alla musica italiana. Voto 5/10 Salvatore Esposito Amorematico: Subsonica (Mescal, 2002) Se negli ultimi anni la scena underground italiana ha goduto di una provvidenziale (e meritatissima) spinta verso più vaste attenzioni, fra i gruppi che maggiormente ne hanno goduto figurano senz’altro i Subsonica, che con la freschezza quasi spiazzante di "Microchip Emozionale" hanno entusiasmato il pubblico ancor prima che la critica. Tutto questo successo improvviso, unito al merito di continuare ad incidere per una etichetta indipendente (una signora etichetta, per di piu’), rischiano come sempre di far perdere di vista il vero valore di questa terza, attesissima opera: in altre parole, se "Amorematico" sara’ accolto come un capolavoro da piu’ frange di ascoltatori si trattera’ di una delle tante esagerazioni. Cio’ non toglie che la proposta Subsonica si stia affinando sempre piu’ e che rappresenti una delle novita’ italiane di maggiore interesse, oltre che una delle piu’ ambiziose: elevare ad arte il concetto di dance-pop elettronico sdoganandolo dalla puerilita’ caratteristica del genere e contaminandolo con la sofisticatezza della dance piu’ colta. Laddove pero’ "Microchip emozionale" indulgeva maggiormente sull’immediatezza dei ritornelli e sulla costruzione di un pop teen-age oriented che mostrasse anche una certa, inedita intelligenza, qui il conato evolutivo in fase di composizione e’ palpabile, e non pochi sono gli episodi che sfoggiano una luminosa maturita’. "Dentro i miei vuoti" si crogiola nelle allucinazioni di insonnolite dissonanze metropolitane, citando piu’ gli Air e la Francia elettronica che non Matmos e Radiohead; session divaganti irrompono qua e la’ a variegare l’atmosfera e, se il finale e’ un tantino prolisso e il confronto con i modelli non sempre vincente, il pezzo e’ decisamente interessante. "Nuvole rapide", a tutti gli effetti il momento migliore dell’album, con incursioni di chitarre sintetiche a scalfire un cuore tech-house, punta su accostamento bjorkiano di solenni suggestioni orchestrali a sincope dance, vantando una professionalita’ che ha dello straordinario per una band italiana di genere; in "Eva-Eva", altro piatto forte, l’accompagnamento spiccattamente danzereccio si sposa con maestria ad una melodia di irresistibile lascivia e ai riverberi metallici di sottofondo; la suite in quattro parti "Atmosferico" e’ una chiusa ben congeniata che rivela una grande attenzione da parte del gruppo a cio’ che accade nei club house londinesi: quel suono rotondo e avvolgente, quell’innesto di garbate percussioni tese ad accennare un sapore tribaleggiante, sono tipici delle produzioni di Peace Division e H-Foundation, e ritornano anche negli ultimi Chemical Brothers. Le frustrazioni dei propositi di partenza arrivano invece quando si materializza il fantasma del disco precedente, e con esso il vizietto irresistibile delle consolidate formulette catchy, e la propensione spiccata per i motivetti radiofonici accattivanti quanto limitati. Nonostante infatti i nostri si trovino ampiamente a proprio agio in giochi di questo genere, tutto cio’ in un contesto simile da un lato tende a sfigurare innanzi ai pezzi piu’ nobili e riusciti, dall’altro non aggiunge nulla al curriculum dei torinesi e anzi si trascina stancamente sulle orme dei vecchi successi: se comunque "Albascura" e "Nuova Ossessione" rimangono brani accettabili, "Mammifero" ("You and me baby ain’t nothing but mammals", diceva tra l’altro qualcuno appena un paio di anni fa…) e’ il punto piu’ basso dell’album, con un lungo, inutile epilogo che serve solo a rendere stucchevole il piu’ ruffiano e scontato degli stratagemmi. Per quanto riguarda infine i testi, i Subsonica non sono mai stati degli intellettuali, eppure ora piu’ che in passato l’impegno a rendere quello che scrivono meno banale di quanto non lo sia in realta’ e’ lodevole, anche grazie all’apporto del poeta Luca Ragagnin in fase di scrittura. Ma questo non basta a liberare certi passi da un approccio giovanilistico, lirico quanto musicale, che contrasta decisamente con la meta qualitativa del progetto e ne limita il risultato significativamente. Molti gli ospiti: dal rapper marocchino Rachid ("Gente tranquilla") ai Krisma ("Nuova Ossessione") fino al dj Roger Rama, presenza importante in piu’ di un episodio. Voto: 6/10 Alessio Gambaro Alessandro Ducoli: Anche io Non Posso Entrare (I.R.D., 2001) Quel che piu’ colpisce di cantautori come Alessandro Ducoli e di gruppi come Bacco il matto, suo progetto parallelo, e’ la scarsita’ quasi grottesca di attenzioni da parte di media e pubblico in rapporto alla freschezza della proposta. Questo non perche’ l’ultimo album della sua piuttosto giovane carriera sia una capolavoro storico ma perche’, rapportato a molte altre uscite di genere baciate da una fortuna ben maggiore, "Anche io non posso entrare" fa scintille. E, curiosamente, non per quella speciale immediatezza, diremmo quasi quel certo impeto selvaggio, che si e’ un po’ persa nel qualunquismo del pop mainstream e che invece sopravvive grazie a molti gruppi rock underground. Al contrario, l’album si distingue per il tocco raffinato degli arrangiamenti, per il sapersi rendere intrigante e dire qualcosa che valga la pena di ascoltare, addirittura per la capacita’ di evocare un inedito scenario musicale, una sorta di epica rock come tante altre in passato ma che, al giorno d’oggi, e’ raro rintracciare fra gli orpelli dei vuoti packaging discografici. Ed e’ un epica che avvince, quella del Ducoli. L’epica della dannazione provinciale che serpeggia fra i locali notturni della Val Camonica, e che avvolge abbozzi di storiacce sfigate e rituali da sabato sera fra le spire di fumo delle sigarette. L’epica degli amori che ancora prima di cominciare annegano nel vino novello e nei terrei doposbronza della mattina successiva. L’epica, ancora, di chi si sente un po’ un outsider in un mondo che dopo 25 anni di vita ha gia’ disilluso tutte le speranze della giovane eta’, e sente che proprio di doman non c’e’ certezza… Il mondo del Ducoli, insomma, che trova in questo album la sua sintesi migliore. Abbandonate le riletture colte del southern rock padano (quello, per intenderci, che fece follie alla fine degli anni ’80 con gruppi come Rats e Negrita, e che trovo’ in Ligabue il massimo rappresentante a livello "popolare") su cui e’ imperniato il Bacco il Matto piu’ recente, e trovata una forma piu’ corposa e concludente per i bozzetti da music hall del precedente "Malaspina" (accattivanti in certi casi, un tantino logorroici in altri), il rocker di Breno sforna undici brani tra il blues rock e la tradizione cantautorale italiana, riuscendo a conciliare Springsteen e Fossati, Tom Waits e Guccini, John Mellencamp e Capossela, il tutto con grande disinvoltura e, soprattutto, con grande personalita’, tanto che delle innumerevoli ascendenze proposte non una convince appieno. Va detto -ed e’ una precisazione fondamentale nel nostro caso- che si tratta di un disco estremamente omogeneo. Anche per questo ha poco senso definire perentoriamente le influenze e proprio per questo, se e’ vero che tutti i brani funzionano alla perfezione, senza un solo momento di stanchezza, non ci sono lampi particolarmente geniali. Lo stile dell’autore e’ solidamente a fuoco: concreto, pungente, poetico ma mai serioso, diretto ma mai grezzo, pessimista ma mai arreso. E, musicalmente parlando, decisamente sopra la media, grazie soprattutto al buon cast strumentistico di cui Alessandro si e’ circondato. Forse proprio a questa chiarezza d’intenti, che piu’ volte comporta il rischio di ripetersi, e’ da imputare la mancanza di episodi sopra le righe. E se ci soffermassimo a lodare un campione di eleganza come "Il primo ballo", impreziosito da garbati virtuosismi che sfumano in un malinconico finale latino-americano , o la farsa tragicomica del picaresco protagonista di "Giovanna", ma anche il pub rock di "Dieci metri sotto la citta’" o il reggae composto di "Tre linee confuse", faremmo senz’altro un torto agli altri sette brani, che rappresentano esattamente, al pari dei quattro citati, cio’ che vorremmo ascoltare dopo le due di notte in qualche bettola avvinnazzata di provincia, ormai certi che il bruciore del whisky sul palato ci accompagnera’ fino all’alba. Sperando che proprio in quel locale, prima o poi, arrivi un misterioso avventore chiamato Bacco e, imbracciata una chitarra, ci regali le sue affascinanti e non troppo fortunate canzoni. 6/10 Alessio Gambaro Crocevia: La Crus (Wea, 2001) "Alternativo" e’, per definizione, tutto cio’ che si distingue all’interno di una determinata categoria di soggetti per una serie di peculiarita’ distintive che lo pongono in un rapporto di distacco (conflittuale in molti casi, addirittura antagonistico in altri) con il resto della sua classe. Musicalmente parlando, di conseguenza, il "rock alternativo" (o, piu’ in generale, la "alternative music") si presenta come una soluzione tendente il piu’ possibile al nuovo, all’originale, all’imprevedibile e, come tale, volutamente anti-popolare, in un modo o nell’altro. Il caso dei La Crus e’, a tal proposito, particolarmente interessante, ponendoci di fronte ad un gruppo "doppiamente" alternativo, specie per quanto riguarda gli ultimi lavori. Muovendosi infatti in direzione contraria a buona parte dell’underground italiano (peraltro di grande fattura e sempre piu’ avviato ad abbandonare l’etichetta e diventare la vera musica nazionale), Mauro Giovanardi e Cesare Malfatti (piu’ un terzo componente, Alessandro Cremonesi, mai presente sul palco ma fondamentale in fase di scrittura) preferiscono sperimentalismi vellutati in grande stile ad asperita’ sonore anche minimamente "hard" o eccessivi ermetismi. Una strada problematica, quindi, giacche’ muovendosi controcorrente a ritroso si finisce per tornare da dove si e’ partiti. Difficile spiegare esattamente come, ma i La Crus ce l’hanno fatta: evitando abilmente le lusinghe del pop facile dell’ultima generazione, hanno iniziato un processo di recupero della tradizione reinterpretata attraverso gli occhi di un avanguardismo moderato che fa dei tre una band unica nel gia’ fertilissimo scenario nazionale, la cui personale commistione musicale li portera’, si spera, a riconoscimenti ben maggiori di quelli avuti fino ad ora. "Crocevia" e’ il manifesto di questa scelta forse non definitiva ma, senza dubbio, attualmente ben delineata. Il legame con la tradizione esce qui allo scoperto, senza rimandi o citazioni indirette, attraverso la rilettura di grandi classici della musica italiana affiancati da un sentito omaggio a qualche pezzo più recente. E’ opportuno chiarire subito una cosa: quanti gruppi italiani possono permettersi un album di cover? Ben pochi, indubbiamente. E il nostro, salvo qualche (rarissimo, comunque) momento di stasi, funziona alla grande dal primo all’ultimo brano, dimostrando che i suoi autori rientrano fra quella ristretta cerchia. Questa non e’ una pausa in attesa di una nuova fatica discografica, ne’ un divertissment in cui si gioca a cantare le canzoni di papa’, bensi’ uno dei lavori piu’ interessanti dell’anno: basti questo a evidenziare il valore dei La Crus. Al di la’ di etichette e definizioni, la maniera migliore di apprezzare Crocevia è comunque l’ascolto. Fin dalla prima traccia: un’"Estate" (quella di Bruno Martino, autore di culto degli anni ‘60) inzuppata di sonorità liquide, esotiche, quasi dub, a tratti impreziosita da un’idea di riuscito romanticismo jazzy che accompagna con discrezione, senza mai strafare. Catturati completamente da questa magnifica apertura, abbiamo appena il tempo di accorgerci che il brano numero due nasconde, dietro ad un arrangiamento sottilmente sinistro, un "Pensiero stupendo" sussurrato dalla madrina Patty Pravo (che fece suo un testo di Ivano Fossati) e da -udite udite- Manuel Agnelli degli Afterhours, che si alternano, assieme a Giovanardi, dietro al microfono. L’esecuzione e’ da applausi: la staffetta vocale e’ perfetta, con la cantautrice ospite che si trova perfettamente a suo agio tra un Manuel tenebroso come non mai e un Mauro la cui straordinaria prova vocale (intensa, versatile, passionale) non ha un cedimento nel corso dell’intero album. Forse l’ennesima riproposizione di un brano fin troppo celebre, probabilmente la migliore. Ma siamo solo all’inizio: i La Crus resuscitano l’ossessione battistiana di "E penso a te" colorandola di opaca disperazione; reinventano la "Via con me" di Paolo Conte (primo singolo estratto e, ci auguriamo, non ultimo) in un incalzare di progressioni dance agrodolci; riescono nell’impresa di uscire dignitosamente dal confronto con De Andre’, omaggiandolo con una "Giugno ‘73" affidata ancora una volta all’ottima perfomance vocale e ad un basso incisivo che gia’ nell’originale costituiva l’ossatura principale del pezzo. Non finisce qui: un posto obbligato anche per Tenco e Fossati, oltre alle scelte piu’ insolite di Nada, del dimenticato Alan Sorrenti (che pure ha segnato un momento importante nella ricerca musicale del nostro paese, e che qui viene ricordato con "Vorrei incontrarti", non particolarmente brillante nella nuova versione) e del grande Ennio Morricone che, come testimonia la nuova "Ricordare", non ha scritto soltanto pezzi strumentali. Per finire, tra i brani più giovani vengono eletti "Tutto fa un male" degli Afterhours (riproposta molto efficacemente in versione club-dance) e "Annarella" di quei C.C.C.P. dalle cui ceneri sorse un gruppo fondamentale come i C.S.I., mentre una giovane promessa di nome Samuele Bersani (sorpresi?) ha l’onore di accompagnare Malfatti nel cantato de "L’illogica allegria" di Gaber. Il disco è finito, e la certezza non puo’ che essere quella di un’opera curatissima, originale, vincente, che accontentera’ i palati piu’ fini e piacera’ ai nostalgici, per non parlare di tutti coloro che vogliono accostarsi al cantautorato dei genitori senza correre il rischio di apparire troppo demode’: proprio in questo disco potrebbero trovare quello che cercano. 7/10 Alessio Gambaro Fabrizio De Andre`: In Concerto Vol. II (Ricordi, 2002) A distanza di tre anni dal gemello "volume I" viene pubblicato il secondo live postumo di Fabrizio De Andre’, semplicemente intitolato "In concerto". Non che l’autore abbia mai amato etichette troppo altisonanti, al punto che piu’ casi di omonimia rischiano di confondere all’interno della sua vasta quanto preziosa discografia (lo strepitoso connubio con la P.F.M., immortalato in due registrazioni dal vivo, recava lo stesso nome di questa ultima uscita). Parimenti, al cantautore genovese non e’ mai andato troppo a genio il superfluo, e chi abbia pensato almeno per un momento che il reportage di un’ennesima esibizione fosse solo un tacito accondiscendere ai calcoli di qualche casa discografica ha preso senza mezzi termini un grosso abbaglio. Queste ultime due pubblicazioni corrispondono infatti alla precisa volonta’ di documentare quello che fu il piu’ importante, e purtroppo anche ultimo, tour dell’artista: da un lato, la perfezione degli impianti e la perizia tecnica dei musicisti assicuravano una registrazione impeccabile come mai in precedenza; dall’altro, ed e’ forse quello che più interessa, la produzione dell’autore godeva di un nuovo lavoro di cui non si aveva, fino ad allora, alcuna testimonianza dal vivo: se a cio’ si aggiunge il trascurabile particolare che "Anime Salve", il disco in questione, e’ assieme a "Creuza de ma" uno dei capolavori ineguagliati della musica leggera nostrana, allora l’idea si fa quasi necessita’, e parlare di pubblicazione superflua diventa addirittura irritante. Ancora, se la collaborazione con la Premiata Forneria si distribuiva piuttosto uniformemente lungo l’allora decennale percorso discografico di De Andre’ (con una lieve predilezione per "Rimini", piu’ giovane di un anno rispetto ai due live), questo doppio progetto (e in particolare questo secondo capitolo) puo’ concentrarsi su quello che e’ senz’altro il periodo migliore della sua parabola artistica, e che abbraccia virtualmente, oltre ad "Anime Salve" (debitore in questo caso di 6 brani su 12) e a "Creuza de ma" (2 brani), anche lo splendido e ambizioso "Le Nuvole", di cui vengono intromessi 2 brani risalenti ad un tour meno recente (1991). Completano il quadro "Fiume sand creek", uno dei pezzi piu’ celebri nel repertorio dell’"indiano" (album del ’81 che, a dispetto di tale nomignolo dovuto alla raffigurazione di copertina, recava semplicemente il nome dell’autore) e una sola concessione ai nostalgici, la arcinota "Bocca di rosa" (dall’esordio "Volume 1", 1967). Pretendere di liquidare questa ricchissima track-list spendendo due parole per brano equivarrebbe al torto piu’ grande che un grande estimatore di De Andre’ possa fare alla sua buona stella, considerato anche che brani come "La domenica della salme" esigerebbero uno spazio pari almeno a quello di una intera recensione. Mi limito quindi ad una singola riflessione. Se l’apporto della P.F.M., nel 1979, aveva come obiettivo principale la rilettura di un repertorio cantautorale attraverso il punto di vista di un gruppo rock d’avanguardia (con una vivacità interpretativa capace di mandare in fibrillazione tanto i piu’ accaniti fans dei rocker progressivi quanto il seguito piu’ esigente del buon Faber), qui si tende a puntare invece su una riproduzione cristallina di quanto fatto in studio, consci del fatto che riarrangiare pezzi cosi’ sofisticati e complessi sarebbe stato un lavoro più inutile che arduo; oltre a tutto arricchire l’esecuzione di nuove sonorita’, dopo il trionfo strumentistico dei brani di ascendenza world, sarebbe stato materialmente impossibile su un palco, e anzi il numero degli strumenti è qui ridimensionato. Per quanto riguarda il risultato, il mio consiglio e’ decisamente quello di comprare il disco e verificare personalmente, che’ ne’ certi capolavori possono essere degnamente celebrati a chiusura di un commento come questo, ne’ certe emozioni e’ facile esaurirle con un paio di invenzioni linguistiche, e molto piu’ stimolante risulta invece masticarle da se’ nella culla privata delle proprie sensazioni. Di una cosa, comunque, si puo’ star certi: chi ritiene che una ventina di euro per un disco di musica leggera sia un prezzo eccessivo, in casi come questi dovrebbe fare un’eccezione. 