La Sovranita‘ dell‘Individuo

Saggio sulla libertà in America

Luigi Corvaglia, 2000


I - La libertà bifronte

Anarchismo e Capitalismo in America

 

 

 

 

Mi fa: "Lei è anarchico?". Rispondo: "…Anzitutto di quale anarchismo stiamo parlando? Pratico, metafisico, storico, mistico, astrazionista, individualista, sociale? Da giovane", gli dico, "ognuna di queste definizioni aveva per me la sua importanza". Così iniziammo una discussione molto interessante, in seguito alla quale trascorsi due intere settimane ad Ellis Island.

Vladimir Nabokov, Pnin

1.1 - L’anarchismo come naturale portato del liberalismo dei padri fondatori.

L’Immigration Act del 16 Ottobre 1918 nega agli anarchici l’ingresso negli Stati Uniti. La citazione sopra riportata è significativa per due versi: da un lato rende chiara la preoccupazione delle autorità statunitensi affinché si ponesse un filtro per gli immigrati europei ed ebrei che ne bloccasse appunto quelli in odore di "anarchismo", dall’altro rende evidente la pochezza intellettuale e politica delle stesse autorità che racchiudevano sotto quella generica etichetta idee, esperienze, modi di sentire e pratiche estremamente disparate e sfaccettate. Idee ed esperienze che negli anni cinquanta, in epoca maccarthista, sarebbero state definite "anti-americane". Questo stesso limitato campo di visione ha causato non pochi abbagli ed errori di giudizio anche in studiosi non sprovveduti. Il punto da mettere però in maggior risalto è che, a fronte di questa seria preoccupazione per l’anarchismo degli immigrati, che vide la sua massima espressione nell’affare Sacco e Vanzetti, è opinione corrente fra molti autori che in realtà una vena anarchica e libertaria sia presente e costante nel pensiero e nella cultura degli Stati Uniti come naturale conseguenza intellettuale ed espressione dello spirito liberale dei padri fondatori. In effetti, il liberalismo delle origini è fiducia nella ragione individuale e nel progresso, tutela di un'area personale libera da intromissioni statali, antidogmatismo, rifiuto di una etica assoluta, intangibile e fissa, individualismo, sicurezza nell’armonico organizzarsi della società e del mercato, senza alcun bisogno dell’autorità.

Questa "utopia" venne bollata, al suo primo apparire, come "anarchica", vale a dire apportatrice di disordine, violenza, depravazione morale. Non a caso fra i "credits" teorici dei liberali e degli anarchici (soprattutto americani) non si ha difficoltà a rintracciare pensatori similmente seminali per entrambi. Rousseau su tutti. In effetti, negli scritti dei più famosi autori anarchici americani è facile cogliere delle chiare assonanze con il pensiero di Thomas Jefferson, ad esempio in Rudolph Rocker, ed il più noto pensatore anarchico vivente, lo psicolinguista americano Noam Chomsky, si definisce "fondato nel grande pensiero liberale delle origini" e mostra una evidente venerazione per Jefferson e Paine. L’anarchismo, quindi, come fenomeno autoctono e perfino, per certi versi, caratterizzante e costitutivo del pensare dell’America Land of free. Perché allora il filtro di Ellis Island? Come è possibile definire come anti-americane le idee fondanti l’esperimento americano e l’american way of life? L’unica risposta alla seconda domanda è che oggi si tende a salvaguardare come autenticamente "americano", termine dotato di connotazione positiva ed attestante un chiaro protezionismo culturale, tutto ciò che veniva inviso ai padri della nazione. Ovvero - è un altro modo di descrive la stessa situazione -, che le idee fondanti l’avventura sono sopravvissute esclusivamente in certo anarchismo, sia politico che culturale. La risposta più semplice ed immediata alla prima domanda potrebbe invece essere che l’anarchismo europeo, impastoiato in una visione socialista, se non eretico-marxista, della società era altra cosa rispetto all’anarchismo americano basato appunto sul culto liberale dell’individuo, naturale portato dell’ideale fondante la nazione. Risposta semplicistica che molti hanno preso per buona e che rappresenta la prima causa di fraintendimenti. Si è infatti spesso contrabbandata l'idea di una contrapposizione netta fra gli ideali anarchici professati e perseguiti dai libertari da questa e dall’altra parte dell’oceano. Di più, si è spesso sostenuto che l’anarchismo americano, proprio in quanto continuazione dello spirito dei padri fondatori, non fosse avvertito come un pericolo dalle istituzioni. In altri termini, che un pensiero esaltante l’individualità agente (lo jeffersoniano spirit of individualism) ed il libero mercato non compromettesse il sistema di vita americano.

Da questo abbaglio di fondo derivano tre fraintendimenti di non secondaria importanza: 1) l’idea che gli USA dei giorni nostri discendano in linea diretta dagli ideali libertari dei padri fondatori; 2) che l’anarchismo americano sia filo-capitalista; 3) che l’anarchismo – almeno quello americano - sia solo l’ala estrema del liberalismo così come lo conosciamo.

Questi fraintendimenti verranno di seguito dettagliatamente analizzati.

 

 

1.2 - L’humus utopico-libertario dell’esperimento americano.

Sono un patriota anarchico, cosa ben strana!

George Washington

 

L’idea che una vena libertaria sia costitutiva e perfino fondante l’esperienza americana è ormai dato acquisito e riconosciuto. E’ assolutamente ragionevole affermare che il vissuto utopico-libertario affonda le sue radici nell’humus dell’ideologia americana e che questa tragga a sua volta linfa da questo vissuto. Ciò si può affermare per due motivi, il primo, di carattere più ideologico, risiede proprio nelle dichiarazioni di principio e programmatiche dell’esperimento americano: "riduzione al minimo dell’apparato statale e dei suoi poteri, denuncia continua dei monopoli, esercizio diretto e sommario della giustizia nel Far West e altrove, ricerca di modi alternativi di vita sociale, tendenza verso la decentralizzazione e l’autogestione, grande rispetto per l’individuo, difesa accanita della libertà di espressione" (Ronald Craigh, 1987). Lo psicologo e poeta anarchico Paul Goodman amava ripetere spesso il motto di Jefferson: "ll governo migliore è quello che governa meno". Ciò sembrerebbe testimoniare a favore di una continuità fra i valori liberali della rivoluzione del 1776 e l'anarchismo. Chiameremo questo aspetto radicalismo politico. Il back-ground di questo radicalismo politico, ovvero la terra in cui esso affonda le radici, è composto da due grandi filoni di pensiero per molti aspetti contrastanti: i valori illuministici e la teologia cristiana riformata. Come dire che la vena libertaria statunitense si abbevera, oltre che alla fonte dei "padri fondatori", a quella dei "padri pellegrini". Per quanto sia difficile immaginare la Mayflower che scarica sulle coste del Massachusetts un carico di anarchici, considerato il carattere puritano e di rigida moralità dei pellegrini nel nuovo mondo, è pur vero che la filiazione dell’anarchismo, non solo americano, anche dalle sette protestanti del sei e settecento è un dato acquisito ed anche conosciuto, soprattutto dopo il recente ma già classico libro di Pietro Adamo (1993). Le sette puritane, con le loro differenti visioni, inaugurano sul territorio americano quella caratteristica contraddizione fra emancipazione libertaria e conservazione teocratica che ancora contraddistingue gli States. Questo è il primo esempio di quel tipico "bifrontismo" culturale americano in base al quale ogni concetto astratto (libertà, individualismo, ordine naturale, ecc.) dà luogo a due realizzazioni pratiche contrapposte, così come due concetti contrari possono confluire in un "melting pot" mentale per forgiarne un altro con due facce in opposizione. Ciò sarà bene evidente più in là. Ad ogni modo, già gli anarchici europei del periodo classico, come i russi Kropotkin e Tolstoj (proprio l’autore di Anna Karenina!), riconoscevano ad un ministro di culto, l' inglese John Godwin, il merito di essere stato il primo grande teorico dell’anarchismo. Le sette nate in Inghilterra sull’onda della Riforma riconsideravano il rapporto fra individuo ed autorità in una prospettiva radicalmente libertaria, individualista ed emancipativa. Il protestantesimo più radicale, cioè, si poneva in modo sovversivo portando alle estreme conseguenze le nozioni centrali della teologia riformata: fiducia nel giudizio privato, autonomia dalle autorità religiose, congregazionalismo, ovvero autogestione delle congregazioni in un regime di democrazia diretta. Alcune correnti anabattiste e libertine produssero un’estensione alla sfera civile di questi atteggiamenti "antinomiani" (espressione coniata da Lutero in senso dispregiativo), fra questi i più estremisti furono i ranters. Il clima ad essi avverso sviluppatosi in Inghilterra impose a molti cristiani riformati la scelta di ricostruire una società nuova in America, dando il battesimo, in un’unica mossa, agli aspetti più caratterizzanti dell'immaginario americano: il viaggio, la fiducia in sé stessi, l'ottimismo, la ricerca della terra promessa.

Il secondo motivo che ci permette di affermare che un humus utopico-libertario è costitutivo del pensare americano è forse meno pregnante dal punto di vista ideologico e, apparentemente, anche da quello pragmatico, ma risulta invece di fondamentale importanza da un punto di vista più latamente culturale. Si sta parlando della presenza di un chiaro filo rosso che unisce la concezione dell’uomo e della natura dei primi autori classici americani, personaggi come David Thoureau e Walt Whitman, che, passando per i movimenti "beatnick" ed hippie degli anni ’60, arriva alla psicologia umanistica contemporanea, quale la "bioenergetica" di Alexander Lowen, la "terapia della Gestalt" di Perls e Goodman, la "terapia basata sull’individuo" di Carl Rogers, fino all’attuale filosofia new age, vale a dire quella che è stata definita la "tendenza adamitica" tipica degli Stati uniti. Si tratta di una concezione quasi mistica, che paga un qualche debito al trascendentalismo di Emerson, e che ripone una enorme fiducia nell’equilibrio naturale, nella natura umana e nei suoi istinti, nella non violenza e che si coniuga con una riscoperta del corpo, della natura e dell’individualità che, ancora nell’America di oggi, si esprime, nelle sue manifestazioni a basso profilo e talvolta deteriori, nelle varie mode dietetiche e ginniche, in un canzoniere ecologista, soprattutto di matrice country, nella carica vitale del rock, nel camping selvaggio, nella credulità new age nelle energie naturali. L’insofferenza alla costrizione ne rappresenta comunque l’aspetto più caratterizzante e più interessante per il nostro discorso. Chiameremo questa visione "radicalismo culturale", intendendo con ciò un approccio anti-dogmatico e fiducioso nelle forze naturali che ne considera empio ed in cattiva fede ogni tentativo di imbrigliamento politico, economico, religioso o culturale. La manifestazione più profonda, di alto profilo, di questa concezione è rappresentata dalle teorizzazioni della psicologia umanistica americana che, pur senza dichiarati ed espliciti fini politici, rappresenta, a mio avviso, l’erede unico ma influente del pensiero libertario delle origini, quello della dichiarazione d’indipendenza. L’idea che guida questo saggio è infatti quella che l’ideale libertario classico della rivoluzione americana sia andato avariandosi e che gli attuali Stati Uniti ne rappresentano solo una forma imbastardita, formalmente liberale e democratica, ma nell’essenza spesso in antitesi a quell’ idea. Per far ciò dovrò dimostrare che l’anarchismo americano, che proprio in quelle idee è fondato, è chiaramente avverso alla attuale strutturazione politica, economica, sociale e psicologica degli USA e dell’Occidente intero. Metterò poi in rilievo un dato mai segnalato, cioè la già citata sopravvivenza di quelle idee nella tradizione psicologica americana. Procederò a questa dimostrazione in due mosse: la prima, ricucendo la fasulla frattura fra i libertari europei e quelli del nuovo mondo, la seconda, mettendo a confronto le due ali estreme dei cosiddetti liberalismi, quello politico e culturale, rappresentato dall’anarchismo di Chomsky e Goodman, e quello esclusivamente economico, ovvero l’anarco-capitalismo di Rotherband e Friedman, che si riveleranno assolutamente incompatibili, con ciò mettendo a nudo la mistificazione del "liberalismo realizzato", non meno grave di quella perpetrata dai regimi comunisti nei confronti del socialismo.

 

 

1.3 – L’imprinting libertario della cultura americana.