7/10 Alessio Gambaro Alan Zamboni: Jirandolita Gupil (Grim, 2001) Varie sono le ragioni per cui e’ naturale, e quasi doveroso, accogliere con entusiasmo un album come questo. Innanzitutto, si tratta di un disco d’esordio: quando ormai il flagello delle nuove proposte sanremesi ci aveva tolto ogni speranza riguardo alla sensibilita’ artistica dei giovani cantautori, scopriamo con piacere che ancora una volta, lontano dalle telecamere e dagli applausi ingiustificati, qualcuno si adopera a ridare un po’ di dignita’ artistica al cantautorato italiano. Brutta parola, al giorno d’oggi, che’ se la scena rock (o pseudo tale) mainstream e’ collassata da un pezzo (vedi nuovi singoli di Ligabue e Jovanotti, per non parlare dell’ultima fatica del Blasco), i grandi album sono sempre meno e i grandi solisti decisamente in via d’estinzione: "Jirandolita Gupil", al contrario, fa ben sperare a proposito. I cantantucci del romanticismo industriale poi, dalla Pausini al nuovo arrivato Ferro, confrontati allo spessore di questo album ammutoliscono in tutta la loro inutilita’. Bravi dunque, anzi bravissimi, tutti gli Alan Zamboni che rifiutano gli escamotage delle promozioni "pilotate", quasi sempre sinonimo di scarsa qualita’, in nome di un esordio degno di questo nome. E’ solo cosi’ infatti che JG puo’ prendersi tutte le liberta’ del caso. A livello musicale, l’idea portante è quella di ricondurre alla tradizionale forma canzone svariati tipi di accompagnamento (jazz, swing, lounge tra i tanti, persino un tango) senza mai indulgere a nulla che si possa definire pop, perlomeno come lo si intende oggi; al contrario, l’esuberante sfavillio degli arrangiamenti, sempre curatissimi, vanta un impressionante repertorio strumentistico e la presenza di ospiti esperti tra cui -impossibile non citarli- "Flaco" Biondini, Oscar Del Barba e Kyle Gregory. A livello testuale la formula e’ la stessa: sobrieta’ formale ed eleganza stilistica, in perfetto equilibrio. Bando ai cliche’ quindi, ma anche ad immagini troppo ostiche e ad intellettualismi rompicapo. Laddove si puo’ trovare un difetto questo sta piuttosto nel gravame di alcuni termini o di interi passaggi, ma si tratta di episodi cosi’ isolati (e comprensibili, del resto, vista l’ambizione di questo lavoro) che si dimenticano volentieri. Abbondano, invece, le citazioni: "ho comprato un ippogrifo" potrebbe essere un verso di De Andre’, a cui ammiccano allusioni piu’ o meno dirette quali il "ballo mascherato" del quarto brano, tanto per citarne una, o il concetto di "occhi" su cui e’ giocato il terzo, che peraltro richiama il garbo armonico dei primi lavori degregoriani; "Noi due troppo" possiede lo stesso disincanto e la stessa dialettica di certi pezzi di Guccini, altra forte influenza del disco; "Profilo: bionda" rivisita invece il cantautorato classico con un piglio molto vicino a certe arie di Paoli, e i suggerimenti potrebbero continuare. La forte personalita’ dell’autore evita che tutto questo si risolva in un poco interessante zibaldone di stili; cio’ non toglie tuttavia che i momenti migliori siano forse quelli in cui si da’ maggiore sfogo alla propria indole "millantando origini maudit", come canta lo stesso Zamboni, e si ritraggono a tinte forti solitari jazzisti di strada ("A tu per io") e clochard che ingannano la sorte negli squarci di una Parigi pittorica e decadente ("Straniero"): sono questi i bozzetti, a meta’ tra Toulouse-Lautrec e Van Gogh, che meglio esprimono l’afflato artistico sognante e (dolcemente) maudit, per l’appunto, che traluce da JG. Viceversa, dove si cerca un pathos piu’ grezzo a mezzo di un incedere concitato, quasi rock, si ha la prova meno convincente e piu’ innaturale della track-list ("Naufragio", unica apparizione della chitarra elettrica). Ma non sara’ verosimilmente questa la prosecuzione di un discorso musicale che, appianate alcune piccole irregolarita’, potrebbe portare davvero ad un prossimo capolavoro. 6/10 Alessio Gambaro Afterhours: Quello Che Non C'e` (Mescal, 2002) "Voglio vivere nel sole con il mio miglior vestito / Voglio vivere nel sole e godere all’infinito / Tanto non saro’ astronauta perche’ fluttuo nel tuo vuoto / Ma ho scoperto che e’ godendo che mi sento piu’ pulito". Da questa esplicita dichiarazione d’intenti, tratta dal singolo interlocutorio "La sinfonia dei topi", prendeva corpo ogni aspettativa di fans e cultori degli Afterhours riguardo alle sorprese che l’opera successiva avrebbe loro riservato. Dichiarazione in perfetta linea, peraltro, con la presa di coscienza di "Cose semplici e banali", memorabile chiusa del penultimo album in studio "Non e’ per sempre": "Se fossimo noi / Ad esser sbagliati / Se fossimo noi / Pazzi e malati / Hai coraggio o no? […] Cose semplici e banali / Per riconciliarmi / Con gli anni sprecati / E dentro ci sei tu". Alla luce di tutto questo, "Quello che non c’e’" si rivela fin dal primo ascolto spiazzante a meta’. L’atteso cambiamento, ennesimo nel percorso del gruppo, e’ inequivocabilmente avvenuto: da un punto di vista stilistico, una netta frattura (complice la dipartita di un chitarrista di peso incalcolabile come Xavier) separa le sonorita’ e le idee dell’abum da quelle dei precedenti. I particolari insoliti, inaspettati, sono invece la crudezza dei contenuti, la disperata drammaticita’ dei toni, le tinte fosche che colorano le nuove canzoni di un’accattivante quanto tragica opacita’. Nessun sole e nessun miglior vestito, quindi, a dispetto di quanto si era detto. Nulla di semplice e nulla di banale. E soprattutto, niente di tutto quello che ci si aspettava, niente di quello che ci era stato promesso, niente di quello per cui si e’ spesa una vita alla quale, improvvisamente, si avverte come un senso di vertigine la consapevolezza grottesca e crudele di dover affibbiare aggettivi terribili come "vana" o "illusa". Ecco a voi "Quello che non c’e’", disco concettualmente incentrato "sul disorientamento" e sulla "mancanza di punti di riferimento", temi ricorrenti in tutto l’abum e particolarmente messi a fuoco in alcune specifiche immagini (dall’alba sedicente del brano di apertura all’ufficiale dei soldatini che in "Ritorno a casa" aspetta invano l’ordine di attacco). Ed ecco i nove affascinanti episodi in cui il discorso di Manuel e soci si articola. Va detto innanzitutto che si tratta di un lavoro estremamente omogeno, forse il piu’ omogeneo inciso dalla band che, deponendo la feroce ironia del passato e rinunciando ad ogni inflessione hard (quando "Germi" era sostanzialmente una brillante prova post-grunge e post-punk, e "Hai paura del buio?" sfoderava piu’ volte una strepitosa brutalita’ hardcore), i quattro musicisti si concentrano ora su un’opera di destrutturazione e dilatazione della tradizionale forma canzone. Forma sempre presente, in realta’, specie nel piglio melodico che, nel suo efficace lirismo, conserva un certo simulacro di classicita’, quasi di cantautorato, pur con l’immancabile originalita’ del caso. E’ cosi’ che l’approccio tendente alla ballata folk della title-track e’ progressivamente sbucciato da un lavoro di cesello sonoro sperimentalista per poi venir risucchiato da un bizzarro finale, un po’ morriconiano e un po’ futurista, in progressiva accelerazione; allo stesso modo, in "Bungee Jumping" il sussurro vellutato delle strofe, carico di tensione soffusa, precipita in un delirio gravitazionale di distorsioni, effetti e sprazzi di epilessi ritmica. "Bye Bye Bombay" e’ una colorita e un po’ morbosa marcetta espressionista che il frontman dedica all’India, recentemente visitata, e al compagno di viaggio Emidio Clementi, leader dei Massimo Volume; lo stesso Clementi e’ poi omaggiato nel testo parlato dolceamaro di "Ritorno a casa", mentre ancora l’India e’ fonte di ispirazione per il raga allucinogeno di "Varanasi Baby". Il primo singolo "Sulle labbra" e "Non sono immaginario" sono invece i momenti piu’ rock e probabilmente anche piu’ tradizionali. Leggermente sottotono i due pezzi rimanenti: "La gente sta male", nonostante le impreviste impennate del ritornello, suona come un calibrato incrocio fra "Baby fiducia" e la b-side "Televisione", insistendo su una proposta che, se per altri cento gruppi avrebbe fatto gridare al capolavoro, per i nostri e’ pura routine; "Il mio rulo" punta invece su un pop colto dai riverberi psichedelici, vagamente a’ la Mercury Rev, ammaliante ma un tantino autocompiaciuto. Questo, e non solo, in uno dei dischi fondamentali del 2002 musicale italiano. Sulle prime verrebbe da dire che suona poco Afterhours, ma quanto sarebbe appropriato nel caso di una band che non ha mai smesso di cambiare le carte in tavola, di evolversi, di mettersi in discussione neppure all’interno di uno stesso album? In questo senso, "Quello che non c’e’" e’ al contrario il trionfo degli Afterhours (ma non la consacrazione definitiva, che ormai e’ acqua passata). Piuttosto, mi sembra piu’ corretto affermare che in questo disco mancano capolavori veri e propri, cosa a cui Manuel ci aveva generosamente abituati. In altre parole, mancano pezzi all’altezza di "Dentro Marylin" (per quanto molti si affretteranno a inventare paragoni poco appropriati con la title-track), di "Rapace", di "Punto G" ma anche di indimenticati gioiellini di piu’ ardita sperimentazione quali "Milano circonvallazione esterna" o "L’inutilita’ della puntualita’". Al loro posto, solo ottime canzoni e, piu’ o meno, mi sento di poter estendere l’etichetta a tutti e nove i brani senza correre il rischio di esagerare. Come si dice, scusate se e’ poco. 7/10 Alessio Gambaro Cristiano De Andre`: Scaramante (Target, 2001) Per lungo tempo oscurato dall’"ingombrante" presenza paterna e, al tempo stesso, indotto a forza verso paragoni impegnativi, Cristiano De Andre’ non e’ il classico cocco immanicato che ha sfruttato il successo di papa’ per catturare attenzioni immeritate: al contrario, il suo carattere schivo e onesto lo hanno portato, da sempre, ad accettare con serenita’ il fatto di avere sotto lo stesso tetto un cantautore italiano di talento ancora ineguagliato e ad intraprendere una carriera propria con professionalita’ e abnegazione. Adesso che Fabrizio rimane, purtroppo, un ricordo sfavillante per molte, moltissime persone, e la passione per i suoi capolavori e’, se possibile, ancora piu’ accesa, la figura del figlio involontariamente si e’ avvicinata un tantino ai riflettori e cosi’ "Scaramante", primo album dell’artista dopo il grande lutto e quinto della sua discografia, ha goduto di inusuali aspettative. Analizziamo dunque quanto esse siano state soddisfatte e perche’, cominciando dai pregi. Come appare evidente sin dal primo pezzo, la cura impiegata in fase di registrazione e’ davvero lodevole: l’autore, strumentista sopraffino, ha scelto con gusto l’equipe di musicisti con cui affrontare la sua nuova fatica e ha diretto i giochi con una maestria degna dei compositori piu’ maturi. In questo senso, gli accompagnamenti non scendono mai sotto un certo livello, l’interazione fra strumenti di diversa estrazione (una dozzina) e’ orchestrata con classe e pure il cantato vanta una limpidezza d’esecuzione da far invidia a molti colleghi. Il limite principale intacca, invece, le idee che animano i dieci brani del disco: Cristiano ha scritto ogni canzone sulla falsariga di modelli tradizionali ben precisi, preoccupandosi piu’ di riproporli in veste elegante piuttosto che di rielaborarli nel senso autentico del termine. Il rischio, in casi come questi, e’ scivolare nella modestia di un manierismo poco interessante, difetto in cui "Scaramante" cade per ben tre volte: "Sapevo il credo" riecheggia i ricordi infantili di New Trolls, Baglioni e Cugini di campagna prendendo a prestito immagini di nessuna modernità; "Fragile scusa", con i roboanti incisi di chitarra elettrica e, insieme, i sontuosi spalleggiamenti d’archi, tradisce la precisa volonta’ di vivacizzare uno sbiadito mosaico di luoghi comuni (il ritornello e’ senza mezzi termini una banalità); "Le quaranta carte" frammischia liberamente Venditti, Alex Britti e il Ligabue di dieci anni fa senza troppo estro. Quel che bisogna rilevare tuttavia e’ che, nelle mani di un artista cosi’ capace ed equilibrato, anche il piu’ noioso degli stereotipi suona piu’ pregevole di quanto non lo sia strutturalmente. Benche’ quindi non si tratti quasi mai di originalita’ e men che meno di innovazione, quel che importa e’ che, dove De Andre’ junior riesce a liberarsi del fardello della tradizione piu’ facile e scontata, la sua personalita’ e le sue doti emergono incontestabilmente: tra le cose migliori, i riverberi latineggianti della esperta chitarra solista di "Buona speranza" (suonata da un bravissimo Rocco Zifarelli), la delicatezza dei frequenti inserti di world music (che in "Un’antica canzone" si fanno intriganti effusioni di un’atavica memoria, sposandosi efficacemente con il lieve cantato rauco), le tenere dediche a papa’ Fabrizio ("Il silenzio e la luce", ottima chiusa giocata unicamente su un accompagnamento di pianoforte, e "Sempre Ana’", che mutua da "Creuza de ma" la ripresa del dialetto genovese e la presenza del grande Mauro Pagani). Dal punto di vista tematico, infine, l’album alterna i pungenti pamphlet sociali di tradizione familiare (su tutti "Lady barcollando", immagine della "vittoria dell’avere sull’essere") alle riflessioni biografiche di un quarantenne, garbati nella scrittura quanto privi di passi memorabili. Concludendo, se questo doveva essere il disco della maturita’ accogliamolo con decisa approvazione, tenendo presente, d’altro canto, che in un futuro prossimo il bravo Cristiano potrà senz’altro raggiungere traguardi più ambiziosi. 6/10 Alessio Gambaro P.F.M.: Serendipity (S4, 2000) "Gentile pubblico, stasera siamo qua per un'ottima ragione…". E di ottime ragioni, a ben vedere, ce ne sono almeno due: la prima e’ che i P.F.M. sono tornati, la seconda che da questa prima traccia, "La rivoluzione", si direbbero proprio in forma smagliante. Certo che pero’ suona strano, dai loro strumenti, un simile alternative-rock con cadenze spiccatamente crossover e un entusiasmo da adolescenti in trip… Ma i P.F.M. non erano quelli di "Impressioni di settembre", del progressive anni '70, dei concerti oltreoceano e con De Andre’, quelli che tennero alta la bandiera della musica italiana sotto lo strapotere anglofono? Sembrerebbero piuttosto, che so, dei Magazzini della Comunicazione al meglio delle loro performance o dei Subsonica insolitamente maturi. E invece no, sono proprio loro. Parte il secondo pezzo, "K.N.A.", e la storia non cambia: sperimentazione frizzante, ottima melodia, architettura impeccabile. Ma bravi i nostri attempati rockers, a ritrovare se stessi (tra l'altro dopo una prova poco convincente come l'ultimo "Ulisse") in un sound che li ringiovanisce di trent'anni. Unico problema: siamo ancora al brano numero due, e quella in cui ci siamo imbattuti e’ soltanto una delle due anime dell'album. Perche’ se avessero insistito su qualcosa di nuovo, stazionando sugli standard delle canzoni finora citate (come di almeno altre quattro), i P.F.M. ci avrebbero regalato un lavoro davvero efficace, oltre che una brillante prova di modernita’. E invece ecco qua e la’ ricordi nostalgici, citazioni scontate della tradizione cantautorale italiana, elucubrazioni pesanti e, spesso, neanche troppo interessanti. Non fraintendiamo: Mussida e soci sono dei musicisti sopraffini e di grande esperienza, che ben sanno come si scrive un pezzo e mai si concedono autentiche cadute. Diciamo allora che una convincente lettura di Serendipity potrebbe essere questa: dove il lavoro di rielaborazione si ferma a meta’, mantenendo come punto di riferimento uno schema piu’ classico, abbiamo episodi non brillanti e tendenti al manierismo (su tutti "Ore", probabilmente il momento più scontato del disco, e la noiosa "Polvere"); al contrario, dove si gioca a fare gli underground italiani di fine millennio osando e mettendosi in discussione, si hanno il più delle volte risultati davvero pregevoli, vedi la futurista "Domo dozo" (scritta con la collaborazione di Fernanda Pivano), la spiazzante "Automaticamente" (che la dice lunga su come dovrebbe essere, e non e’ quasi mai, una dignitosa canzone disco-pop), la pungente "Sono un dio" ma, soprattutto, i due brani d'apertura. Non mancano, comunque, canzoni valide anche sul versante piu’ tradizionale, come "L'immenso campo insensato" che si colloca fra le cose più riuscite dell'album. Una menzione speciale infine per "Nuvole nere" (che accanto a quella dei nostri porta la firma di Battiato per le liriche), indecisa tra le due tendenze indicate e tormentata da un eccentrico assolo che potrebbe ricordare certe sonorita’ del moderno progressive-metal: cio’ che ne esce è un assemblato barocco senza troppa verve ne’ identita’. 