Si è già detto del tributo, in realtà non riconosciuto, che la cultura americana paga al trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson. Non deve aver studiato filosofia o letteratura perché un americano medio possa definirsi trascendentalista. Egli può anche non averne sentito mai parlare e comunque essere intrinsecamente trascendentalista, esattamente come gli europei di fine ottocento erano nietzchiani e, secondo Ellenbergher, quelli del novecento sono freudiani senza esserne consci. L’immersione in un ambiente culturale, soprattutto nell’epoca dell’informazione, non può non produrre una tendenza alla conformazione. Si definirono "trascendentalisti" un gruppo di poeti e narratori riuniti intorno all’Emerson e che, proprio in ragione del loro estremo individualismo, è difficile inquadrare in una filosofia unitaria. Di certo si trattava di una sorta di idealismo che affermava una perfetta rispondenza del macrocosmo con il microcosmo, ovvero dell’anima individuale con quella dell’universo. Insomma un generico orientamento vagamente idealista, estremamente fiducioso nelle forze autonome del singolo (self reliance) e pertanto fortemente ottimista. Tutto ciò, oltre che in una forma ed in contenuti poetici facilmente riconoscibili – in seguito volgarizzati ma ulteriormente diffusi da certi songwriters crepuscolari – si esprimeva in una sempre minore accettazione delle fedi rivelate o comunque dei dogmi non passibili di discussione, un fallibilismo, quindi, che ben si conciliava con il relativismo liberale. Alcuni trascendentalisti, poi, ad esempio Amos B. Alcott, non trovarono grosse incongruenze nel coniugare il loro spinto individualismo con una teorizzazione e perfino con la sperimentazione – la famosa comunità di Fruitlands ad Harvard – di una società basata su principi di completa uguaglianza, comunista ma non collettivista. Si coglie quindi quel legame profondo fra cultura e sperimentazione sociale che, sottaciuto da storici ed osservatori del pensiero americano, invece ne è uno dei tratti dominanti. E’ questa cultura che fa esprimere la stessa persona, Henry David Thoureau, in frasi apparentemente molto distanti fra loro. Thoureau, non personaggio secondario bensì una delle più autorevoli e rappresentative figure di pensatore statunitense, trascendentalista, l’uomo che scrisse : "dite a Shakespeare di attendere perché ora sono impegnato con questa goccia di rugiada", è lo stesso che si è espresso nei seguenti termini: "I miei pensieri nei confronti dello stato sono omicidi e segretamente complottano contro di lui". C’è, in Thoureau, molto, se non tutto, l’armamentario culturale che ha forgiato, nel bene e nel male, il pensiero americano in termini di individualismo, sperimentazione, rifiuto dell’autorità. Ebbene, non esiste anarchico, americano od europeo, con non faccia tributo di riconoscenza al suo Civil Disobedience, libro in cui esprime la necessità di non obbedire alle leggi per protestare ed indebolire lo stato ("sotto un governo che imprigiona ingiustamente, il posto del giusto è la prigione"). A questo scritto hanno più volte fatto riferimento anche profeti della non violenza come Tolstoj e Gandhi. In ciò che scrive Thoureau, nella sua stessa vita, dimostrazione di coerenza fra quanto diceva e le sue azioni - per due anni in volontario esilio lontano dalla civiltà, una volta in carcere per aver rifiutato di pagare le tasse – non v’è nulla che appaia eccezionale in un libertario; quello che invece qui si vuole rimarcare ai fini del nostro discorso è come queste manifestazioni libertarie non siano espressione di una cultura minoritaria e deviante, bensì la naturale conseguenza, semmai l’estremizzazione, di una cultura comune, palesata da uno dei personaggi letterari più noti del panorama americano, scoglio per ogni studente che voglia superare il secondo anno di inglese all’high school, quindi parte integrante del bagaglio culturale dell’americano medio, tanto da divenire quasi una sorta di imprinting, per utilizzare un’espressione di derivazione etologica. Nessuno perciò trova strano che al suo Civil Disobedience si rifacciano esplicitamente gli studenti del movement degli anni 60 e, affermandolo spesso, anche Martin Luther King e in pratica tutto il pensiero radical americano, dove per radical si intende una adesione completa ai principi fondatori di libertà. La necessità avvertita da questi radicals di riaffermare i principi della costituzione sta ovviamente ad indicare il loro generale abbandono.

 

 

1.4 - Il sogno americano ed il mito della frontiera

 

I principi della Costituzione. Quella americana è l’unica che contempli fra i diritti inviolabili quello alla "ricerca della felicità". La tensione verso un fine è ciò che caratterizza questa rispetto ad altre carte costituzionali che esprimono "desiderata" più statici. Tendere verso qualcosa, viene da sé, implica, in primo luogo, il concetto di movimento, di mobilità, in secondo luogo, il prerequisito che tale mobilità sia possibile. In altri termini, la costituzione degli Stati Uniti afferma la possibilità per tutti di raggiungere la felicità, qualunque cosa essa voglia dire. Alexis de Toqueville, nella sua celeberrima esaltazione della democrazia americana, la descrisse come la concreta realizzazione dell’ideale illuministico di libertà, tolleranza ed uguaglianza di opportunità. L’elemento centrale di questo santificato "credo americano" è proprio il concetto liberale delle pari opportunità; gli uomini cioè essendo tutti uguali, dovranno essere forniti di un contesto istituzionale e culturale in cui a ciascuno – indipendentemente dalla propria razza, lingua, religione, origine sociale – sia data la possibilità di competere in vista del conseguimento delle più alte vette in ciò che ritiene importante (rendendolo pertanto "felice"). Ogni uomo, quindi, decide individualmente dei propri obiettivi e come raggiungerli, senza dover dare conto ad altri. De Toqueville ci ha fornito a tal proposito quella che è la più abusata delle figure retoriche del "sogno americano", quella dell’ "orchestra" in cui tutti gli strumentisti armonizzano insieme la stessa musica ma ad ognuno è concesso di esprimersi un "assolo". Segno tangibile di tale strutturazione aperta e fiduciosa è considerata quella che è poi la caratteristica principale dell’ american way of life, ovvero la straordinaria mobilità del popolo americano. Tale mobilità è da intendersi in due accezioni, ovverosia nel senso di una "mobilità verticale" e di una "mobilità orizzontale". La mobilità verticale è rappresentata dalla possibilità di cambiare status sociale, di "arrivare", di salire la scala del prestigio, mentre la mobilità orizzontale è il movimento nello spazio, da luogo a luogo. Quest’ultimo tipo di mobilità è altamente caratterizzante il modo di vita americano ed è spesso considerato un indice di "modernità", viste le sue implicazioni in termini di libertà per gli individui, di autonomia delle popolazioni rurali, ma soprattutto per la possibilità di esplorare e di tentare la sorte altrove, senza essere agganciati al luogo di origine, al vecchio. Ciò viene visto come una precondizione alla mobilità verticale.

Esplorare zone "ignote", non solo in termini spaziali, ed insediarvisi è il leit motiv della cultura americana. Ciò è segno di una strutturazione mentale aperta ma anche della storia del paese, in cui un confine immaginario e indefinito fra il mondo civilizzato ed il selvaggio West, confine noto come "la frontiera", si spostava continuamente in direzione della California alimentando l’ottimismo e la fiducia nel futuro basata sulla possibilità di usufruire di un immenso paese vergine in cui i giochi non erano già scritti come nella vecchia Europa o nelle ex colonie dell’ Est e tutto ancora possibile. Ottimismo, competizione, tenacia, sperimentazione, indipendenza sono i "valori della frontiera" che ancora oggi informano la cultura nordamericana. La produzione letteraria e cinematografica statunitense ha da sempre svolto la funzione di alimentare il mito del tenace individuo della frontiera e del lonely rider , non di rado sfociando in una sorta di filo-anarchismo individualista, come in autori quali Sam Peckinpah e John Carpenter.

Senz'altro è vero che questo paese, non ostante tutto, rimane improntato sull’idea della open road, espressione che il poeta Walt Withman, altro classico del pensiero americano, altro libertario, utilizza per descrivere un approccio ed una disposizione. Un approccio alla vita improntato alla fiduciosa sperimentazione, con una conseguente facilità a sbarazzarsi del vecchio, ed una disposizione reale a farlo, al punto da rendere la ricerca stessa il fine dell’esistenza. La strada stessa, nel suo reale senso fisico, assurge a simbolo e a mito, non più linea che unisce due punti, bensì universo autonomo impregnato di un’epica in progress, che sembra tradurre in realtà l’astratto concetto di "ricerca" e diviene quindi più importante della meta da raggiungere. Il mito della frontiera continuamente spostata verso Ovest da individui tenaci, la successiva corsa all’oro verso la California, divenuta la nuova, secolarizzata, promied land, per gli hobos cantati da Woody Guthrie come per i contadini dell’Oklhahoma descritti da John Steinback in viaggio sulla route 66 durante la "Grande Depressione", è la riproposizione, in una sorta di "eterno ritorno", di un "programma" culturale il cui manifesto programmatico è l’ormai abusato romanzo di Keruac ("Non importa dove, ma bisogna andare", on the road) ma la cui universalizzazione e costante rivitalizzazione è assolutamente multimediale. Cinema e rock veicolano da sempre questo mito riproponendo l’equazione strada = libertà. Il "nato per correre" è l'ultimo prodotto epico dell'occidente, l'ultimo degli eroi romantici.

Il rischio insito in simili concezioni è però quello che si finisca in un libertarismo non anarchico nel suo senso più puro ma in una semplice disposizione antiautoritaria ed anticonvenzionale, in un Life Style Anarchism - la definizione è di Murray Bookchin - non solo scollegato da ogni pretesa di aggiustamento sociale, ma spesso in antitesi a questa. Come ha scritto Fernanda Pivano " …Kerouac proponeva un decondizionamento totale fino all'irresponsabilità, l'annullamento del Super Io o di qualsiasi controllo, il rispetto soltanto dell'energia vitale".

Ad ogni modo Easy Rider, il cult movie di un epoca e di una filosofia, finisce in modo tragico: il redneck, simbolo dell’altra America, quella bigotta e reazionaria, mette fine alla corsa di Peter Fonda-Capitan America e Dennis Hopper, i novelli cavalieri solitari dell’epoca psichedelica, con un gesto di gratuita violenza. Quella scena racchiude ed esprime perfettamente la doppia faccia del paese e si fa metafora del sopravvento di una sull’altra. Nel molto più recente Natural Born Killers , di O. Stone, a sparare sulla gente inerme sono i "riders", gli uomini in viaggio, in onore di quel "bifrontismo" che, abbiamo detto, informa di se quasi ogni aspetto della vita americana. La doppia faccia dei valori della frontiera appare qui in tutta la sua eloquenza.

 

 

 

1.5 - Promised land, rock’n’roll e altre storie. Individualismo e sperimentazione

Paese nato da un viaggio e da una sperimentazione, gli USA sono essi stessi l'ultima utopia dell'occidente. Tutti i classici difensori della tradizione federalista americana, da Lord Bryce a Franklin D. Rooosevelt, hanno creduto in questa utopia le cui fondamenta sono la ricchezza originata dalla diversità e la possibilità di sperimentare nuovi sistemi in spazi limitati per poterli correggere prima di applicarli in tutto il paese. Paese vergine, non inquinato da incrostazioni storiche di potere o da strutture e sovrastrutture di qualunque genere, l' America rappresentava l'unica possibilità di creare ex novo una società giusta e piena di opportunità, fosse questa la Gerusalemme terrena, la società collettivizzata o la società senza autorità. L'intera storia dell' 800 - ed anche dei primi anni del '900 - è costellata di esperienze di comunità ideali. Quello che gli storici non ci hanno tramandato è che la stragrande maggioranza di queste esperienze era rappresentata da comuni anarchiche, pensate appunto come l'espressione più pura dello spirito dell'America. Ronald Creagh (1987) ci porta un cospicuo numero di storie di questa utopia vissuta: Altruria (socialisti cristiani della California), Fruit Hills, Point Hope, Praire Home, Tuscarawas, Utopia e Spring Hill (Ohio), Freeland (Maryland), Home (Washington), Freedom Colony (Kansas), Mount Airy Colony e Mohegan (New York), Sunrise Cooperative Farm Community (Michigan), fino alle più note Stelton (New Jersey), che ruotava intorno alla scuola moderna ispirata al pedagogista anarchico spagnolo Francisco Ferrer, New Harmony (Indiana), fondata personalmente da Robert Owen, Kendal (Ohio), fra i cui fondatori è Josiah Warren, e Skaneateles (New York). Questo solo per citare le più note; un fenomeno che, in un paese pochissimo abitato, coinvolgeva migliaia di persone. La "ricerca della felicità" che gli Stati Uniti, unico paese al mondo, contemplano fra i diritti fondamentali garantiti dalla propria costituzione, si esplica tipicamente nella sperimentazione e nella pratica, una utopia che - in totale accordo con le idee del federalismo americano - è costantemente sottoposta al vaglio dell'esperimento e costantemente modificata dall'ingresso di nuovi elementi. Questo accordo, ancora una volta, potrebbe ingenerare l'illusione di una continuità o, comunque, una contiguità, fra l'America come istituzione e quella libertaria. In realtà, già a qui tempi, il governo statunitense aveva preso le sue distanze dalla dichiarazione di indipendenza e guardava con sospetto questo fiorire di esperienze così intimamente americane. Da questo punto di vista, ed anche ai fini del nostro discorso, il personaggio più importante è Josiah Warren. Egli è considerato il principale esponente dell' "individualismo anarchico" . Il lettore europeo che non fosse introdotto al pensiero libertario verrebbe tratto in inganno da una simile definizione. Egli, cioè, sarebbe portato a considerare il Warren come un fautore dell'egoismo e dell'asocialità, ciò a causa dell'utilizzo erroneo che i liberali hanno compiuto del termine e del concetto di "individualismo". Questo fraintendimento ingenererebbe - e di fatto ingenera - la concezione di un anarchismo che altro non sarebbe se non la forma estrema di certo "liberalismo" imperante e di cui gli attuali Stati Uniti rappresentano la più compiuta delle manifestazioni. Lungi dal configurarsi come il classico egotismo borghese o con la competizione intesa come sconfitta per il prossimo, invece, l'individualismo di Warren ( e di Tucker, di Spooner, e compagnia) era in realtà teso all'esaltazione delle qualità individuali proprio per farne il fondamento dell'armonia sociale. E' un individualismo che non comporta la chiusura in se stessi, bensì la rivendicazione di ciascun individuo di decidere del proprio destino in prima persona e di disporre dei mezzi necessari a questo fine. Si noterà come questo concetto di "sovranità individuale", espressione che poi gli ruberà John Stuat Mill, vada a sovrapporsi esattamente a quello di self-reliance di Emerson, così come non apporti storpiatura o deviazione alcuna ai propositi fondanti espressi nella Dichiarazione di Indipendenza. Il Warren, poi, in ottemperanza alla attitudine americana per la sperimentazione fallibilistica, si impegnò materialmente nella attuazione pratica delle sue idee dando luogo a varie comunità antiautoritarie. In tal senso è vero il riconoscimento di una continuità fra il pensare americano e l'anarchismo autoctono, anzi, addirittura l'essere questo tutt'uno con l' "esperimento americano" come individualismo, ricerca e sperimentazione. L'errore sta nel considerare l'evoluzione degli USA come la giusta espressione e continuazione di tutto ciò.