6/10 Alessio Gambaro Vasco Rossi: Stupido Hotel (Emi, 2001) Non soddisfatto di essere assurto ad icona del rock italiano anni '80, il Blasco ha tenuto duro per tutto il decennio seguente e oltre: "Stupido hotel" si presenta infatti come il suo personale benvenuto artistico al nuovo millennio. Queste poche righe apparentemente celebrative nascondono in realta’ le ragioni di un processo degenerativo che assume sempre piu’ le proporzioni del fallimento. A dare ascolto a certi indici cosi’ non sembrerebbe: dal trionfo del cantate alla passata esibizione di Imola fino a quello, più recente, degli Italian Awards, in cui, fra gli altri riconoscimenti tributati al signor Rossi, uno ha insignito proprio questo "Stupido hotel" della palma di miglior album stagionale. Ah questi critici, sempre controcorrente rispetto alle opinioni comuni! Se si tenesse presente tuttavia che ad Imola la stessa folla che ha acclamato il popolare cantante ha preso a bottigliate Stereophonics e Marlene Kuntz (sillogisticamente, ci sentiamo di affermare quindi che il pubblico di Vasco e’ un po’ carente in fatto di sensibilita’ musicale e civile), e gli Awards nazionali sono i parenti di quelli europei, che hanno decretato i Limp Bizkit la migliore band del pianeta, allora forse questi stessi critici che bocciano dischi come "Stupido hotel" verrebbero ascoltati con un po’ piu’ di fiducia. E dire che Vasco e’ un artista di levatura indubbia: il suo carisma e la sua schiettezza, unite ad interpretazioni travolgenti sul palcoscenico, furono un pugno nello stomaco al perbenismo bigotto e alle falsita’ dell’Italia succube, di riflesso, del vuoto edonismo a stelle e strisce. Il problema principale di "Stupido hotel" e’ che quei tempi sono passati, le parole e le musiche sono rimaste le stesse e suonano attuali quanto una polka. Anzi, se ascoltare una polka puo’ farci sorridere, sentire certe cose da quasi un senso di fastidio: in primis, quell’anti-retorica arrogante (e machista nei casi peggiori) che e’ alla base delle nove dediche (sui dieci brani della track-list) rivolte a personaggi femminili. Il Blasco non ha perso il vizio di sbraitare in faccia alle sue povere interlocutrici (che peraltro mai possono difendersi) le sue insopportabili prediche che spacciano per sagge introspezioni psicologiche grasse banalita’ da pub di periferia: se una volta poteva dirsi linguaggio diretto, ed avere anche una sua efficacia, ora e’ solo vuoto atteggiarsi senza alcuna ispirazione. Fosse solo questo si potrebbe anche chiudere un occhio e, invece, anche sul fronte musicale le notizie non sono buone. Da artista tout court com’e’, il cantautore sa bene quanto nel 2001 riproporre certi stereotipi non sia sinonimo di grandezza, e già "Canzoni per me" mostrava chiaramente uno sforzo sotteso di arricchire il repertorio. Se tuttavia quell’esperimento, affidato ad una semplicita’ per nulla pretenziosa, diventava quasi una piccola raccolta di operette piacevoli, apprezzabile per quanto mai sopra le righe, "Stupido hotel" e’ un fallimento totale da un punto di vista innovativo. "Io ti accontento" prova ad inserire un tipico "call-and-response" rap (prestano le voci Black Diamond e Monyka Johnigan, trovandosi assolutamente a proprio agio con le cafonate cantate in tutto il resto dell’album) nel contesto di un bullo hard rock stradaiolo chiaramente anni ’80 distratto da gorgheggi new wave e momenti di furia quasi punk. Eppure il risultato convince fino ad un certo punto, rimanendo in bilico tra una vivacita’ che manca a molti altri pezzi e un pasticcio apocalittico. Ci sono pure tracce di spicciola pseudo-house tra l’industrial e l’elettronica ("Ti prendo e ti porto via", fortunatamente migliore dell’inqualificabile remix da discoteca commerciale) con un’intro rubato ad qualsiasi gruppo new romantic, ma e’ solo il background per un compromesso di facile presa tra l’ironia di delusa e la volgarità di Rewind, ammiccante, tra l’altro, alla pop-dance catchy e di pessimo gusto degli ultimi 883; a chiudere i giochi, c’e’ poi un tentativo (invero piuttosto puerile) di world music sorretto da una sezione ritmica coi fiocchi, brano che altrove potrebbe fare da gustoso divertissment e invece, nella mediocrita’ generale, finisce per perdere completamente di senso. I casi sono due: o il nostro autore non nutre molta fiducia nella cultura musicale dell’italiano medio (e, d’altronde, non avrebbe neanche tutti i torti, classifiche alla mano) o non ha la minima idea di cosa voglia dire innovare nel vocabolario del rock edizione 2001. Anche perche’ finora si e’ parlato di pezzi che, a confronto di quel che resta, sono folli sperimentazioni: canzoni come "Stendimi’ o "Quel vestito semplice" sarebbero suonate antiquate gia’ quindici anni fa, con il loro metal paninaro che prende in prestito spunti elettronici da una parte e accenni dance dall’altra ma non riesce mai a distinguersi dai peggiori vizi sonori ancora una volta -superfluo aggiungerlo- di inconfondibile matrice anni ’80. Ne’ innovare significa autocitarsi, come fanno ad esempio il singolo "Siamo soli" (per molti versi furbesca riproposizione di "Io no...") che gioca senza troppa cura sulla giustapposizione di toni e sonorita’ (cadenza scarna e solenne delle strofe, rock elettrico urlato e carvenoso, assoli accennati come scariche adrenaliniche, attimi di respiro classicheggiante) e la title-track che le va dietro, assieme a "Tu vuoi da me qualcosa", senza la stessa ispirazione. Infine, il fondo del fondo: "Perchè non piangi per me" e "Standing ovation", episodi in cui al brio dei comuni ritornelli si sostituisce una trivialità da stadio in cui Vasco, spesso invogliato a lasciarsi andare a questo genere di cose, sprofonda questa volta senza alcun contegno (poco male: piaceranno senz'altro ai fans). Riassumendo, acqua da tutte le parti: ci mette una pezza l’entourage di musicisti, valido ed energico come sempre. Ma "Stupido hotel" rimane, purtroppo, un brutto disco in tutti i sensi. 4/10 Alessio Gambaro Monkey Buzzness: Mustango (Freakshow Records/White & Black, 2002) Il disco piu` eccitante, sudicio, lercio e sanguigno che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. Un disco che trasuda rock'n'roll, di quello piu` vero e incompromissorio, da ogni suo poro. Sto parlando dell'album di debutto dei Monkey Buzzness, terzetto proveniente dalla nostra Motor City, di sole chitarre, voce e batteria, in perfetto Cramps-style. Il disco e` uscito su Freakshow Records, lodevole etichetta nostrana gia` segnalatasi per le produzioni di Mirsie, Sonic Assassin e Hydromatics, e vanta la supervisione di un'autentica leggenda dell'underground rock, quel Tim Kerr che, oltre ad essere un noto produttore, milita in bands come Lord High Fixers e Monkeywrench. Anche questa volta la Freakshow centra il bersaglio, con un disco destinato a diventare un classico dell'underground rock italiano e con le carte in regola per affermarsi a livello internazionale. La musica che esce dai solchi di questo magnifico album presenta nel proprio patrimonio genetico tracce indelebili della migliore musica americana del passato piu` prossimo e remoto: Cramps, Gun Club, Velvet Underground, Cheater Slicks, Jon Spencer sono solo alcuni dei nomi che vengono in mente ascoltando le dieci tracce di Mustango, una miscela depravata e ubriaca di rock'n'roll in splendida veste lo-fi, punk "minimale', garage e disturbata psichedelia. Il brano di apertura, Future against mathematics, e` un intro surf strumentale ad alta gradazione psichedelica. Monkey Bastard, insieme a Mustango, e` il manifesto sonoro dell'album: rock'n'roll ubriaco, devoto alla lezione di meravigliosi "losers' come i Cheater Slicks. Your black love e` un pezzo garage, disturbato dagli intrecci psichedelici delle chitarre. The preacher e` un magistrale pezzo stomp/blues'n'roll: puro garage- sound, da mandare a memoria. I got something to do e` divertimento rock'n'roll. Mustango e` il capolavoro dell'album: uno psych-blues lento e ipnotico, con splendidi intarsi vocali e devastanti esplosioni chitarristiche. Cat house voodoo e` un altro garage/blues'n'roll dal groove erotico-sensuale alla Jon Spencer. Dopo l'altro strumentale surf di Giordano Bruno, l'album si chiude con la splendida velvettiana Sea of love e il fifties-rock'n'roll di Monkey Style. 6.5/10 Gabriele Barone
| Franco Battiato: Clic (1974) A quanti credano che la storia della musica italiana sia stata scritta solo da cantautori con la chitarra o da simpatici gruppi imitanti le sonorita` in voga all'estero, l'ascolto di questo "pseudo-incomprensibile" album potrebbe dar modo di allargare i propri orizzonti. Battiato, che all'eta` di 34 anni (1979) decise di divenire cantautore, si era dedicato negli anni 70' alla musica sperimentale, in forma particolarmente radicale. Introduttore dell'elettronica nel "bel paese" con il suo primo (a detta dei piu` "fuori di testa") album "Fetus" (1972), il musicista siciliano raggiunge il culmine della sua "chiusura musicale anticonvenzionale" con questo quarto album, "Clic" (1974), dedicato al maestro ed ispiratore, oltre che all'epoca intimo amico, Karlheinz Stockhausen (un nome che dice abbastanza). Si tratta di certo del Battiato piu` oscuro ed impressionante del periodo d'avanguardia anni 70': un'originale ma particolarmente misterioso insieme di brevi composizioni quasi tutte strumentali, sospese fra un'inafferrabile sperimentazione personale e la nascente pratica della campionatura, che Battiato riprende soprattutto dagli esperimenti sonori del minimalista John Cage, uno dei suoi piu` grandi musicisti ispiratori, almeno limitatamente a quel periodo della sua impressionante carriera. Si parte con il pezzo "I Cancelli della Memoria": un'avvio di suoni apparentemente celesti, che diventano presto sottofondo a brevi e tetri attacchi di sax, di piano, di basso e di percussioni; il tutto genera un'atmosfera surreale, arricchita dai vari effetti elettronici. Rumori, vibrazioni metalliche e lievi accenni di VCS3 introducono "No u turn", unico brano che pu• dirsi, almeno in parte, cantato; si tratta in verita` di un pezzo creato dall'incatenamento fra una parte incisa al contrario ed una normale, con la prima che sembra far da introduzione alla seconda; alla rovescia, come a non volersi far capire, Battiato canta la falsa morale che colpisce i maniaci sessuali e l'abuso del potere da parte dei politici; nell'altra vi sono due brevi ma incomprensibili strofe dal carattere intimistico e filosofico. La suggestione musicale creata dai primi due pezzi ha un seguito nel terzo "Il Mercato degli Dei", fondamentalmente suonato al pianoforte. Poi Battiato si lancia nella pura sperimentazione. "Rien ne va plus: andante" e` un'ottimo esempio di campionatura, giacch‚ insieme piu` o meno melodioso di rumori, voci e brevi "frammenti musicali" cuciti insieme. "Propiedad Prohibida", con le sue progressioni di sintetizzatori (ma non solo) e` l'unico pezzo che pu• a buon diritto esser considerato del tutto elettronico. Segue poi il tenebrosissimo "Nel Cantiere di un'Infanzia", con profondi e spaventosi suoni da brivido (mi si perdoni se non so trovare un'espressione piu` adeguata) e impressionanti voci di bambini, che si perdono in un finale di tipo quasi "etnico". La tecnica della campionatura torna nel pezzo di chiusura "Ethika fon Ethica", riproducente l'effetto di una radio in cerca di stazioni che, fermandosi continuamente, ci regala sprazzi di lontani tempi che sembrano dimenticati. Un disco nel complesso poco comprensibile anche ai piu` avvezzi agli esperimenti di applicazione dell'elettronica alla musica intellettuale, un disco volutamente "non-orecchiabile", assolutamente avanguardista. Consigliato a ben pochi. VOTO :6,5 Ruoppolo Domenico C.S.I.: Ko' de Mondo I C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti) sono la creatura di Giovanni Lindo Ferretti, ex-leader dei C.C.C.P., band che col loro punk irriverente e politicizzato imperverso' nei tardi anni '70. Accompagnato da straordinari musicisti ininzia un percorso di sperimentazione sonora e poetica forse unica nel suo genere in Italia, fondendo stili e sonorita' provenienti da vari continenti e proponendo un alchimia sofisticata e raffinata. Il loro primo disco e' la ricerca di una direzione compiuta in questo marasma di idee e cosi' si agita tra varie tendenze e continui ammiccamenti. Si inizia con "A tratti", mantra ossessivo scosso da una batteria mon•tona e immerso in una atmosfera psichedelcia creata dalle chitarre in sottofondo, mentre le voce quasi monot•na di Giovanni Lindo si libra e viene a diventare un ulteriore strumento del complesso. Altra cosa la seguente "Palpitazione tenue", funk disidratato e scarnificato mentre a conti fatti il il singolo "Del mondo" appare forse come il pezzo piu' lineare, con Giovanni che accenna finalmente un tentativo di canto, rispetto all tonsilla quasi monocorde sfoggiata in tutto il disco. Influocano le chitarre in "Home Sweet Home" e in "Celluloide" (sempre con grande compostezza e calibrazione), ma lo spettro di stili che sperimentano e' davvero ampio: dai dolci e millenari paesaggi asiatici di "Intimisto" alla tradizione popolar-mediterranea di "Occidente", fino alla onirica e eterea "Memoria di una testa tagliata", dove si ritrova l'utilizzo di due voci parallele ma a toni diverse. A svegliarci dalla sensazione di stasi e dormiveglia che quest'ultima provoca arriva la elettrica "Finistere", incendio gotico che anticipa le sonorita' del seguente disco. La costante in tutti i brani e' la catarsi: la ricerca di una purificazione e di una liberazione attraverso la poesia dei testi e degli strumenti che si impongono per perfezione e ricercatezza sonora, come fantasia calibrata da dura e dogmatica scuola e dai forti richiami orientali (balcani e asia soprattutto). Merita una parola di rigurado la voce del cantante, certamente abbastanza "statica" ma unica, potente e preponderante, si fonde con la musica, la guida creando un effetto tipo "ohm" che tutto avvolge ed esalte. I C.S.I. sono un riuscitissimo esperimento che puo' essere riassunto in una sola parola: talento. Voto: 7 Fabio Tonti C.S.I.: Linea Gotica Uscito durante il periodo della guerra nei balcani, il disco apre con una aperto riferimento a quegli avvenimenti. "Cupe Vampe" e' una maestosa composizione, emozionante ed elettrica dove tutto e' propedeutico a sollevare un pathos, un'ira viscerale e vulcanica. Ma laddove questo primo brano insorge ed infiamma, il resto del disco galleggia in un limbo emozionale sottile e piatto, increspato qua e la' da brevi sfoghi di orgoglio. Cosi' in "Sogni e Sintomi", dove e' un basso cardiopatico a reggere tutta la struttura, o nella cover di Battiato "E ti vengo a cercare", sommessa e delicata. Il titolo del disco puo' trarre in inganno: come l'architettura gotica qui la musica dei C.S.I. e' protesa verso l'alto, ma la contrario di essa non e' vistosa ed elaborata, bensi' rinchiusa in se' stessa, minimale e illusa di poter toccare corde intestine con pochi accennati accordi azzecati, con partiture che hanno piu' della monotonia che non del talento espresso nel primo disco. Emoziona solo se siamo noi ad autoconvincerci e a permetterglielo, come nella tediosa "Esco" e nella ostentata sofisticita' di "Millenni", in realta' totale mancanza di idee. Fortunatamente si intravedono ancora sprazzi di idee convincenti come in "Blu": dove gli strumenti cercano di agitarsi riescono a convincere, altrimenti si afflosciano su loro stessi senza il