La riconversione di un concetto nel suo opposto vede come territorio di osservazione privilegiato gli USA. E' significativo, infatti, che la stessa commistione di religiosità e di individualismo che ha fondato le migliori esperienze libertarie del passato, sia alla base anche delle più deleterie e terribili manifestazione di furia omicida negli Stati Uniti, negli ultimi anni. Non sono infatti rari, nei proclami più o meno farneticanti di quella folta fauna di fanatici armati che danno luogo a quel fenomeno costituito dalle varie "milizie", l'eco delle cui insensate azioni violente giunge fino in Europa, gli stessi riferimenti a Thoureau ed al suo orgoglio di autodeterminazione e alla sua rivendicazione di ritorno a un più intimo rapporto con la natura, che si era visto alla radice dei fermenti più positivamente radicali ed anarchizzanti del Movement, perfino citato nei manifesti hippie.

Un diffuso senso di rivolta nei confronti dell'autorità statale, in particolar modo federale, serpeggia da sempre nella provincia americana ma, se proprio vogliamo trovare dei riferimenti appropriati, più che ai testi di Thoureau bisogna rivolgersi a opere inquietanti come The Turner Diaries, romanzo apocalittico scritto dal profeta dei suprematisti bianchi Williams Pierce nel 1978, e a tutto quel folto nugolo di libelli e panphlet pseudo-anarchici, il più famoso dei quali, The Anarchist Cookbook, propone delle ricette per fabbricare le bombe in casa. Tutta questa pubblicistica che ormai rappresenta un folto sottobosco infestante la rete telematica, non è altro che l'espressione del più becero conservatorismo redneck. Con differenze in genere marginali, tutti questi gruppi rivendicano l'autodeterminazione dell'individuo, consistente fondamentalmente nel diritto di armarsi e di non pagare le tasse, e l’autonomia della comunità contro lo Stato, i negri ed il complotto globale contro gli USA ordito dagli ebrei. Le parentele più prossime non sono certo con l'anarchismo classico, né europeo né americano, non con Thoureau, o Warren, non con le esperienze comunitarie ottocentesche citate in precedenza, ma con il Ku Klux Klan e il fondamentalismo cristiano. Spesso anche questi gruppi istituiscono delle comunità, come prima di loro avevano fatto socialisti ed anarchici ottocenteschi, ma queste si configurano più che altro come enclave chiuse, non sperimentazioni di convivenza positiva ed aperta ma separazione dei "liberati" dalla ingiusta e repressiva società esterna. Il prototipo di queste enclave è Elohim City, sui monti Ozark in Oklahoma. Niente a che vedere con le esperienze citate in precedenza, si tratta di una congrega di fanatici che profetizzano un apocalisse su base razziale che vedrà la vittoria del popolo bianco. Così nell' "Unabomber" , il professore di Matematica dell'Università di Stanford che spediva in giro per gli States pacchi bomba diretti a persone che riteneva in qualche modo colpevoli della piega tecnologica ed anti-ecologica presa dalla società, il richiamo a Thoureau avveniva solo come esempio di individuo che si allontanò per due anni dalla civiltà per vivere in una capanna a Walden, privo di ogni comodità moderna ed "intento a contemplare le stelle", esempio che l'Unabomber seguì accuratamente abbandonando la carriera di geniale matematico per abbracciare quella di eremita-terrorista-ecologista che si richiamava all' "anarchismo individualista" dei libertari ottocenteschi. Al di là di questi casi noti, il problema è più serio di quanto comunemente si pensi. Non passa anno che non giunga la notizia di qualche poliziotto ucciso nella sterminata provincia per aver tentato di multare un automobilista che non ha rinnovato la patente o abbia violato qualche altra legge - meglio se federale - in nome della sua (americana) sovranità individuale.

In questo senso ha più che ragione Piero Scaruffi nell'affermare che " rispetto agli anarchici tradizionali, quelli europei, gli anarchici americani discendono dai peggiori punk di fogna, non certo dai socialisti". Ma così dicendo si convalida la visione di un anarchismo americano che si esprime esclusivamente nei termini sopra esposti. In realtà, questa gente considera l’anarchia come un hobbesiano mondo di tutti contro tutti, una guerra perenne nella quale i migliori individui (in termini di "autosufficienza" ) prevalgono. Questa è in genere la visione che dell’anarchia hanno i non anarchici, i reazionari ed i ben pensanti, con l’unica differenza che quest’ultimi vedono tale scenario come non auspicabile mentre questi cowboys individualisti guardano a ciò come a qualcosa di desiderabile. Si tratta insomma di una visione di destra che si puntella sugli ideali della frontiera e che non si può commettere l’errore di affiancare al vero anarchismo americano per il solo fatto che esso ha sempre premuto sulla autonomia dell’individuo. Il concetto base anarchico è infatti che solo la valorizzazione degli individui permette l’armonia sociale.

Un altro fraintendimento a questo collegato è quello che confonde il libero mercato professato dall'anarchismo individualista con la attuale strutturazione capitalistica, al punto che non pochi liberisti ultrà non si vergognano di utilizzare il nome di Warren o di Tucker come riferimenti nobili. Basta leggere con attenzione i testi di questi autori per rendersi conto di come il considerare gli anarchici storici americani dei paladini del capitalismo sia una forzatura notevolissima in direzione contraria al loro pensiero, quindi una cosciente e volontaria falsificazione. Già in Warren è evidente l'aspetto essenziale che costituisce la riforma economica nel suo programma. Uno dei suoi testi principali, Equitable Commerce, fissava un punto fermo e basilare del suo pensiero, quello del "costo come limite del prezzo" che molto difficilmente potrebbe risultare gradito ai moderni fautori del mercato capitalistico. Discorso ripreso ed amplificato in True Civilization.

I nomi di Warren, Tucker, Spooner, Greene ecc vengono quindi spesi esclusivamente per puntellare un individualismo egoista che è anarchico nel suo senso deteriore, cioè quello che si intende nel comune utilizzo del termine anarchia, vale a dire disordine, violenza e depravazione, contro un anarchismo come teoria dell'organizzazione sociale autonoma ed ordinata dal basso come ipotizzata dai filosofi politici.

 

 

 

 

1.6 - Anarchismo americano ed anarchismo europeo

Tutto ciò che è dannoso per la classe operaia

È un tradimento contro l’America (…) Se qualcuno

Vi dice che ama l’America ma che odia la classe operaia,

questi è un mentitore. Se qualcuno vi dice che ha fede nell’America,

ma ha timore della classe operaia, questi è un pazzo.

A. Lincoln

E’ bene sgomberare il campo da alcuni equivoci. Si è già detto di come certo individualismo non possa passare sotto la definizione di anarchismo, tutt’altro; che l’anarchico individualista americano non presenta affatto le caratteristiche hobbesiane dell’ homo homini lupus. Bisognerà ora passare a dimostrare come questo stesso anarchismo americano non presenti affatto le caratteristiche filo-capitalistiche che molti, anche in ragione di tale individualismo, gli imputano. Per far ciò bisogna chiarire l’equivoco di fondo sul quale questi fraintendimenti si fondano, ovvero che esista una insanabile differenza fra l’anarchismo americano e quello europeo.

E' vero che esistono delle differenze di fondo fra anarchismo europeo ed americano - più orientato in senso socialista e rivoluzionario il primo, più in senso liberale e riformista il secondo - ma queste dipendono in gran parte, se non esclusivamente, dalla differente storia - ovvero dalla mancanza di storia - del movimento libertario americano e da un differente inquadramento geografico-economico, non da una reale differente disposizione psicologica. E’ bene rimarcare che l’anarchismo europeo nasce come parte del movimento operaio, quindi da una organizzazione antagonista, dal quale si distacca al congresso dell’Aja del 1872 per insanabili contrasti con la corrente "autoritaria" legata a Marx ed Engels, mentre l’anarchismo americano non conosce "strappi" e si considera il continuatore e niente affatto l’ antagonista della cultura liberale, bensì il suo difensore. Da ciò deriva la maggior propensione dell’anarchismo europeo per una soluzione rivoluzionaria che alteri l’attuale stato delle cose, secondo la tradizione del movimento operaio, mentre si comprende in modo analogo la diffidenza con cui gli anarchici americani, che non conoscevano il dispotismo della classe padronale, guardavano a concetti come "insurrezione" e "propaganda di fatto".

Ciò, però, non implica una insanabile distanza teorica ma, semmai, una notevole differenza operativa. Questo perché la "sovranità dell’individuo", principio basilare dell’anarchismo dall’una come dall’altra parte dell’oceano, se era ancora un’utopia in una Europa ancora bagnata dal sangue delle rivoluzioni, era invece già un dato di fatto per gli anarchici americani. Come è stato notato, essi ne erano piuttosto "i depositari, i custodi, i difensori contro le minacce livellatrici portate dal rampante capitalismo americano". Viene da sé che i libertari europei si trovavano a combattere in posizione arretrata una battaglia che quelli americani non avevano mai dovuto combattere, pertanto il ricorso alla violenza, probabilmente necessario nel primo caso, diveniva inutile e fuori luogo in un clima liberal-democratico. Questa pur fondamentale differenziazione, comunque, non arrivò mai a investire il nucleo fondamentale della fede anarchica: la critica dell’autorità. Mai, soprattutto, il socialismo dei primi, gli europei, fu a detrimento dell’individualismo, mai l’individualismo dei secondi fu concepito in termini filo-capitalisti.

Certo, l'anarco-comunismo di Errico Malatesta o di Emma Goldman è altra cosa rispetto all'individualismo anarchico di Benjamin Tucker, ma stiamo parlando di correnti, non di un anarchismo europeo tout court contrapposto ad un altrettanto unitario ipotetico anarchismo americano. Si pensi che il massimo esponente dell'individualismo anarchico rimane il tedesco Max Stirner, mentre l'americano Rudolf Rocker, esprimendo una visione diffusa, definì l'anarchismo come "socialismo volontario". Questa dichiarazione rispecchia perfettamente quanto affermato in Europa dai cosiddetti "giganti" dell’anarchismo classico, ad esempio Pierre Prodhon. L'italiano Camillo Berneri, ucciso dai comunisti durante la guerra civile in Spagna, definì, sulle pagine di "rivoluzione Liberale", la rivista di Piero Gobetti, gli anarchici come "i liberali del socialismo", non cogliendo affatto una incongruenza in ciò. Pertanto se è vero - come è vero - che l'anarchismo americano si è storicamente improntato, in linea di massima, in senso liberale e quello europeo, per lo più, in senso socialista, non ne consegue affatto che fra le due correnti non corresse buon sangue. Chi credesse questo dimostrerebbe di ignorare che è proprio la coesistenza di queste due anime il nucleo centrale e fondante dell'anarchismo. Pertanto ogni anarchico è un individualista non egoista o, come ha detto Alan Ritter, un "individuo comunitario", concetto molto simile a quello elaborato dallo scrittore e filosofo francese Marcel Camus. Scrisse Benjamin Tucker: "il più perfetto socialismo è possibile soltanto sulla base della realizzazione del più perfetto individualismo".