minimo orgoglio. Gotico disco nel senso evocativo della parola semmai: monasteri di clausura, musica di confine tra sacro ed eresia, immensi spazi immobili privi di rotte di comunicazione, senso di asfissia contrastato solo da una febbricitante fantasia: si viaggia con la mente ("Linea Gotica") e si attendono nove minuti per qualche emozione ("L'ora delle tentazioni") che fatica a venire. Il gruppo annaspa cosi' verso la fine del disco perdendosi in re-iterati cori e moscie distorsioni ("Io e Tancredi") fino a tuffarsi nell'ultima "Irata", che dovrebbe risollevare un po' il morale del disco ma in realta' ne acuisce il senso di deprimente trascuratezza e monotonia: un disco di riempitivi che potra' pure piacere ai fans, sempre alla ricerca del lumicino nel buio totale, ma che si salva solo grazie alla, quella si', stupenda prima canzone e a pochissimo altro Voto: 5.5 Fabio Tonti La Crus: La Crus Primo disco di questa promettente band, La Crus e' immerso in atmosfere decadenti e rarefatte ma pulsanti di intimita' come una vita che resiste alla morte. La loro musica e' fusione di elettronica campionata, jazz da osteria e cantautoriato e ciascuna di queste tre componenti affiora con piu' o meno forza rispetto alle altre in questa o quella canzone. "Natura morta", per esempio, mi fa pensare al trip-hop dei Portishead mentre "il vino" - forse il brano migliore del disco - e' composto con spazzolate di batteria, tono vocale triste e depresso, tromba che accompagna la voce disperate di Giovanardi e mi evoca l'immagine di una bettola abusiva di comunisti che ballano ubriachi e incoscienti mentre di fuori le ronde fasciste scorazzano per il paesotto. In "Notti bianche" invece emerge la componente jazz: contrabbasso sincopato, alieni rumori in sottofondo e voce cupa. Lo stile e' dimesso ma penetrante, triste, malinconico fino alla depressione cronica ma fortemente vivo, favorito dai testi introspettivi del cantante e di Cremonesi. "Angela" evoca vagamente certe nenie dei Black Heart Procession: vista senza speranza e tutto il resto. A dispetto di quello che sembrano dire le orecchie si tratta in prevalenza di musica elettronica, composta con tastiere e campionatori ma realizzata in maniera da sembrare analogica e infatti risulta calda e leggera, aiutata in questo senso dalla tromba che eterea vola qua e la' sopra le note e da qualche occasionale strumento. Dopo un inizio altisonante il resto del disco prosegue in maniera un po' discontinua alternando buone idee ed altre meno convincenti ma in definitiva rimane un esperimento ben riuscito di fusione di generi diversi. Voto: 6.5 Fabio Tonti Mirsie: Aliens In A Bra (Freakshow, 2001) Hanno realizzato un esordio col botto, i Mirsie, gruppo della provincia di Cuneo. Licenziato dalla Freakshow Records, neonata etichetta italiana di rock'n'roll, e affidato alla produzione di David Lenci, il primo album dei Mirsie e` una vera e propria bomba, un misto esplosivo della migliore musica americana degli ultimi trent'anni: un incrocio tra il punk-noise-blues del primo Jon Spencer (B/M, Enter Jon, Nation code, Song for a), la forza primigenia e selvaggia degli Stooges, il rock'n'roll primitivo di Chuck Berry (I came from the future), la malata attitudine dei Chrome Cranks (di cui i nostri fanno pure una cover ultra-lo-fi di Hot Blonde Cocktail). Impressionante e` la carica eversiva dei loro pezzi: si rimane sbalorditi di fronte al frenetico assalto garage-punk di Ash, al torrido punk-blues di Nation code e Song for a o al poderoso garage-psych di Magic fire. Si riprende il fiato con Fetish girl, una ballad dal vago sapore psychedelico e con Space, dove affiorano le cupe perversioni e ossessioni dei Velvet Underground. Letteralmente devastanti sono la voce al vetriolo di Lu, la ritmica deragliante e il suono di una chitarra, meravigliosamente bluesy, che costituisce il marchio di fabbrica del suono Mirsie. Insieme al nuovo Cut, quello dei Mirsie si candida, senz'alcun dubbio, a disco italiano rock dell'anno. Voto: 7 Gabriele Barone Carmen Consoli: "Mediamente isterica" 1998 Cyclope records "Mediamente isterica" sara` probabilmente l'ultimo album rock di Carmen Consoli,forse il piu` bello,sicuramente il punto di approdo di un gia` lungo percorso artistico.Essendo ormai finita la "rabbia giovanile",nulla presume infatti che la Cantantessa riuscira` a tornare su queste atmosfere ruvide e dolci,essendo ormai per lei altre le priorita` e gli stati d'animo.Comunque,"Mediamente isterica" contiene 13 canzoni memorabili,piene di passionalita` e malinconia,distorsioni e reverberi.I testi per lo piu` sono tristi,e si accordano perfettamente alle atmosfere create dalle chitarre e dal basso.Da una parte "Geisha" (chitarre cupe e voce distorta)e dall'altra "Anello mancante" (intessuta da un delicato arpeggio) sono i due estremi dell'album,peraltro alquanto striminzito (dura meno di 50 min.)In "Contessa miseria",Carmen descrive un'ipotetica signora (e al tempo stesso la esorcizza)che,avendo ormai perso la giovinezza,non riesce a farsene una ragione,e rimane "....con la mente ibernata ai vent'anni".L'album si chiude con un finale di chitarre distorte e rumori,degna conclusione di un disco poetico.Voto 7/10. Luca Di Meco Marlene Kuntz: Che cosa vedi (Sonica, 2000) "Che cosa vedi" e` il primo album dei Marlene Kuntz ad essere distribuito da una major (la Virgin).Questo fatto,insieme alla maggiore levigatezza del loro sound,ha procurato loro l'accusa di venduti.Innanzitutto,l'etichetta di riferimento del gruppo rimane sempre l'indipendente Sonica Factory,in secondo luogo l'accusa di aver prodotto un album troppo commerciale non ha senso,poiche` i quattro ragazzi di Cuneo hanno ormai superato la trentina abbondantemente,e non si pu• piu` pretendere da loro la stessa rabbia e ruvidezza dei primi dischi.Detto questo,devo per• sottlineare le sbavature commesse dai Marlene in questo album:su tutte svetta il duetto con Skin,in "La canzone che scrivo per te",inutile e inconcludente a livello musicale;non arrivo pero` a credere,come fanno alcuni,che la cantante sia stata addiriturra impostagli dalla Virgin (che e` la stessa etichetta di Skin).Anche l'uso per la prima volta delle tastiere ha fatto storcere il naso ai fans piu` intransigenti:devo pero` dire che nella maggior parte delle canzoni se ne e` fatto un uso limitato,riuscendo cosi` a risultare alla fine gradevole all'ascolto.Non e` cosi` per l'ultima traccia,"Grazie",dove le chitarre sono soffocate dal pianoforte e dall'organo,oltre che da una massiccia quantita` di effetti,tanto da far risultare alla fine la canzone addirittura imbarazzante.Comunque,anche in quest'album sono presenti canzoni degne di essere ricordate,come ad esempio "L'abbraccio" e ,sopratutto,"Quasi 20001",in cui il basso di Dan Solo si scatena in un ritmo martellante e coinvolgente (da notare la citazione cinematografica presente nel testo della canzone "...quasi 2001,odissea nello strazio").Album di transizione,da avere solo se fan accaniti.Voto 5/10. Luca Di Meco Carmen Consoli: Stato di necessita` (Cyclone, 2000) "Stato di necessita`" e` il 4ř album di Carmen Consoli e rappresenta l'episodio piu` debole della sua discografia.O almeno il piu` spiazzante.Infatti in quest'album la Cantantessa abbandona i suoni duri per atmosfere piu` sobrie e delicate,come dimostra il massiccio uso di archi,trombe e pianoforte.Le chitarre vengono isolate in due o tre pezzi, che pero` sembrano piu` dei diversivi e nulla piu`."Stato di necessita`" potrebbe essere definito un concept album:la pulsione sessuale infatti la fa` da padrona nei testi,in cui Carmen dichiara il suo diritto ad essere "cacciatrice" al pari degli uomini,che sbeffeggia puntualmente ("Il sultano della kianca").La canzone migliore dell'album potrebbe essere "Bambina impertinente",in cui la Consoli suona il basso in maniera coinvolgente e sensuale,cantando un testo che non lascia troppo spazio alle interpretazioni;mentre "Non volermi male"(voce e pianoforte), e` quella che piu` si allontana dal precedente sound di Carmen.Insomma,ormai la Cantantessa e` riuscita a far avverare il suo sogno:quello cioe` di diventare una raffinata cantautrice,abbandonando le radici rock che dopotutto l'hanno portata al sucesso.Voto 5/10. Luca Di Meco C.S.I. "Tabula rasa elettrificata" (1997 Poligram Italia) I C.S.I (ex C.CC.P.) sono uno dei gruppi rock italiani piu` importanti di sempre.E "Tabula rasa elettrificata" e` uno dei loro capolavori,insieme a "Ca' Mondo",con cui ridefiniscono i confini del rock nostrano e non;forse il loro apice creativo,dopo una carriera lunga vent'anni.Basterebbe solo "Forma e sostanza" a farne un classico:una piccola "Smell like teen spirits",in cui il basso di Gianni Maroccolo e` sempre in evidenza,grazie ad un riff rombante e coinvolgente.Maroccolo e` ancora protagonista nel lungo finale psichedelico di "Ongii",insieme alla chitarra di Giorgio Canali:i due creano un delicato tappeto sonoro,un viaggio in cui riecheggiano sapori orientali,quasi mistici.L'album e` impreziosito inoltre dalla voce di Ginevra Di Marco,che aggiunge phatos alle canzoni.I testi di Giovanni Lindo Ferretti sono visionari e poetici piu` che mai.Un'ultima menzione per le tastiere di Francesco Magnelli,che contribuiscono a creare l'atmosfera adeguata in ogni pezzo."Forma e sostanza" e` l'album dei C.S.I. che ha avuto maggior successo commerciale:un'eccezione nel mare di medicrita` della musica italiana.Voto 8/10. Luca Di Meco Verdena "Verdena" (1999 Universal music Italia) I Verdena sono un gruppo di ventenni provenienti dal Nord Italia.Li compongono Roberta al basso,Luca alla batteria,Alberto alla chitarra e alla voce.Son arrivati al successo inaspettatamente con il singolo "Valvonauta", estratto dal loro primo album.Inaspettatamente?Bhe,la canzone in questione e` decisamente di facile presa,con un riff di chitarra che se non e` memorabile,quantomeno e` coinvolgente.L'intero album si snoda velocemente lungo i binari del pop/rock,con qualche barlume di psicheledia qua e la` ("Caramel pop").Il fatto e` che la loro principale fonte di ispirazione sono i Motorpsycho,e non i Nirvana,con cui comunque sono in forte debito.In quest'album vengono fuori di piu` i secondi a causa della produzione di Giorgio Canali (C.S.I.) che,anche a detta del gruppo,ha calcato la mano piu` del dovuto.Comunque,il vero spirito psichedelico del gruppo viene fuori dal vivo,forse la loro vera dimensione.A conti fatti,dalla loro parte i Verdena hanno un buon suono di chitarra e l'enorme batteria di Luca, usata a dovere;mentre i lati negativi sono la normalita` della voce di Alberto e la sua totale incapacita` di scrivere testi,un po` troppo impressionisti e naive.Se non si monteranno la testa,avranno tutto il tempo per crescere.Voto 5/10. Luca Di Meco Carmen Consoli "Confusa e felice" (1997 Cyclope Records-Poligram Italia) "Confusa e felice" e` il 2ř album di Carmen Consoli,il primo pero` ad averle dato un discreto successo,sopratutto grazie all'ononimo hit sanremese.In verita`,la Consoli e` l'unica cantautrice rock della scena italiana,almeno del mainstream nostrano;insieme forse a Cristina Dona`,a cui ultimamente si e` avvicinata in quanto a sonorita`,piu` morbide e rilassate.Comunque,"Confusa e felice" resta un album rock,crudo quanto basta,sia nei testi che nel suono di chitarra,i cui estremi sono rappresentati da una parte da "Per niente stanca" e "Fino all'ultimo",chitarre distorte,basso rombante e testi pieni di invettive (contro se` stessa o l'amante di turno),e dall'altra da "Confusa e felice" e "Venere",canzoncine dalla facile presa emotiva.Il resto dell'album viaggia su atmosfere intime e tristi (grazie al violoncello sullo sfondo),con in primo piano sempre il suono della chitarra e la voce,certo particolare e coinvolgente,come in "La bellezza delle cose", che rappresenta la migliore prova vocale dell'intero album.Dopo aver ascoltato "Confusa e felice",non si potra` piu` negare l'abilita` della Cantantessa nello scrivere canzoni e raccontare storie.Voto 6/10 Luca Di Meco Ego: Demo-CD Conosciuti durante il concerto degli Old Time Relijiun al Covo di Bologna, i marchigiani EGO mi hanno subito colpito per l'ottima performance dal vivo, caratterizzata da una grande energia e una notevole tecnica, completamente all'altezza per fare da spalla al devastante gruppo americano. Cosi' a fine concerto abbiamo parlato un po' e ci hanno regalato il loro demo, talmente bello che mi e' parso giusto dedicargli qualche riga. 10 brani in cui il trio (il bassista e' pure cantante) si sbizzarrisce a reinventare il suono degli Shellac. Travolgenti giri di basso e batteria che sostengono un ritmo martellante e cadenzato, mentre la chitarra e' libera di improvvisare distorti riff ed anche droni di marca "What burns never returns", come quello inconfondibile che apre il trezo brano. Ma rispetto alla band di "Octupus" hanno una fondamentale differenza: il non essere mai, come quelli, asettici e distaccati, bensi' completamente coinvolgenti ed energici, non incazzati neri e furiosi come Albini, ma convinti e maledettamente positivi, anche nei momenti di destrutturizzazione. Aprono il disco con umilta' apparente, giusto il tempo per allineare gli strumenti ed attaccare un bombardamento a tappeto: ritmo sincopato e altamente instabile che fa risaltare le elevate capacita' tecniche dei 3. Il seguente pezzo gode di una buona orecchiabilita' che maschera ma non nasconde la ottima fattura, a suo modo conciliazione di "1000 Hurts" e "4 Great Points". Il terzo brano, come gia' detto, vive sulle spalle dei tardi Don Caballero, con un drone metallico e asettico che fa da intro e pervade tutto, salvo evolversi in una fiammata elettrica nei momenti di divagazione. La traccia dopo attacca come se fosse tratta dall'album "Goat" e non e' un caso: influenze della band di Yow si avvertono pure nella sesta e nona canzone, e un po' ovunque negli improvvisi attacchi di chitarra e nelle accelerazioni ritmiche impresse a sorpresa qua e la'. Il loro suono e' profondamente blues, distorto, aritmico a tratti, condito con la migliore tradizione post, ma blues. Cattivo, istintivo, carico di elettricita' e tremendamente penetrante ma al contempo caldo e avvolgente. Il fatto che non abbiano trovato un'etichetta disposta a produrli la dice lunga sul devastato, stolto, cieco e retrogado panorama della produzione musicale in Italia. Voto: 6.5/10 Fabio Tonti Estra: Alterazioni (East-West, 1997) Puo' succedere che in un anno si venga a conoscenza di una certa band chiamata "Sonic Youth" e dopo essersene divorati 2-3 dischi si tenti di introdurre un po' del loro "sound" nella propria musica. E' quello che e' successo agli Estra, che se ne escono ringiovaniti e rinvigoriti, un po' piu' maturi e arrabbiatelli, dal loro incontro con i primi anni '90 americani. "Preghiera" e' immersa in distorsioni psichedeliche da "Washing Machine", "Miele" ha la eroicita' di "Ten", in "Nessuno" addirittura si distinguono propensioni Jesus Lizardiane. Una rivoluzione per loro, che pero' rimangono limitati dal non volersi mai staccare troppo dalle loro radici passate. Comunque ora sono godibilissimi e nonostante il basso livello da cui sono partiti hanno spiccato un bel salto. Riescono a rendere coinvolgenti le un po' scontate "Meta' di me" e "Aria minacciosa" con improvvisati scatti d'orgoglio e bei riff di stampo Pearl Jam, senza tantissimi lazzi e fronzoli e per questo piu' incisivi e convincenti. Sulla stessa linea "Puoi distruggere", solo un po' piu' lenta e pesante. Anche le ballate ora hanno quel tocco in piu' che le rende particolari, stranite come "Un varco". La ottava, "Risveglio", ha un certo vago stile Marlene Kuntz: fusione di rumorosita' e melodia, trasgressione dai soliti canoni e orecchiabilita'. Con il resto dell'album scadono purtroppo nell solita solfa: esaurite gia' le idee? Voto: 5/10 Fabio Tonti Estra: Metamorfosi (East-West, 1996) Capostipiti di un suono rock che viene dal Nord-Est, un po' folk americano, un po' cantautoriale, con la zavorra di forti attaccature rock'n roll e la pretesa di sognare e di poter dare una spintarella agli schemi da dentro. Tradizionale - addirittura con tratto gospel in "Passami da dentro" - e ingenuo, tanto ingenuo. Forse in questo sta la la sua qualita' da apprezzare: l'essere bianco, nitido, senza macchia, quasi scout. Un bambino innocente e diligente con la voglia di sfogarsi un po', abastanza scontato, malinconico ma con la testa sempre alta e solide radici. Da notare i testi tristi e depressi del cantante "Estremo" in "Intimo" e "Non canto", che accompagnano ballate strappalacrme non certamente all'altezza. Niente altro particolarmente degno di menzione. Dedicato agli amanti di Ligabue tristi e depressi. Voto: 4.5/10 Fabio Tonti Julie's Haircut: Fever in the funk house (Gammapop, 1999) "Cugini" dei Cut, come quelli i Julie's Haircut rievocano una certa