Si consideri, a mò di significativo esempio, quanto profondamente anarchica in senso socialista e, al contempo, intimamente americana sia stata l’esperienza dei wobblies. Si trattava di un sindacato denominato Industrial Workers of the World (IWW), nato nel 1905 in reazione all’inconcludenza dell’American Federation of Labor, ed il cui mai celato fine era il rovesciamento finale del capitalismo e l’abolizione del sistema salariale, da raggiungersi mediante l’azione diretta dei lavoratori. Circa l’atteggiamento anti-capitalista dell’IWW non si possono quindi nutrire dubbi. Lo stesso dicasi per l’orientamento libertario dei wobblies, come si definirono gli iscritti all’IWW. La diffidenza verso l’azione politica ed il voto sono stati infatti uno dei tratti distintivi del movimento. Scopo dell’azione politica era la sostituzione dei detentori del potere mentre quello dell’azione dell’IWW era la sua abolizione. "Ci opponiamo allo statalismo" si legge su Why, uno dei wobbly papers, "… lo stato è il nemico e gli ‘statalisti’ (…) sono oppositori della organizzazione volontaria, del controllo volontario e della proprietà volontaria". Un sindacalismo industriale dal basso nella scia del puro anarco-sindacalismo di matrice europea ma la cui forma privilegiata di lotta fu quella definita delle free speech fights, le battaglie per la libertà di parola, il primo diritto sancito dalla costituzione degli Stati Uniti. Partendo da questa fondamentale libertà di espressione, i wobblies facevano conseguentemente seguire quelle di propaganda ed attività sindacale. E’ lo spirito puro dell’America che lo consente. Si è infatti notato come questo tipo di agitazione si vada appunto ad inserire nella lunga tradizione libertaria propria dell’epopea americana. Altri sistemi di lotta propagandati dall’IWW sono familiari a qualunque osservatore della storia recente degli Stati Uniti. Azione diretta, resistenza passiva, sabotaggio, sciopero sul posto di lavoro sono l’armamentario pratico e concettuale del radicalismo yankee da sempre ed hanno avuto massiccio utilizzo nella storia dell’agitazione in terra americana, dalla lotta per i diritti civili degli anni ’60, fino ai fatti di Seattle alla fine del XX secolo. La continuità, però, fra il radicalismo liberal d’oggi e la vena libertaria dei padri fondatori è da rintracciarsi soprattutto negli espliciti riferimenti degli autori wobblies alla Dichiarazione d’Indipendenza. In modo ancora più esplicito, l’inquadrarsi dell’IWW lungo questo filo rosso, nonché la continuità dello stesso a partire dalla rivoluzione del 1776, venne chiaramente espressa da The Agitator, altro importante giornale del sindacato, allorchè espresse la concezione delle "tre rivoluzioni":

La prima, la Rivoluzione Americana propriamente detta, aveva liberato le colonie dal giogo britannico, ma non aveva modificato la condizione di sfruttamento della classe operaia; la seconda, la Guerra Civile, che aveva abolito la schiavitù, risolvendosi in una sorta di vittoria dei capitalisti manifatturieri su quelli agricoli, senza ancora una volta emancipare i lavoratori; la terza, cioè lo scontro in atto fra capitale e lavoro, che vedeva finalmente protagonista la classe operaia e che avrebbe determinato l’abolizione del sistema salariale.

Insomma, negli Stati Uniti, già dal tempo della scelta federalista, stato e governo sono sempre guardati con sospetto, la Carta dei Diritti aveva già sancito la libertà di parola, di stampa, di associazione e di culto, l’ "azione diretta" è espressione del pragmatismo pionieristico della frontiera. L’ IWW ed il resto del pensiero radicale americano, quindi, non inventano nulla, essi ricordano i concetti fondamentali ad una maggioranza che li ha dimenticati. Si vuole qui, in altri termini, sia ribadire la mancanza di una frattura reale fra l’ideologia americana, così come originariamente intesa, e il libertarismo anarchico posteriore in terra d’America, sia contrastare l’idea di un filo-capitalismo in cui l’individualismo dell’anarchismo statunitense dovrebbe necessariamente andare a parare. E’ allora funzione dell’élite governativa trasformare i concetti in pratiche antitetiche, difendere uno status quo realizzatosi a scapito dei valori fondanti, definire anti-americane le pratiche miranti al recupero degli ideali di libertà. In altri termini, se l’America ed il suo sogno sono una idea di libertà, gli attuali Stati Uniti, come vedremo meglio in seguito, non ne sono affatto la logica conseguenza. Paradigmatica, a questo proposito, è l'esperienza della coppia formata dai due anarchici russi Emma Goldman e Alexander Berkmann. Pur riconducibili entrambi alla corrente più filologicamente marxista dell'anarchismo europeo, pur rivolgendosi primariamente alle classi operaie, alle "masse", permane, al cuore del loro discorso, un culto dell'individuo che li porterà a vedere nell'America la possibile terra anarchica. Il "sogno americano" coincide, nella mente dei due anarco-comunisti, con la realizzazione degli ideali della Rivoluzione del 1776. La loro critica nei confronti dell'America era nell'aver fallito nella realizzazione dei suoi ideali di Libertà ed Eguaglianza. Dopo anni di attivismo diretto al fine di tradurre il realtà il sogno chiamato America, la crudele ironia volle che la coppia fosse espulsa dal paese per "attività antiamericane".

 

 