tradizione '60-'70, essendo i primi un po' piu' "punk", decisamente piu' "roots" questi. Rock'n roll da manuale, eccellentemente eseguito, ricco di energia e voglia di ballare, popolare come la mazurca per i nostri nonni e il ballo del mattone per i nostri genitori. Partono con la veloce tripletta "Black T-Shirt", "Nuclear Core Blues" e "Too Much Love", perfette per scaldare il pubblico con riff elettrici prolungati, sostenuti da un basso rigorosamente al suo posto, batteria "rollante", stacchi ritmici e ripartenze decise. Senza nessun abbellimento superfluo ne' ombra di inutile virtuosismo, concesso solo alla fisarmonica nel secondo brano, sono travolgenti come lo puo' essere "Great balls of fire". Col quarto brano arriva lo stacco onirico e vagamente psichedelico di "Chip & Fish Brain", giusto una pausa per poi ripartire in quarta con "Everyone needs someone to fuck". Musica altamente infiammabile che probabilmente in tempi di Britney Spears e Hp-Hop generation non riesce piu' a coinvolgere ragazzini ribelli e sudati, ma gente un po' piu' cresciutella e con un minimo di passione e conoscenza musicale in piu'. Perfetti per un raduno stile "Animal House", sono dei paladini delle vecchie tradizioni, rievocano intense emozioni analogiche e come la memoria riescono a far rivivere piu' intensamente istanti che si credevano ormai perduti nell'oblio di un passato sempre ottimo per essere riesumanto e dissacrato dagli sciacalli delle mode revisioniste del mese, raramente ripreso e considerato nella sua integrita', nella sua essenza irresistibilmente e rivoluzionariamente popular. In tempi, i nostri, in cui tutto tende all'elitario, in cui si innalzano confini e steccati in tutti i campi, dall'arte alla giustizia all'economia alla politica, mi meraviglio di trovare in questo disco lo spitiro di un tempo e di una generazione che probabilmente non tornera' per un bel pezzo. Ostici, per me che sono poco abituato al genere, i primi ascolti. Coinvolgenti e decisamente entusiastici i seguenti, forse mi hanno contagiato e gia' non vedo l'ora di vederli dal vivo, dove i crescendo emozionali di "Love is Made for Two" e "My house is on fire" si mischieranno agli attacchi proto-punk di "Silence/Silence" ed alle composizioni piu' rock di "High-School Confidential". Funk, blues, i Clash, tutto mischiato in un pentolone e servito caldo caldo, musica senza pretese ne' protagonismi ma seriamente proposta da artisti preparati e consapevoli. Voto: 6.5/10 Fabio Tonti Karma: Astronotus (Jungle sound, 1996) Con un incredibile e inaspettato cambio di marcia i Karma si presentano al secondo appuntamento discografico presentando una mistura di rock acido, asettico e futuristico che lascia anni indietro i riferimenti grunge del precedente album. Si intuisce subito che c'e' qualcosa che non va gia' dalla iniziale "3o millennio": voce distorta da effetti che la rendono secca e aspra, innesti di sample elettronici, batteria prepotentemente alla ribalta, copiosi e serrati riff. Una strana mediazione tra Kyuss e Alice in Chains che si risolve in un qualcosa che riesce a prendere le distanze, a distinguersi da entrambi. Il loro suono ora e' pieno e realizzato, evoluto e reso unico e si modella in tante forme e colori: dalle aspre ballate di "Selezione naturale" e "Avorio" alle grintose e aliene "Jasailmer" e soprattutto "Atomi", agli accenni psichedelici di "E.X.P." e "Kali Yuga", alle sperimentazioni percussive di "Amazzonia". E' rock di marca main-stream che ha spezzato le sue catene, espresso in maniera davvero singolare e originale anche se rimane quello che e': strofa - ritornello - assolo/divagazione - ecc., almeno nella maggior parte dei brani. Ma il gruppo e' cresciuto e si sente chiaro e netto il salto di qualita', esaltato da una buona produzione, ben al di sopra della media rispetto a quella che possono permettersi normalmente band italiane poco conosciute. Tempi dispari in "Jasailmer", ritmo sostenuto e sincopato in "Kali Yuga", chitarre metalliche epiche forse anche in maniera esagerata in "Avorio". Si perdono un po' per strada verso la fine del disco scadendo un po' nella scontata "Come svanisse" e nella incompiuta "Sita Ram". Ma e' solo una finerstra posta tra la nausea di "Sangue bianco" e la struggente "Indivisibili". Il disco termina poi con i 19 minuti e mezzo della iperbolica "Astronotus", jam session psichedelica che fonde i tardi Pink Floyd, le ritmiche dei pezzi strumentali degli Alan Parsons Project e si proietta sulla coda della cometa Ozric Tentacles. Voto: 5 Fabio Tonti Milaus: Milaus (Cane Andaluso prod. - ediz. Mondopop) Giusto per inquadrarli subito, potrei definire questi Milaus come i Pavement italiani: indie-rock d'autore ma con sonorita' molto piu' europee, diciamo una riuscitissima mediazione tra la band di Malkmus e i belgi Deus. Si presentano con un bagaglio di ottime sonate rock, articolate composizioni in cui gli strumenti non spiccano certo per virtuosita' ma per una eccezionale coralita', trovando pure il tempo per inserire qualche nota di violino qua e la' o dei fiati in "Mr. Day". Sei brani ideali per accompagnare un grigio pomeriggio di pioggia, standosene chiusi in casa a sfogliare vecchi ricordi o a tirar fuori progetti per il futuro, magari con qualche buon amico ed una tazza di te'. Stupiscono davvero per la apparente semplicita' e orecchiaiblita' delle melodie, in realta' assai ricercata e varia, mai statici e ripetitivi, con chitarre a volte sporche a volte pulite, lentamente sostenute o moderatamente veloci, senza nemmeno l'ombra di un accenno di virtuosismo, compiono il loro dovere infiammandosi al momento giusto e mai troppo a lungo. Ne esce fuori un disco davvero piacevole e intrigante, perfetto nel suo stile volutamente sonnacchioso, quasi svogliato. L'unico neo sta nella pronuncia inglese non proprio perfetta, accentuatamente "italiota", stile scolastico, ma e' davvero un'inezia di poco conto al confronto col risultato finale. "Jesus on a train" apre il disco quasi in sordina, dimesso tra il basso balzellante e le improvvise accelerazioni della chitarra, salvo poi riprendersi nell'inaspettata conclusione. "Measure" sembra perfetta per essere inserita in "Brighten the Corners", col suo ritornello cantilenante e il suo perfetto stile indolente e pigro, condito da un finale degno di "In a bar, under the sea". Esaurita un'emozione, ne segue un'altra, "Aladar", e poi ancora la sognante "Fuga (escape) idea" arricchita da una psichedelia ottimamente incanalata nella struttura della canzone. Quindi la pallida e scarna "Mr. Day" e la agitata e crescente "7th song" a concludere un disco davvero eccellente e completo. Voto: 7/10 Fabio Tonti Pornoriviste: Codice a sbarre (Tube records, 2001) Una breve premessa riguardo all'interesse verso un disco come questo, considerando soprattutto che l'infimo livello artistico di per se' non giustificherebbe una recensione del genere. Diremo allora che nel nostro paese i Pornoriviste stanno iniziando, sulla scia dei Punkreas, a cavalcare la cresta di un successo probabilmente inaspettato e, quindi, un commento a proposito risulta piu` che attuale in questo momento. Inoltre, opportunita` davvero stuzzicante, questo album ci offre l'occasione di gettare luce sulla controversa questione del punk italiano, che pare, in un momento di progressiva massificazione della musica alternativa, riscuotere favori quasi pari (e forse in alcuni casi anche maggiori) ai "prodotti" esteri. L'elemento curioso e` che, mentre sempre piu` i colleghi stranieri tendono ad allontanarsi dalle sonorita` originarie del genere, i (giovani) punkers italiani preferiscono tentare un recupero, a modo loro, di una certa semplicita` strutturale appartenente al passato piu` che al presente. Una fedelta` su cui non ci sarebbe nulla da ridire: da li` al saper scrivere una buona canzone, poi, passano la capacita` di andare contro senza dire ovvieta`, di suonare originali, di crearsi uno stile convincente. Tutte cose che mancano tragicamente ai Pornoriviste, salutati tuttavia quali piacevole e fresca proposta emergente (nel senso piu` lato della parola, dal momento che la loro attivita` dura ormai da 7 anni) della scena musicale suddetta. Sul piacevole possiamo lasciare aperto il dibattito; resta da chiarire poi come una persona che possieda un minimo di discernimento in materia possa considerare "fresca" una proposta del genere. Ma veniamo con ordine: la voce. Il cantante, Daniele, indeciso fra vari modelli (Tim Armstrong dei Rancid, Johnny Rotten dei Sex Pistols, Billie Joe dei Green Day) sceglie di prenderli in blocco e se li infila in gola come una grossa patata bollente: il risultato e` che un grottesco mugolio sguaiato che confonde una spiccata attitudine punk con una voce brutta e forzata come questa. Seconda nota dolente: i testi. Che i nostri non fossero degli intellettuali lo si capiva fin dal rozzo doppio senso del titolo, ma francamente l'accozzaglia di stereotipi ("Cosa ne pensi delle multinazionali / Fame nel mondo piu` politici maiali"), banalita` ("L'autunno sta chiamando / Il mondo e` fatto a scale / Quando qualcuno scende / Qualcuno invece sale"), brutture ("Chi sta bene non aiuta / Chi sta male s'incazza e sputa") e` tale da stracciare ogni aspettativa e soffocare tristemente i pochi spunti accettabili, facendo rimpiangere un ipotetico cantato in inglese che non denigri una musica gia` fin troppo modesta. Il meglio dei Pornoriviste scrittori si ha in pezzi come "La scatola dell'odio", pastiche di polemiche raffazzonate senza criterio della serie "se non dico almeno una volta governo bastardo non sono piu` punk" con cui molti fraintendono l'autentico spirito anarcoide che dovrebbe ispirare questo tipo di musica. Infine, il suono. Se c'e` una cosa che le menti pensanti del gruppo conoscono a perfezione e` come toccare le corde del cuore di tutti i punkettini in erba che affollano i loro concerti. Quindi, via libera a motivetti orecchiabili di taglio quasi sloganistico e di stampo vagamente Punkreas: laddove pero` tutto questo, nelle canzoni di Cippa e compagni, e` colorito di apprezzabili trovate "diversificanti" che elevano il gruppo al di sopra di gran parte dei connazionali, nei Pornoriviste non c'e` nient'altro, se non le solite, trite basi in salsa garage (con buona pace di chi il garage l'ha suonato davvero, e come si deve) e assoletti-carosello al cui confronto i Green Day sembrano Emerson, Lake and Palmer. Insomma, il niente assoluto, o quasi: ma la formula sopravvive per i primi cinque, dieci pezzi, poi gli stessi autori si rendono conto che i brani cominciano ad accartocciarsi su se stessi in un deprecabile effetto lassativo, e allora sfoderano tre melodie ("Dammi la verita`", "Come ti va", "Io sono qui", ma anche "Il gioco" ammicca visibilmente al pop facile) che potrebbero essere rubate da segreti spartiti firmati Lunapop, prima di congedare l'ascoltatore ormai completamente arruffianato (ma probabilmente sonnecchiante da almeno un quarto d'ora) con un epilogo ancor piu` inutile dell'apertura. Il risultato finale e` quello di un enorme giocattolone plastificato e senz'anima, pasticciato, dilettantistico, fastidiosamente qualunquista, a tratti orecchiabile. E i pochi tentativi di fare qualcosa di diverso ("Cinismo", "Medicina", "M.I.B.", nient'altro, in fondo, se non una riproposizione in forma sincopata, rockeggiante o decelerata delle stesse idee) quando non scadono nella goffaggine, certo non servono a migliorare un lavoro gia` compromesso in partenza. E particolarmente illuminante per chi nutriva dei dubbi sulli condizioni del punk tricolore. Voto 3/10 Alessio Gambaro Roseislandroad: Awaked and astrayed (Gammapop, 1998) Questi Roseislandroad si presentano con un suono grintoso ed energico, ricco di ampie schitarrate, batteria molto ritmata ma regolare, urla profuse a volonta'. Il primo pezzo, "Wings of Water", pare perfetto come hit-single di una band emergente, ma di almeno 8 anni: riff quasi grunge, stacchi e ripartenze accelerate. Un po' meglio nella seguente "Gangreene", dove si avvicinano un po' ai Paul Newman, ma hanno poca pazienza e cosi' dopo poco ricominciano con le solite sguaiate chitarre e giu' rumore a iosa. Si vede che hanno troppi ormoni in corpo, o troppa foga, fatto sta che riescono a sfornare prevalentemente dei gran baccanali di chitarra-basso-batteria abbastanza ben realizzati per carita', ma che alla fine del brano lasciano poche traccie nella memoria perche' danno quel senso di "gia' sentito" e di banale. Avessero la pazienza di comprimere tanta energia e sfogarla tutta di botto realizzerebbero migliori cose probabilmente. Se ne vede un accenno nella discreta "Undertoad", mentre nelle seguenti "Logan's run" e "Amnesy machine" riescono a trovare un po' di equilibrio tra energia e struttura, ma poi niente piu'. Non c'e' che dire: i suoni ci sono, anche se sarebbero migliori se fossero meno sporchi e piu' nitidi, le melodie pure, manca un po' di tecnica e la pazienza di autodisciplinarsi per non scadere nei soliti schemi disordinati e smanettoni di chi vuole sfondare sparando un riff sopra l'altro e urlando a squarciagola. In definitiva non e' un cattivo disco, e dal vivo deve rendere molto meglio, ma alla fine dell'ascolto lascia ben poco, per cui.... Voto: 5 Fabio Tonti Ulan Bator: Polaire (C.P.I., 1995) Primo capitolo di questo trio di francesi, Polaire rappresente il punto di partenza per la loro personale trasformazione della psichedelia, ora asservita a sonorita' piu' attuali, piu' post. Il timido pezzo d'apertura, "Haupstadt", incomincia con un ronzio di chitarra di sottofondo e lente percussioni ipnotiche su cui si instaura un suono di chitarra metallico e ripetitivo ed una svogliata batteria. Gli strumenti vanno ossessivamente avanti cosi' per un po' (che noia!) poi tutto dimprovviso si accende: la chitarra diventa una motosega, basso e batteria martelli pneumatici che sostengono un baccanale nato da chissa' dove, chissa' perche'.... Il seguente "Polaire" riprende lento e sonnacchioso con 2 chitarre marca June of 44, assistite occasionalmente da una moribonda armonica mentre il batterista spazzola i tamburi. Poi come prima d'improvviso la scena si ribalta: si accende un basso cupissimo e ribollente che sembra provenire da 10 mt. sottoterra, scosso da fuggevoli saettate di chitarra. Pochi minuti e il timbro cambia ancora: un riff slintiano inquietante e psicotico. Ma anche questo accenno si perde nel nulla... In "Sea room", emerge sopra le chitarre una voce dal sottofondo, deformata in maniera agghiacciante, resa demoniaca, mentre le corde si agitano sempre sulle stesse note. Immancabile cambio, questa volta piu' continuo dei precendeti. Immaginatevi un mix tra June of 44 e Hash Jar Tempo con Dave Pajo alle chitarre. Atmosfere eteree, surreali, catarsi e psichedelia si fondono in un suono pulito, limpido ma ancora troppo grezzo e poco raffinato. In "Cerf volant" scomodano pure un flauto alla Ozric Tentacles ma il risultato e' sempre le stesso: lunghe reiterazioni che non giungono a niente e cosi' si e' costretti a meta' o fine canzone all'immancabile stacco e deciso cambio di tema, oramai prevedibile e poco significativo. "Cheetah Carnage" attacca con pesanti acidi e punkeggianti riff sotto i quali la voce gia' deformata e resa irriconoscibile viene schiacciata, diventa solo un rumore di sottofondo in piu'. Seppur con la testa carica di idee, i 3 le vogliono scaricare addosso all'ascoltatore tutti in una volta, senza pensare tanto ad approfondirne anche una sola. Finiscono col confondere persino se' stessi. "D-Press T.V." pare essere l'eccezione: stupenda con quel suo ritmo sincopato e incedente, gli strumenti finalmente armoniosi tra loro, riesce ad erigiere un muro sonoro spesso e vibrante che in qualche misura mi ricorda gli incommensurabili GodMachine, peccato per il finale miseramente troncato. "Silence" e' una noiosa atmosfera di nulla, che non dice nulla. Nel complesso questo disco traccia le rotte per il successivo splendido capolavoro "Vegetale", ma appare ancora troppo farraginoso e incerto il loro approccio, poco deciso e fin troppo grezzo. Hanno ottime idee me per ora non riescono ad esprimerle appieno. Voto 6 Fabio Tonti Bartok: The Finest Way to Offend You (Gammapop, 2001) I Bartok presentano una insolita e (almeno per me) inedita miscela musicale allo stesso tempo apparentemente semplice ma decisamente efficace e di difficile descrizione. Le canzoni sono essenzialmente atmosfere sonore create da piano, batteria e basso, un musica di ambiente raffinata ma anche primitiva, nel senso di "poco elaborata" bensi' grezza ma efficacissima, su cui si inseriscono sporadici ed essenziali gli altri strumenti e la voce del cantante. "Morselli", la prima dell'album, mette in evidenza queste caratteristiche: frasi di batteria rubate al jazz, un piano dal suono cupo molto ritmato che emette solo le note essenziali a reggere la melodia, nessuna di piu', basso che sussurra in sottofondo. Si aiutano pure con un po' di elettronica: campionamenti presi in prestito da qualche inedito dei Tortoise, anche questi distribuiti in stretta misura. Simile alla precedente ma ben piu' animata e' la seguente "Slacker" caratterizzata da una incoerente pianoforte tanto funebre nei suoni quanto vivace e veloce nel ritmo che trascina con se' tutti gli altri strumenti creando una sensazione quasi da "funeral-party". Il gruppo sembra quindi gongolarsi al limite del minimalismo nella terza traccia, "Polansky", dove ad una batteria sufficientemente agitata e ad un basso che pare allenarsi si contrappone il pianista che emette una nota alla volta, quasi svogliato, in realta' calcolatissimo. Non si capisce mai bene dove vogliano arrivare ma forse e' colpa nostra che ci poniamo troppe domande o forse volutamente essi non giungono a niente, lasciando tutto in sospeso. Il quarto pezzo, "Nuevo cannes" riprende il funeral party di prima, solo che ora e' ambientato in Spagna dove frotte di scheletri ballerini ci danzano attorno mentre zombi molleggiati seguono caoticamente il ritmo. Disco prepotentemente visivo, che vive di ambienti e atmosfere create dalla musica dei tre strumenti principali, che non concede spazio alcuno alla improvvisazione o a virtuosismi ma dove tutto e' calcolato con grande precisione e stile. Le note sono centellinate e forse per questo ancora piu' incisive, i brani sono quasi tutti fortemente ritmati: il tempo si distingue forte e chiaro. "Untitled" e' un brano dei Rachel's con in piu' la voce, abbastanza inutile almeno quanto "Vertigo". E' nelle ultime due canzoni che le potenzialita' del gruppo esplodono facendo intravvedere quanto possano fare e quante ampie siano le possibilita' della loro miscela, del loro stile musicale se avranno il coraggio e la forza di approfondire e sperimentare di piu'. "Conversational exercise" e' questa volta un funerale vero e proprio dove i mostri dell'oltre-tomba, tanti piccoli Steve Albini risorti e decomposti, si divertono a squartare i partecipanti, mentre la telecamera freneticamente si sposta da un omicidio all'altro. La conclusiva "Damo's question" invece delinea un paesaggio di desolazione post-bombardamento descritto con freddo cinismo metallico dall'incedere lento e ripetitivo degli strumenti, distorti e resi scurissimi. 6/10. Fabio Tonti BZ BZ UEU: Whozmerigotz Domanda inconscia: ma che razza di musica puo' produrre un gruppo con un nome simile? La risposta e' presto data dalla prima traccia, "Parametro Biancofiore", dove i nostri si scatenano in un punk-jazz adrenalinico e gioioso che vede inizialmente tutti gli strumenti rotolare su se' stessi: la sovrapposizione dei "rimbalzi" risulta perfetta, con quel tocco matematico che in questi casi non dispiace mai, ed alla fine si libera pure la tromba a dare manforte al complesso. Il pezzo seguente, "Bo Hopper", mette quindi in evidenza le caratteristiche compositive del gruppo: il continuo alternarsi di momenti di baccano strumentale dove i fiati, le corde o le pelli vengono percosse con discreta furia e precisione svizzera, passaggi di destrutturizzazione abbastanza selvaggia e cannibala ed anche pause dove gli strumenti sono tenuti al guinzaglio ma schizzofrenici si agitano per liberarsi. Il riferimento principale e' il lavoro di Zorn, suonato con una freschezza ed una scioltezza tali da farci sorridere e pensare che si stiano divertendo, come giocando (e sara' sicuramente cosi', ma nel frattempo quanto sudore e fatica spendono?). Il disco dura un totale di 7 tracce per 20 minuti circa ed e' quasi un peccato perche' non ci si stanca mai ad ascoltarlo, almeno le prime volte. Tracce come "W laa ....", dove emerge anche una forte vena math e dove pure i suoni prodotti da quello che sembra essere un falso telefonino (quegli aggeggi telefonici giapponesi che per ogni tasto spinto producono un "beep" diverso) trovano un perfetto inserimento. Oppure "Whozmerigotz": palcoscenico punk dove ad ogni battuta si alternano i suoni piu' strani (e stupidini...) in combinazioni ritmiche sempre diverse ma sempre efficaci e si conclude con basso e batteria irrefrenabili mentre la chitarra disegna sopra la loro testa cerchi di fumo deliranti. Personalmente li considero i fratelli minori dei Lab, per quanto sono simili i contenuti dei due gruppi: solo un po' piu' "post" quelli, molto piu' rock'n'roll questi. Comunque sanno ampiamente il fatto loro e la strada che stanno percorrendo va nella direzione di una originale trasformazione del jazz, con tante impredicibili future evoluzioni. 6.5/10. Fabio Tonti Cristina Dona`: Tregua (Mescal, 1997) Cantautrice forse unica nel suo genere in Italia, Cristina Donŕ debutta nel '97 con "Tregua". A prima vista lo stile pare essere quello di una P.J. Harvey sotto pesante effetto di camomilla ma in realta' tra le due vi sono sostanziali differenze, soprattutto sulla modialita' di interpretazione: mentre Polly Jean concepisce la musica come sfogo, Cristina e' molto piu' vicina ad uno stile cantautoriale, sebbene gli accompagnamenti siano molto meno "canonici" per quel genere (almeno in Italia). Le musiche sono una miscela di rock quasi da classifica, sospeso tra gli anni 70 ed i primi 90 (avete presente Grant Lee Buffalo?), leggero e sentimentale ma straniato quel tanto che basta a dargli un tocco di particolarita', sopra il quale la voce di Cristina si libra con maestria, spessore e carattere, dando prova di un buon "tocco" vocale. Ma non e' tutto qui: "Stelle Buone" per esempio e' costruita su una ballata alla Calexico, "Labirinto" si proietta in un'atmosfera allo stesso tempo onirica e noir, mentre "Le solite cose" si colloca in oriente grazie ad un violino arabeggiante ed alle lente percussioni ipnotiche. La voce della cantante e' dolcissima e suadente, calda come poche ed ha quel tocco tutto femminile al tempo stesso leggero e profondo, un po' sbarazzino ma in realta' intenso e sentito come in "Piccola faccia", ed ha il notevole pregio di non dilungarsi troppo: al contrario le canzoni sono essenziali, senza inutili prolungamenti e reiterazioni. "Senza disturbare" inizia come un lento blues dimesso e oscuro per finire con un assolo alla Jimmi Page, mentre "Ogni sera" mostra gli artigli proponendo un robusto rock, che pero' non colpisce piu' di tanto. Tirando le somme penso che, fermo restando il giudizio tecnico discreto, si possa fare decisamente di piu'. E' comunque un ottimo disco se volete fare colpo su una ragazza. 5/10. Fabio Tonti Karma: Karma (Jungle Sound, 1994) I Karma sono stati (perche' non ne sento piu' notizia da oramai molto tempo) una fulgida cometa del rock italiano. Il loro primo disco omonimo uscito nel '94 si allinea perfettamente a quella corrente che proveniva da Seattle e se fossero nati la' probabilmente a quest'ora avrebbero venduto un bel po' di dischi. Il loro e' un rock granitico, concreto, primitivo sotto molti aspetti perche' diretto discendente ed evoluzione dell'hard-rock anni '70, con innesti psichedelici e un buon equilibrio tra gli strumenti. Tra le varie correnti del grunge, se dovessi scegliere a quale paragonarli citerei sicuramente gli Alice in Chains, da cui prendono la cattiveria e lo spessore di certe chitarre ombrose, e gli Stone Temple Pilots (dei primi due dischi) per la energia. Ma non fraintendetemi: non copiano niente a nessuno cosi' come non inventano niente di nuovo, semplicemente si allineano ad uno stile, lo fanno proprio, lo rielaborano con tematiche a loro desiderate (l'amore per la cultura orientale, indiana in particolare), gli aggiungono elementi propri della loro cultura (l'amore tutto italiano per la melodia, la orecchiabilita'), adattano tra loro i suoni ed i testi in italiano (che non e' certo la lingua piu' musicale e adatta per il rock). In pratica aggiungono un altro tassello al mosaico, una pennellata al quadro. Ne escono 14 tracce veramente belle nel loro genere, potenti e decise, per niente scontate tra le quali spiccano la coppia "Mantra" e "Terra", "Samsara" e "Sunflower", chiuse dalla leggerissima e dolce "Nascondimi" e dalla ghost track che si nasconde in "Astronotus". Si potrebbe opinare che il genere e' oramai morto e stramorto, superato, calpestato dall storia... beh bella scoperta, non si potrebbe gia' affermare lo stesso del "post-rock"? Non mi sembra poi motivo sufficiente a dimenticarlo ne' a demonizzarlo. E' grazie a queste correnti che il rock, che si dava gia' per finito negli anni '80, riesce ancora, seppure acciaccato dal tempo, a reggersi ancora in piedi. 5/10. Fabio Tonti MILLEPIEDI: LAB Devo ammettere che le mie prime sensazioni ascoltando questo disco sono state alterne: passavo dallo stupore alla piu' totale incomprensione allo sbigottimento, alla adorazione assoluta. Questo allegro complesso proveniente (se le mie informazioni non sono errate) dalla Toscana stravolge completamente l'idea di canzone per realizzare dei Bignami della musica, vorticosi miscugli di stili e contaminazioni. Come se su una tela bianca lanciassero secchiate di vernice colorata, cospargono tutto con macchie di free-jazz, avanguardia, psichedelia, math rock, addirittura musica da balera e altro che non riesco a ben definire. Il tutto condito da una non del tutto velata ironia, quasi suonassero per prenderci per il culo. Il disco inizia con la traccia piu' lunga del disco, un appassionante calderone delle streghe dove, minuto dopo minuto, vengono aggiunti sempre piu' ingredienti alla micidiale pozione: come base due note di melodica, un ritornello da Ca' del Liscio e via, si sfocia nella no-wave piu' confusionaria (quasi stile US Maple) per qualche dozzina di secondi, quindi un impennata di chitarra elettrica, giusto per introdurre la seguente psichedelica e lisergica ballata. Batteria tartassante e onnipresente ovunque che, anche se in forme diverse, riesce spesso a distogliere l'attenzione dalle poliedriche chitarre. La seguente traccia e' un delirio incontrollabile, un martello pneumatico. Il pezzo sembra andare avanti alla giornata, cambiando secondo dopo secondo direzione, come se i musicisti si divertissero a iniziare uno stile, si stufassero dopo 15 secondi rendendosi conto di padroneggiarlo piu' che a sufficienza e decidessero allora di dedicarsi ad un altro, per poi riannoiarsi subito e cambiare di nuovo. Rimane difficile descrivere le elucubrazioni chitarristiche cui si assiste inermi: dal punk-rock d'avanguardia, alla no-wave, a semplici suoni tipo raggi analogici lanciati nello spazio, al math-free-jazz (per tutto quello che questi termini possono voler dire...). Mi servirebbero una camionata di sinomini di aggettivi quale caotico, spregiudicato, indemoniato, distruttivo, spaccaossa per descriverli. Quello che sconvolge poi e' la totale mancanza di momenti di pausa, perche' semplicemente non si ha il tempo per rifiatare ma si e' costantemente tartassati, con una fantasia di soluzioni ed una poliedricita' caleidoscopica. Il disco prosegue con una specie di carillion iniziale che esplode in un'orgia di suoni quasi da circo, da baraccone, ma un baraccone spedito a 200 km/h giu' per un burrone. Quindi "Splash!": d'improvviso siamo proiettati nel mar dei caraibi, sorseggiamo il nostro cocktail sulla spiaggia incantata in compagnia di bellissime donne danzanti, ma c'e' qualcosa che non va, qualcosa ci inquieta: il baraccone del circo ci sta precipitando addosso!!! La quinta traccia (circa un minuto) assomiglia ad un'orchestra da balera cocainomane con Jimi Hendrix alle chitarre e Bonham alla batteria. Lo stesso complessino introduce la canzone successiva: una math-polka delirante che evolve in un "ballo di S. Vito" con chitarre come lingue di fuoco metallico sparate nel caos. Il settimo brano richiama inizialmente alcune cose dei primi Don Caballero a livello di arpeggi, quindi pure dei King Crimson: suoni deviati, che potrebbero assomigliare ai versi emessi dai delfini per comunicare, ma solo per un breve assaggio dopo di che si fa il vuoto: un vuoto sonoro riempito da set di batteria scaraventati giu' per le scale. Si torna quindi agli arpeggi iniziali e si conclude con vagheggi quasi elettronici, alla trans-am, ma pesantemente depurati. Da segnalare ancora la 11ma traccia dove i nostri Lab improvvisano, allucinati, una cover di Zorn. Ma l'ispirazione fatica a venire finche' sbuca dal nulla un'auto di discotecari con il volume del loro super-impianto stereo al massimo, ferma al semaforo dell'incrocio proprio sotto la finestra aperta dello studio di registrazione. La repulsione per tutte quelle centinaia di b.p.m. riesce a far trovare l'armonia tra gli strumenti. Dotati, tutti i membri del gruppo, di una padronanza degli strumenti ben al di sopra della media, stupiscono perche' si muovono in totale sintonia anche nei momenti di piu' devastante destrutturizzazione, riuscendo a tirare fuori un ordine dal caos sferragliante, concedendosi pause ironiche con ritmi sudamericani commerciali o giri di chitarra alla Raoul Casadei sotto effetto di LSD. Pescano a piene mani dal repertorio di Sun Ra e soprattutto di Zorn, permettendosi il lusso di trasformarlo, riadattarlo e mescolarlo con tutto quello che gli passa per la testa. Fantastici. 7.5/10. Fabio Tonti Madrigali Magri: Lische (1998) Se l'incomunicabilita' e' (paradossalmente) uno dei mali del nostro tempo, i Madrigali Magri ne sono i bardi ed i menestrelli, coloro che riescono a descrivere e mettere su note queto sentimento, malattia e stato d'animo. I loro pezzi sono gusci rinchiusi in se' stessi, ricci, acerbe castagne che non fanno un minimo sforzo per lasciarsi aprire, per protendersi verso l'esterno ma al contrario come introversi e silenziosi barboni si tengono tutto per se'. Voci sussurrate, tracce che pare siano state scritte per se' soli e non per un pubblico, nella solitudine di una sala prove allestita in una soffitta, pezzi minimali e "soffici" come "Borderline", che richiama vagamente lo strimpellare di chitarra di "Crookt, Crakt or Fly". Batteria composta da due soli tamburi, rullante e cassa, divagazioni enigmatiche e atmosfere degne di pomeriggi vuoti di un autunno piovoso. Chitarre spesso acustiche e volontariamente sottotono, rumore bianco di sottofondo. Ma e' forse questo ritrarsi che produce nell'ascoltatore un effetto inverso: succede che siamo noi a dover "aguzzare l'udito", a sintonizzarci con le note sottili e gli accordi appena accennati, la ritmica lenta e incedente, la voce strozzata e afona. E non si tratta del semplice gesto di alzare il volume, ma di una operazione chirurgica per entrare nelle canzoni, per forzare il loro duro involucro alla ricerca di una perla o perlomeno della consapevolezza della sua assenza. Succede cosi' che quando d'improvviso in "Sogni d'oro" la conchiglia si spalanca rimaniamo sorpresi, scossi, feriti come colui che appena svegliato viene abbagliato dalla luce del sole, anche se poi si accorge che non e' davvero il sole ma la luce della sua lampada da notte. Le seguenti "Fosce" e "Megacosma" sono blandi tentativi di esternazioni incompiuti ed inespressi, che insieme a "Palombari", devono preparare la loro giusta ombra per la luminosita' di "Breve" (come puo' essere luminosa una candela durante un black-out, con l'occhio gia' abituato al buio): la lumaca che esce dalla sua protezione e timidamente avanza. I pezzi ridotti all'osso (a lische appunto), scarnificati di questo disco, pieni di ombre a qualche chiaro-scuro sorprendentemente riescono a trasmettere all'ascoltatore una profonda tensione interna, una claustrofobia ed alienazione dalla societa' paranoiche. 6/10. Fabio Tonti Marlene Kuntz: Catartica (1994) I M.K. esordiscono nel '94 quasi sconosciuti ma non tarderanno ad affermarsi. Propongono una interessante comunione di punk-rock e psichedelia tenuti assieme da una spiccata predilizione per i suoni rumorosi, distorti, di chiara matrice Sonic Youth (da loro dichiaratamente idolatrati) ed anche se non raggiungeranno mai lontanamente le loro vette espressive, almeno cui provano. Portano una bella boccata di aria fresca nello stagnante paesaggio rock italiano cosparso di gruppi di ragazzini che altro non sanno fare che copiare modelli stranieri stra-obsoleti, e grazie ad un buon occhio per la melodia e la orecchiabilita' riescono a fare breccia anche nel pubblico piu' vasto. Il primo pezzo, "M.K.", e' un punk suonato con chitarre quasi metal, pesante e martellante su cui la voce di Godano, acida, risalta. C'e' da dire che hanno un'ottima cura per i suoni, accuratamente studiati e soppesati per ogni traccia, quasi piu' per la canzone in se'. "Festa mesta" prorompe col suo linguaggio un po' da ragazzini sguaiati e i suoi testi che provano a provocare. Cambia ritmo cosi' tante volte che e' inutile starle ad elencare tutte, costituendo con la sua elettricita' e adrenalina l'ottimo preludio a "Sonica" (anche qui come piu' avanti si nota come pure la scaletta sia assolutamente curata, ma sono dettagli minori in fondo), il pezzo forse piu' blasonato del disco. Questo inizia con un sottofondo di chitarre sclerotiche che si agitano nel silenzio e che accompagneranno gli altri strumenti per tutto il brano riapparendo di tanto in tanto per poi evolvere in una spirale centripeta con basso e batteria sempre piu' martellanti, chitarre e voci epiche e ripetitive. Peccato che alla fine scada un po' in un banale ritornello. Ma il gruppo non e' solo rumore e ritmo, bensi' sanno pure confrontarsi anche con struggenti ed eteree ballate come "Nuotando nell'aria", "Lieve", "Gioia che mi do" dove la divagazione in sentimentali ed epico-tragiche suonate e' d'obbligo. Ma come non e' tutto oro quello che luccica, e' pure vero che anche la bigiotteria a volte puo' essere fatta veramente bene, e loro ne sono l'esempio. Il loro pregio piu' grande, ed anche il maggiore limite, e' quello di proporre sonorita', ritmiche e idee diverse dal solito circo di MTV agli spettatori di MTV stessa, che un suono di chitarra alla Thurston Moore non la sentono neanche una volta all'anno. Ovviamente devono pagare un pegno in dinamica e originalita' che, se in questo disco non e' cosi' spiccato per via della "giovanilita'" dei brani, piu' avanti e soprattutto dal terzo disco risalteranno decisamente. 5.5/10. Fabio Tonti Massimo Volume: Da qui (Mescal, 1997) Il terzo atto della carriera dei M.V. si compie nel '97 con l'album "Da qui". Quest'opera rappresenta il proseguimento logico e naturale del discorso sperimentale iniziato 5 anni prima e, sebbene non aggiunga niente di particolarmente nuovo rispetto al disco precedente, non ne tradisce nemmeno lo spirito innovativo ed estremo. Solo, ora le melodie sono molto piu' rilassate e meditative, senza troppi sbalzi d'umore ne' scarti ritmici accentuati. Nel complesso si respira un'aria un po' piu' rilassata, anche se la descrizione e' ovviamente solo relativa: non si puo' proprio dire in assoluto che brani come "Atto definitivo" o "Senza un posto dove dormire" siano "tranquilli"... Comunque sicuramente il suono si e' involuto, magari volontariamente, verso un ritorno ai '70: si percepiscono molte piu' influenza psichedeliche, eppure ancora riescono a stupire inventando con poche (apparentemente) note dei piccoli capolavori melodici come "La citta' morta" e "Sul Viking Express". L'album e' un continuum ininterrompibile, prese singolarmente le canzoni perdono molto di quel fascino che le deriva dal contesto in cui sono state poste. I passaggi sono importantissimi; come quadri diversi appesi ad una lunga parete si passeggia ammirandoli e questi, sebbene differenti tra loro, sono solo diversi capitoli dello stesso libro, della stessa tematica, riassunta molto bene nella citazione del regista Jodorowsky riportata in copertina: "Io allora comprendo che a volte non e' bene cercare la sicurezza perche' conduce alla morte. E che e' meglio vivere nell'incerto". Tutto il disco e' pregno di questo senso dell'incerto, del decadente, dell'incompleto, un CD di brani incompiuti si potrebbe definire, con riff e arpeggi tecnicamente perfetti, note inserite una dietro l'altra come in un teorema matematico, ma nessuna tesi a giustificare tutta la fatica. Cosi' quando alla fine l'atmosfera si infiamma in "Stagioni", l'emozione compressa e inespressa per 10 tracce si scatena in un crescendo epico. Questo e' uno di quei dischi che ogni volta che l'ascolto mi lascia l'amaro in bocca, una sensazione fuggevole e nascosta di insoddisfazione, di mancanza di un qualche-cosa indefinibile che ne avrebbe fatto un capolavoro, ed e' forse per questo che mi e' anche piu' caro e, a distanza di tempo, e' quello dei tre che molto piu' spesso (anche senza volerlo ne' pensarci su) mi ritrovo ad ascoltare. 7/10. Fabio Tonti Massimo Volume: Lungo i Bordi (Mescal, 1995) Col secondo album i M.V. approfondiscono il discorso poetico iniziato con "Stanze", portandolo ad un livello piu' profondo e introspettivo. Si moltiplicano i richiami ai poeti maledetti francesi ed ai cantautori underground statunitensi quali Jim Carrol, citati in "Il primo Dio" e "Inverno '85". "Il primo Dio" ancora e "Il tempo scorre lungo i bordi" aprono il disco e forse ingannano l'ascoltatore facendogli credere ad una modifica di tematica, ma non e' cosi'. Se questi due brani parlano di temi alti e quasi filosofici (la folgorazione per un poeta e il tempo che passa inesorabile), con la terza traccia subito l'obiettivo si sposta sulla (a)normale vita quotidiana, descritta con l'oramai consueto cinismo. "La notte dell'11 ottobre" e' il racconto di un angosciante incubo notturno, emozionante fino a far paura. Un drone di chitarra pervade dall'inizio alla fine l'atmosfera onirica, scandisce il tempo inesorabile e quasi noncurante del resto degli altri strumenti e dell'evolversi del sogno. Le chitarre poi si infiammano in "Fuoco fatuo", diventano sclerotiche e nervose, perfettamente in sintonia per accompagnare la voce di Clementi che si chiede ripetutamente con frasi rabbiose se davvero l'uomo non sia altro che un misero e stupido bugiardo. Ancora la perversione e la crudezza di "Meglio di uno specchio" proseguono l'opera di scardinamento del concetto di normalita', mettendo a nudo un'altro spigolo (quello della sessualita' vissuta in maniera morbosa), un'altra ruvidezza della sfera umana. Ma non serve scavare troppo a fondo: anche da frammenti di quotidianita' e da gesti consueti come l'ordinare una pizza o ricevere una birra da un distributore automatico ("Pizza express") emerge un senso di alienazione e incomunicabilita' agghiacciante, cronica, che poi riemergono in "Nessun ricordo". In apparenza in questo disco la ricerca poetica e linguistica hanno preso il sopravvento, magari a scapito della sperimentazione sonora. Ma, appunto, questa e' solo un'apparenza poiche' ad un ascolto piu' profondo ci si stupisce costantemente della intensita' emotiva che riescono a trasmettere facendo uso di pochi, semplici accorgimenti: un paio di arpeggi, un solido giro di basso e qualche rintocco di batteria, reiterati fino ad ipnotizzarci per poi cambiare bruscamente sottolineando i punti cruciali. Non ci sono piu' le ritmiche assassine e incalzanti dell'album precedente, le chitarre non sono piu' maciullate; e' la calma di chi non ha bisogno di urlare per terrorizzare, di chi necessita di poche righe e il giusto giro di basso per sbatterti la tua merdosa vita in faccia e farti urlare di disperazione. Tutto si svolge ora dentro noi stessi, perche' e' dentro noi stessi che le note dei M.V. ci colpiscono duro, non ai timpani ma al cervello. E' indice di una prematuramente raggiunta maturita' stilistica, che non divide le parole dalla musica ma ne fa un tutt'uno inscindibile. I Massimo Volume sono l'incubo degli amanti delle canzonette sentimental/amorose/spensierate da 4 soldi; sarebbero capaci di far fuggire terrorizata da teatro tutta la platea del festival di Sanremo in pochi minuti. 8/10. Fabio Tonti Massimo Volume: Stanze (Underground, 1993) Descrivere la musica dei M.V. e' come affrontare un penoso e lacerante viaggio all'interno di noi stessi, nelle nostre angoscie piu' recondite, verso i fantasmi del subconscio. Il gruppo esordisce con l'LP "Stanze" nel 1993, una pietra miliare nel desolante panorama della musica italiana, un disco di platino in un mondo perfetto. Non riesco proprio a immaginarmi l'espressione di un adolescente tipico di quegli anni messo alle prese con le ritmiche di basso e batteria di stampo Albiniano della title track "Stanze" e di "Insetti". Forse la faccia gli si sarebbe contora in una smorfia di ribrezzo, il suo fragile cuore appena introdotto alle musiche "nuove" del grunge avrebbe avuto un sussulto: che forse il grunge, appena nato, sia gia' stato superato? Non ci sono dubbi. E come definire i testi delle canzoni? Profonde introspezioni nelle cose piu' "banali" della nostra vita ("Un sapore tutto qui"), storie di vite perdute, ai margini della societa' ("Ronald, Tomas e io"), visioni Lovecraftiane di demoni che scaturiscono da noi stessi, dalla nostra stessa mente. Emidio Clementi non canta, ma di volta in volta sussurra, commenta, urla, pero' senza mai scomporsi troppo, sempre con una calma angosciante anche quando, incalzati da basso e chitarre serratissime, i nostri incubi piu' neri ci si materializzano davanti. Allora le consuetudini piu' radicate si rivelano vanita' inutili e deprimenti ("15 di Agosto"), da squarci di quotidiana vita coniugale saltano fuori menti corrose dalla apatia, prigionieri di abitudini agghiaccianti ("In nome di Dio"), esistenza bruciate ("Ronald Tomas e io" ancora), narrate dalla voce del cantante ma descritte dai suoni contorti, ossessivi e cinici degli strumenti. Suono inconfodibilmente post e math, forse derivante dall'ascolto delle prime avvisaglie post: Dazzling Killmen, Slint, Rodan, ma che ha radici anche piu' lontane nel tempo: i Sonic Youth di Sister, i Big Black, i King Crimson '70-'75 alle chitarre. Adrenalinico a tratti, alquanto tormentato, spesso nervoso, sommerso di inquietudine e punti interrogativi, si allinea perfettamente ai testi, sottolineandone i versi cruciali. Eppure e' capace di impennate come per la psichedeliche ed eroiche ballate di "Vedute dalla Spazio" ed "Ororo". Nel complesso il loro suono e' frutto di un profondo e serio discorso di sperimentazione, che li porta a realizzare un ibrido tra rock progressivo e poesia cantautoriale. "In medium stat virtus" ? 8/10. Fabio Tonti One Dimensional Man: 1000 Doses of Love (Wallace, 2000) Questi 1D Man si presentano con una mistura di rock ultra-violento e sclerotico che si rifa' in maniera sputata ai Jesus Lizard, fossero altrettano bravi tecnicamente e fossero stati prodotti da Albini probabilmente suonerebbero identici. Nel loro disco non c'e' traccia di innovazioni o sperimentazioni, ma questo non devo sminuirne il lavoro: suonano bene, benissimo se pensiamo a quello che attualmente producono i Jesus Lizard originali, meritandosi a pieno titolo il diritto di proseguire il loro discorso, o meglio di ampliarlo. Iniziano il disco con un bombardamento dalle sonorita' vagamente vicine ai Rage Against the Machine senza Zack de la Rocha, ma non confondiamoci: i loro riferimenti musicali sono tutt'altri. Le canzoni sono intrise di noise, blues e punk, straripanti ritmicamente e con un cantante dai discreti attributi. In questo contesto si muovono totalmente a loro agio, lanciando chili di isteria e rabbia compressa nel suono sporco, inacidito e insieme terribilmente rockeggiante. Viene spesso da pensare che David Yow gli abbia passato le loro B-side o le canzoni escluse dagli album, perche' presentano, seppure in dosi minori, lo stesso tipo di cattiveria, quella determinazione e, quell'istinto omicida, masochista, maschilista e pervertito e pedofilo che contraddistingueva le lucertolone. Mancano i potenti controtempi (manca MacNeilly), le chitarre debitamente maciullate seppur un po' sporche e il basso spesso e volentieri in prima linea. Diciamo pure che se i Jesus avessero una cattedra in laurea della musica, gli 1D Man andrebbero benissimo per insegnare la stessa materia, ma agli studenti iscritti al diploma. D'altra parte riescono a realizzare ottime canzoni e il risultato finale e' decisamente buono, di tutto rispetto. La sudditanza ai canoni altrui e' totale, ma non soffrono certamente di mancanza di idee, anzi. Amate i J.L.? Allora e' il disco che fa per voi. 6/10. Fabio Tonti Six Minute War Madness: Full Fathom Six (Santeria, 2000) I 6MWM escono nel 2000 col loro nuovo album: Full Fathom Six, 16 tracce che mettono a dura prova la maturita' della band e che danno risultati alterni. Il gruppo realizza un disco in cui, senza tanta continuita', si salta da un brano all'altro sintetizzando e cercando di riassumere in ogni canzone un pezzo della scuola classica del post-rock (termine che non vuol dire nulla ma che rende l'idea) e non solo. In ogni brano si intuiscono influenze diverse e distinte, talvolta mediate da una loro naturale predilizione per il rumorismo, soprattutto nei finali. "gli incubi" e' una canzone sospesa tra il giro di basso/chitarra cadaverico alla "don, aman", allo stesso tempo pesante ed eterea, nebbiosa. Di tutt'altro tono "uomini cattivi non ho piu' l'eta' per lasciarli vivi", incerta tra qualche timido accenno math e schitarrate alla Fugazi, seguita da "full fathom six" che pare essere un mix dei due brani precedenti. Le tracce sono poi spesso intervallate tra loro da mini-brani acustici senza titolo abbastanza accattivanti, che fanno da ponte, da trait-d'union tra le canzoni vere e proprie che cosi' vengono ad essere 10 in realta'. "VI Moravia" e' immerso in un'atmosfera simil-elettronica, asettica e distaccata, a meta' via tra Ui e Tortoise e sembra essere un po' fuori posto ripensando a quello finora ascoltato, ma andando avanti si capisce che non e' un caso, anzi c'e' proprio premeditazione nell'accostamento dei forti contrasti stilistici. Infatti subito dopo parte "prima noia", un punkettone scellerato sparato alla velocita' di un treno, con la voce acida e corrosa che urla a squarciagola (il brano prima invece era acustico) mentre la batteria gira a mille. Sempre saltando di palo in frasca, arriva "come un soffio": poche intime note, voce fievole e spezzata, timidi fiati che si udiscono appena librarsi per poi svanire, qualche accenno di intenzioni che subito si perde in nulla. Nel complesso il disco non e' poi male, ma si respira costantemente un'aria artefatta e preconfezionata. I 6MWM sembrano limitarsi a prendere come riferimento stili e canoni musicali altrui, diversi da canzone a canzone senza preoccuparsi della notevole discontinuita' e della quasi totale assenza di approfondimento. Se si esclude qualche piccola intuizione, essi attingono ben poca farina dal proprio sacco, esempio lampante ne e' "washington che urla", canzone che inizia come se fosse un tributo agli italiani Massimo Volume, anche menzionati nel testo della canzone stessa, dai quali prende praticamente tutto: ritmiche, sonorita', cantato, testi, aggiungendo ben poco: una decisa sferzata rock alla Alice in Chains che pero' ci sta sorprendentemente meglio di quanto uno non possa pensare a priori ed un discreto finale in crescendo confusionario ed elettricamente schizzofrenico (il rumorismo di cui parlavo prima). 5/10. Fabio Tonti Starfuckers: Infrantumi (1997) Gruppo incredibile questi Starfuckers, alienato, contorto, senza regole. Infrantumi, uscito nel '97, non e' un disco di musica: quello che si ascolta e' principalmente silenzio, silenzio interrotto frammentariamente da percussioni aritmiche, distorsioni anomale, note spezzate e volontariamente stonate, sussurri di voci cadaveriche e moribonde. Stupore, confusione e stordimento le prime impressioni: "ma 'sti qua ci sono rimasti, lo fanno o lo sono?". Dopo alcuni ascolti si capisce che non c'e' speranza, che sono irrimediabilmente persi. Persi nelle loro involuzioni, nelle loro depravazioni e autoindulgenze. Il concetto di musica non esiste piu'; l'ho detto e lo ripeto: il suono portante dell'intero album e' paradossalmente il silenzio, va da se' che pure quello di brano musicale e' scardinato, anzi ignorato e' la parola giusta. E allora cosa rimane? Rimane il vuoto, un enorme buco nero che risucchia a se' suoni di ogni tipo, prodotti da un qualsiasi arnese da lavoro - gli strumenti stessi sono usati come arnesi - , suoni scellerati, eretici, che delineano i contorni di un inferno senza confini, di un deserto di demoni fracassoni che si avvicinano lentamente a noi ma non ci toccano, godendo nel vederci sbiancare di paura perche' nemmeno urlare possiamo. Questa indefinibile opera d'arte si consegna direttamente ai posteri, solo loro potranno giudicare appieno le reali valenza, a me non resta che decantarne la corruzione ed il senso di smarrimento che provoca. E' un disco senza anima, ma non fraintendetemi: quello che voglio dire e' che tutto quello che ne esce pare essere la negazione, il soverchiamento di qualsiasi ordine, per pazzia o genio questo non ci e' dato sapere. Manca la materia, l'essenza, qualcosa di tangibile. Facendo un paragone (l'unico possibile che mi viene in mente) assurdo, se produrre musica e' come scolpire un blocco cubico di roccia per ricavarne la forma desiderata, quello che fanno loro e' questo: dentro il blocco c'e' una forma vuota pre-modellata (chissa' da chi) che bisogna scoprire, rivelare, ma come? Sfasciando la pietra che vi e' intorno, martellandola, corrodendola, segandola, perforandola fino a mettere a nudo il vuoto interno. Ma proprio qui sta il paradosso: una volta polverizzata la materia musicale, quello che rimane non e' forma, poiche' essa esiste solo con la materia, ma e', appunto, vuoto, niente, silenzio, assenza ingiustificata, no-soul, no-blues, no-rock, no-post. Quello che rimane e' solo l'apoteosi della anarchia. 8/10 Fabio Tonti Starfuckers: Sinistri (Audioglobe, 1995) Gli Starfuckers sono uno dei gruppi piu' importanti ed allo stesso tempo inafferrabili del panorama italiano. Degli sperimentatori piu' che innovatori, degli sperimentatori integralisti e terroristi. La loro e' una musica imprendibile, incatalogabile, inascoltabile. Il loro e' un lavoro d'avanguardia anarchica, viscerale, demoniaca ed oscura che non ha precedenti in Italia. Quello che producono sono grumi di citazioni colte, molliche di jazz ed elettronica (analogica), ombre di post-rock disidratato e scheletrico, accenni di niente e reiterazioni di silenzi e spazi vuoti. "derivazione/attesa": aritmiche frasi di chitarra e battute di batteria che imitano un lugubre rito funebre; e' il preludio al funerale del rock che seguira', come in "251. Infinito" che sembra reinventare il concetto di isolazionismo per portarlo ai limiti della disumanita': e' l'anticristo della musica, la trasfigurazione di tutto cio' che e' corrotto e decadente. Ogni canzone e' una secchiata di acido solforico in testa ai piu' grandi musicisti e compositori contemporanei. Basti solo sentire come distruggono il suono slintiano in "mutilati": ridicolizzato e ridotto a livello di un semplice esercizio accademico. Loop infiniti sconcertanti ed assenze agghiaccianti, un disco di vuoti prima che di pieni, come in "zentropia" dove l'atmosfera e' claustrofobica, irrespirabile e marcescente, otto minuti in cui non succede praticamente niente. L'unico sussulto si trova in "ordine pubblico" dove finalmente si sente qualche rumore tangibile, ma e' solo un caso, un breve sfogo si potrebbe dire, per poi tuffarsi di nuovo nel buco nero della seguente "macrofonie la" e nei 15 minuti di registrazioni dal vivo che praticamente chiudono il disco. Devo essere sincero: riuscire ad ascoltare tutto il disco dall'inizio alla fine e' per me ancora un impresa troppo ardua: sono sempre sopraffato dalla voglia di gettare tutto lo stereo, CD compreso, dalla finestra e dargli fuoco, un fuoco purificatore per le continue eresie ascoltate. Perche' questo e' un disco da eretici, da assassini e da figli di puttana, colto ed allo stesso tempo viscerale, pieno di idee ma altrettanto vuoto ed empio, osceno, irrinunciabile ed odiatissimo. Non discuto il metodo ne' il merito ne' il risultato finale. Pero' c'e' da chiedersi una semplice cosa: ma che cosa comunica un disco del genere? La musica e' prima di tutto una forma di comunicazione, voi usereste mai un telefonino che non riceve segnale? O leggereste mai un giornale di pagine completamente bianche o nere? Guardereste per ore una televisione spenta? Se no, allora non comperato questo disco: e' la quintessenza dell'anti-musica, una bomba sotto il culo di tutti i canoni e scale armoniche di questo mondo. Assurdo. 6/10. Fabio Tonti Ulan Bator: Ego: Echo (Sonica, 2000) Con Ego: Echo gli Ulan Bator provano a dare una ulteriore sterzata nelle sonorita' quanto nei contenuti musicali nel tentativo di evitare la propria saturazione artistica in campi oramai gia' battuti. Il risultato e', come spesso succede in questi casi, ancora un po' acerbo ma lascia intravvedere ottime prospettive se avranno il coraggio di proseguire e osare di piu'. "Hemisphčre" e' una dolce e toccante nenia sorretta da un piano di stampo Rachel's, eterea ed ipnotica con chitarre che sembrano sussurrare come la voce. Altra cosa e' la seguente "Santa Lucia", che richiama ai primi Sonic Youth: melodie anomale e chitarre stonate, ritmiche controtempo, voci acide e distorsioni imperanti: un panzer che avanza sul campo di battaglia ed alla fine viene colpito. "Etoile Astre" sembra essere la descrizione dell'avanzare cadenzato di un plotone militare in parata: ripetitiva, ossessiva e precisa metricamente. Mette in risalto l'"effetto ipnosi" che e' forse il marchio di fabbrica del gruppo: il continuo ripetersi e dilungarsi (a volte anche oltre misura) della medesima intuizione fino a farcela penetrare in testa come l'osservare il perpetuo oscillare di un ciondolo. "Let go Ego!" sono 16 minuti di allucinante e allucinata ipnosi portata avanti a 2 livelli: un primo piano sempre uguale che si ripete variando molto raramente ed un sottofondo in cui si alternano psichedelie di pianoforte e chitarra assieme a voci ostinatamente ossessive. Il tutto quindi sfocia in una muscolosa ballata alla Rodan per poi finire in dispersione con la sola voce a ripetere all'infinito il titolo della canzone. "LA Joueuse de Tambour" inizia con chitarre di stampo ancora "sonico", su cui si installa una ritmica di batteria saettante, agitata che accompagnera' le chitarre fino alla fine, anche quando queste si evolveranno in una rumorosa, toccante e struggente ballata ricca di chiaroscuri. Ancora degna di nota e' la conclusiva "Echo", preceduta da strane sirene d'allarme a tutto spiano, quasi a voler premonire il proprio distacco dal resto del disco. Poi silenzio e inizia una ninna-nanna tristre e stranita con tanto di coretto sottofondo che fa "Na-na-na-na-na" su cui si innesta un'atmosfera funerea e da film horror a presagire l'ennesimo cambio di registro: 3 minuti e mezzo di reiterazione di un unico riff slintiano che lascia perplessi e alquanto insoddisfatti. Nel complesso il disco ribadisce a mio parere la predilizione del gruppo per i "concept album": opere che portano avanti un discorso non solo musicale, ma artistico e (esagerando) filosofico. Il risultato e' a volte la fusione delle tematiche, a volte la scissione che risulta alquanto incomunicativa. Nel complesso e' un buon disco cervellotico. 7/10. Fabio Tonti Ulan Bator: Vegetale (CPI, 1997) Alfieri e promotori d'oltralpe, ma soprattutto intra-alpe, del suono post per eccellenza, nella sua eccezione piu' pura e primordiale. Prendete un mixer e miscelate bene 1/4 di psichedelia anni '70 con 1/4 di scuola di Louisville, aggiungete 1/4 di allucinogeni e infine 1/4 di savoir-faire ed una spruzzata di genio. Agitate bene ma non troppo ed ecco apparire il loro cocktail musicale. Colonna sonora da film impegnati e profondi, musica di sottofondo per una delle mie migliori serate tra amici. Il trio parte subito alla grande con la "Lumiere Blanche". Accordi chitarristici lasciati spaziare ed echeggiare quel tanto che basta per far provare il senso della vertigine e subito si cambia; il timbro diviene piu' granitico, deciso, quasi arrabbiato per poi perdersi quasi subito nel nulla e svanire; infine evolve in una danza di chitarre rarefatte che ciclicamente si addensano per poi salire come vapore al cielo. Canzoni cosi' danno quasi il senso dell'incompiuto ed esaltano ancor di piu' quel 1/4 di savoir-faire di cui sopra. Ma non e' un caso: e' la regola che si ripete in molti brani. "Cephalopode" in apparenza sembra essere la ghost-track di Spiderland (Slint) e piu' si procede nell'ascolto piu' questa convinzione si consolida. Tutte le canzoni hanno una durata piu' alta della "media" (perdonatemi il termine) ma non per questo si perdono in vagheggi e reiterazioni forzate, anzi i pezzi denotano una buona dinamicita', pur mantenendo sempre quel tono distaccato, quasi panteistico. 'Penteistico': questa e' forse la parola piu' giusta per descrivere le chitarre (perche' sono loro a fare da padrone, mettiamo le cose in chiaro) che, come in "Pekisch Organ", vi avvolgono modellandosi attorno in varie forme e colori. Le traccie partono da un'idea: un breve riff per esempio, e poi da quel semplice seme prendono forma, mutano, si scompongono e ricompongono (il tutto senza esagerare comunque, capiamoci). "Fievre Hectique" dimostra che anche il vapore, trasformandosi in nuvola e poi pioggia, puo' farsi notare, anche se poi subito dopo l'acqua verra' riassorbita dal terreno e scomparira'. "Hart" inizia come un film dell'horror, con violini che si librano oscuri ed inquieti in una notte buia, descritta dall'immancabile organo da chiesa, mentre si odono i passi della bestia che si avvicinano. Poi l'inquadratura si sposta verso il sole che lentamente sta sorgendo, silenzioso e placido nella sua maestosita' scaccia ogni pericolo, anche se alla fine (come in tutti i film dell'horror che si rispettino) il mostro e' sempre in agguato e attende il prossimo tramonto per ricominciare la sua caccia. In possesso di una indubbia dote musicale e di un raffinato senso della melodia, i 3 francesi non inventano niente di nuovo ma suonano talmente bene da farlo sembrare ed il disco nel complesso e' apprezzabilissimo e godibilissimo. D'altronde quali sono i gruppi che possono vantarsi di avere inventato davvero qualcosa? La storia della musica e' illuminata da tante stelle e da una quantita' infinitamente superiore di pianeti che vi gravitano attorno. Questo corpi sono opachi e in pochi li notano, ma senza di loro chi riempirebbe l'immenso vuoto tra le galassie? 7.5/10. Fabio Tonti Cut: Will U Die 4 Me (Gamma pop, 2001) Notevole, davvero notevole. Punk'n roll sparato a 150 km/h, coinvolgente, energico, caffeinico ed elettrico. Gli unici momenti di pausa si trovano agli inizi dei cortissimi brani, poi solo del buon sano rock, a volte blueseggiante (Sugar Babe), a volte con qualche spruzzatina funk (qua e la' ovunque), sempre inconfodibilmente garage nell'atteggiamento, lo-fi nella realizzazione. Scordatevi le masturbazioni mentali, buttate nel bidone il vostro espandi-muscoli; semplicemente indossate la t-shirt piu' nera e sgualcita che avete, scarpe da tennis, jeans strappati e buttatevi nella mischia. Questi Cut suonano davvero bene ed adempiono al loro scopo perfettamente, con grande fantasia di sonorita', buona tecnica ed un sorprendentemente buono cantato inglese che scorre liscio liscio tra le note. Non inventeranno niente che non sia gia' stato creato negli anni '70 (gli Stones per es.), ma in compenso faranno saltare e divertire ad ogni festa e sono talmente accattivanti che gli si perdona persino lo "Shu-bi-du Shu-bi-du-pa-pa" di "Contact". Comunque l'impressione non e' quella di una band di ragazzini scalmanati ma talentuosi (anche perche' ragazzini non lo sono proprio), piuttosto di gente che sa bene quello che sta facendo e costruisce ogni brano su una ben precisa intuizione e idea. E' un suono lascivo, primitivo, essenziale ed efficace, martellante quel tanto da renderlo quasi ballabile ma senza ruffianerie: il fatto che risulti orecchiabile e che spinga il bacino e la testa ad agitarsi su e giu' e' una conseguenza del caso, non un effetto ricercato e fine a se' stesso. E' un disco di fede pura, fede nel buon vecchio rock'n roll e in quello che puo' ancora dare ancora in termini di emozioni e di soluzioni e sentendoli suonare un po' di fede si riaccende pure nel mio cuore. E allora chissenefrega! Mi faccio contagiare dalla loro giovialita' e mi tuffo a pogare in pista con loro. 6/10. Fabio Tonti Roberto Cacciapaglia: Sei Note In Logica (Digital Masters/Ducale) E' tempo di revival e di riscoperte di alcuni vecchi dischi di culto di musica elettronica italiana degli anni Settanta, come quelli di Franco Battiato e di Roberto Cacciapaglia (Jim O' Rourke nutre un vero e proprio amore per questi eccentrici dischi italiani). A questi due musicisti va il merito di aver introdotto in Italia le intuizioni dei compositori minimalisti e contemporanei (Terry Riley e Karlheinz Stockhausen su tutti) in ambito pop. Cacciapaglia si mise in luce come esperto di sintetizzatori ed arrangiatore per "Fetus" e "Pollution", le due strampalate prove prime di pop elettronico di Battiato (che raggiunse il suo apice con i successivi "Sulle Corde di Aries", "Clic" e "M.elle Le Gladiator", coraggiose opere di rottura per la musica italiana). Cacciapaglia, nel frattempo, aveva gia` inciso, nel 1972, un disco in puro stile Tangerine Dream, "Sonanze", per la OHR di Rolf Ulrich Kaiser, uno dei maggiori produttori del rock cosmico tedesco. "Sei Note In Logica", pubblicato per la Philips nel 1978, e` un lavoro sorprendentemente maturo ed attuale, in cui gli stilemi minimalisti tipici di Steve Reich (quello di "Music For 18 Musicians") si uniscono a sonorita` elettroniche inedite ed affascinanti (si ascolti il primo movimento dell'opera e si noti di come abbia anticipato le sonorita` bislacche dei Mouse On Mars e l'elettronica digitale dei Microstoria). Tutti i movimenti del disco scorrono senza intoppi, risultando accessibili ed intellettuali allo stesso modo. Cacciapaglia, lucido e cosciente antipersonaggio, era un compositore estremamente preparato, oltre che studioso di fonologia. I critici che all'epoca vedevano in lui una 'grande promessa', a livello di vendite, si sbagliavano di grosso. Cacciapaglia era un personaggio troppo 'dotto' e difficile per emergere in modo definitivo nel 'music business', tanto e` vero che tutte queste ristampe in CD del suo catalogo sono state realizzate a proprie spese dall'autore stesso, oggi stabilitosi a Londra. Peccato che tutte le altre successive prove di questo compositore siano piuttosto scialbe. Leonardo dI Maio A SHORT APNEA Illu Ogod Ellat Rhagedia Wallace di Lorenzo Casaccia Il terzetto degli A Short Apnea, formato da Xabier Iriondo (anche nei piu' popolari Afterhours), Paolo Cantu' e Fabio Magistrali realizza con Illu Ogod Ellat Rhagedia un disco giocoso e sperimentale, nella piu' classica tradizione di Canterbury, filtrata dal post-rock di Louisville e dall'elettronica di ricerca. Le composizioni sono strutturate come delle suite, costruite sulla successione di sezioni diverse che sfumano le une nelle altre. Il primo brano si apre su un intro di disturbi e frequenze che sembra rubare la maniera all'elettroacustica ed evolve con una improvvisazione cosmica di tastiera su cui si accumulano rumori, microsuoni, percussioni casuali, fino all'ingresso della voce, che rieccheggia il Wyatt di Las Vegas Tango. La seconda parte del brano ricorda invece l'astrattezza degli Storm & Stress. In realta', pur conservando quella medesima maniera di destruttrare il brano e disintegrarne le componenti qui viene accentuata in qualche modo la componente percussiva soprattutto nell'esecuzione delle parti chitarristiche (mentre la batteria eredita il dinamismo dei Don Caballero). Il secondo brano si apre invece su una cantilena popolare surrealmente riprodotta, accompagnata da uno stridore acuto (la stessa voce accelerata?) e da percussioni da thriller. La sezione che segue mette poi in circolo i June Of 44 di The Anatomy Of Sharks per riproporre in seguito un'altra voce registrata. L'evoluzione del pezzo e' quasi quella di un racconto, di una narrazione. Il terzo pezzo ripete il gioco dei brani precendenti: uno slowcore alla Slint con un cantato inintelleggibile che poi si sposta verso il fondo si dissolve nelle divagazioni della tastiera, le quali vanno a chiudere un disco astratto e sfumato. Le foto all'interno della confezione sovrappongono il volto dei tre musicisti a quello del cadavere di Aldo Moro, nella famosa istantanea nella Renault. (7/10) MADRIGALI MAGRI Negarville Wallace Records I Madrigali Magri sono un quartetto piemontese che si abbevera alla fonte del piu' classico post-rock di Louisville. Il disco omaggia Slint e For Carnation nella musica e nelle emozioni ad ogni battuta, aggiungendoci i testi ipnotici di Giambeppe Succi. La title-track espone fin da subito l'estetica del gruppo, con la voce che sussurra e rantola come attraverso un confessionale e le chitarre che disegnano linee ostinate prese a prestito da Spiderland. Le liriche inintelleggibili contribuiscono ad un effetto di rarefazione, cui compensano sporadici accenni chitarristici lievemente melodici. Lo stesso schema e le stesse aperture si replicano in Un Posto Per Un Altro che paga altri debiti verso gli ispiratori con un suono di rullante che ricalca quello celebre delle produzioni di Bob Weston. Altrove (Non Hai Mai Pace) il raggiungimento del medesimo risultato e' affidato puramente alle parti strumentali, a scapito dell'originalita'. E' lo stesso limite di Giorno E Notte, slow-rock memore della storica Washer. Non e' un caso che i ragazzi raggiungano i risultati migliori quando eliminano le chitarre dalla struttura portante della composizione. In Uomo Ombra si limitano a punteggiare quello che e' un incedere spettrale, scandito da un battito ossessivo sullo sfondo. E altrettanto apprezzabili sono i frammenti in cui la musicalita' della voce sale in primo piano a guidare l'andamento dei brani (ad esempio nella chiusura di Parti Non Mie) Nel complesso questo e' un disco importante per lo svecchiamento della scena musicale italiana, in quanto importa forme musicali globalmente acquisite fondendole con il cantato in italiano (argomento ricorrente nel dibattito musicale della penisola). Ma d'altra parte, dal punto di vista artistico, non e' che una tappa di maturazione per la band. (6.5/10) |