1.7 - Lo Stato dell'Unione: la truffa del liberalismo realizzato

Nobody For President

Slogan di Wavy Gravy per la campagna presidenziale del 1994

Forse nessuna altra storia rende più evidente di quella di Berkmann e della Goldman la paradossalità di una situazione che teoricamente promuove il libero dispiegarsi delle energie autonome dell'individuo contro i dettami della società comunitaria - il "sogno americano" -, ma nella pratica condanna i suoi figli più sognatori e pericolosi per l' establishment. Chi manifesta uno spirito individuale in America è un sovversivo. E' una affermazione che può apparire assurda, paradossale ma tant'è. Studiosi di cultura americana, tutt'altro che sospetti di anti-americanismo, sono concordi nell'affermare ciò. Gli antropologi Ruesch e Bateson candidamente affermano: "…l'arbitro ed il censore della moralità americana non è il singolo individuo; l'autorità è invece conferita al gruppo", tutto viene organizzato "… in modo che la gente possa ottenere l'approvazione morale delle proprie azioni mediante una partecipazione attiva", "In America vengono considerate con sospetto le opinioni individualistiche: c'è risentimento nei loro confronti, in quanto esse eludono l'iirigidimentazione provocata dalla pressione sociale" (1975), con buona pace di Jefferson e compagni. Sia detto come aggiunta che queste affermazioni vengono fatte in un contesto di assoluta esaltazione dei valori americani. Il conformismo è il tratto più caratterizzante di questo popolo. Questa paura del diverso ha prodotto varie vittime illustri fra i liberali autentici come, ad esempio, Bertrand Russell, filosofo, pacifista e matematico inglese, una delle maggiori menti dell'età moderna, che è stato anche il più grande divulgatore e propagandista del "libero pensiero" del XX secolo. Egli considerava naturale che una persona dotata di intelligenza dovesse essere "liberale". I liberali Stati Uniti d'America, nel 1940, lo misero al bando dopo un ciclo di conferenze all'Università di Los Angeles. Gli argomenti contestati erano le critiche e la disapprovazione nei confronti della morale corrente in tema di sessualità, matrimonio e famiglia. Individualismo liberale vorrebbe che ognuno fosse libero di scegliere autonomamente i propri valori, la propria idea di felicità ed i mezzi tramite i quali ottenerla, come previsto dalla dichiarazione d'indipendenza. La pratica "liberale" americana è assolutamente in antitesi a tutto ciò e rappresenta la rivincita del puritanesimo protestante, ovvero dei "padri pellegrini" sui "padri fondatori".

Un altro attento osservatore dell' homo americanus, lo psichiatra Paul Watzslavick, in un suo divertente ed istruttivo manualetto ad uso degli europei che si trovassero a viaggiare nel nuovo mondo, rende chiaro dove può arrivare questa negazione dell'opinione individuale quando descrive la tanto decantata libertà di opinione e di stampa americane: "Arrivando negli Stati Uniti, senza accorgersene Lei entra in un vuoto d'informazioni (…) In modo involontario e spontaneo l'americano ha raggiunto un tale livello di impoverimento informativo e di manipolazione della sua coscienza da far scoppiare d'invidia i governi delle democrazie popolari…non si spiega perché in questa democrazia, per popolazione la seconda al mondo, non esista una stampa d'opposizione… Negli USA non vi è alcuna differenza fra un giornale e l'altro, perché a quanto pare tutti ricevono le notizie - non solo preconfezionate in un metaforico cellophane asettico, ma anche già premasticate - da un unico supermercato della notizia, segreto e centralizzato" (1985). In tutto ciò vi è ben poco di liberale e di genuinamente individualistico.

Si potrebbe notare che ben altri argomenti si sarebbero potuti portare a dimostrazione dell’ illiberalismo e dell’anti-individualismo yankee - ovvero del tradimento del sogno americano - argomenti ben più significativi e storicamente, moralmente ed economicamente rilevanti e sotto gli occhi di tutti: dalla negazione dei diritti civili dei neri alla "caccia alle streghe" messa in atto negli anni ’50 dal senatore McCharty contro i sospetti di simpatie comuniste - entrambi episodi in netta contraddizione con l’ideale di libertà - dalla militarizzazione della polizia fino all’incontrastato imperialismo non di rado foraggiatore delle più bieche e sanguinarie dittature fasciste in Sud America. L’esserci concentrati su fatti minimi ed apparentemente banali quali il conformismo e la paura del diverso ci permette però di comprendere quanto il tradimento dei valori fondanti sia profondo, quanto sia appunto "tradimento", andando a rivoltarne completamente il significato, quanto esso coinvolga la psiche generale, la forma mentis dell’homo americanus e come tutti i più eclatanti fenomeni di cui sopra siano da questa forma mentis derivati.

Qualcuno ha parlato a tal proposito di "autoinganno". Secondo la classica analisi svolta dal sociologo C. Wright Mills, ad esempio, al vertice della società americana si colloca una élite costituita dai grandi gruppi economici e dai generali del pentagono. Con la consulenza di una sotto-élite di consulenti tecnici del potere, questa oligarchia dirige la sterminata massa dei "colletti bianchi", cioè l’enorme classe media statunitense. La classe media sarebbe appunto una massa indistinta di intercambiabili atomi che si riconoscono nei valori condivisi della conformazione e che non si avvedono della loro impotenza civile, da veri "eunuchi della politica" che credono di vivere in una società di sogno. Simile la lettura di Robert Lynd. Una analisi forse perfino più drammatica è quella compiuta dal maggior politologo statunitense, Robert Dahl.

Il fatto da rimarcare è che comunque queste critiche provengono da esponenti del liberalismo progressista, tutt’altro che sospetti di anti-americanismo e si caratterizzano come denuncia del divario fra il sogno americano e la realtà dei fatti nell’ottica di chi da questa situazione si sente tradito. Perfino le voci della cultura più radicale, quella della Beat Generation (Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Borroughs, Joseph Ferlinghetti, Gregory Corso), dissacrava i valori tradizionali di famiglia, lavoro, bandiera, religione e perbenismo sociale conducendo una vita dissoluta e senza regole proprio in funzione di una provocatoria rivendicazione di autonomia e sperimentalismo, cioè di genuino spirito americano.

Viene da chiedersi che fine abbia fatto l’autonomia dell’individuo, dove sia la tanto decantata "sovranità dell’individuo". Eppure c’è un ambito in al quale l’americano medio saprà indirizzarvi se gli si chiede ciò. In realtà, tutto il discorso sulla libertà e sulla libera espansione dell'individuo è ancora perfettamente valido se prendiamo in considerazione esclusivamente l' arena economica. L'individualismo e la tenacia dell'uomo di frontiera sono le doti principali dell'uomo dell'odierno far west affaristico. L'esperimento americano è fallito e della open road withmaniana non resta che l'autostrada del capitale monopolistico. Come è stato possibile tutto ciò? Semplicemente con la sopravvalutazione del liberismo economico, cioè di una conseguenza logica del liberalismo la cui ipertrofizzazione culturale ha prodotto l'erosione della sua premessa principale. E' bene qui procedere ad una distinzione. Le caratteristiche pregnanti della dottrina liberale, si è visto, trovano parecchi punti di contatto, se non di sovrapposizione, con la fede libertaria, anarchica. Si tratta, in altri termini, di un umanesimo improntato sul culto dell'individuo e sulla fiducia nella sua capacità di autogovernarsi. La società quindi, per i liberali lo stato, sarà giusto quando non si immischia nelle faccende private quali opinioni, fedi, valori, comportamenti. Da ciò discende, come epifenomeno, anche il concetto di libero mercato. Come la società non ha bisogno di governo, così anche il mercato è organizzato da una mano invisibile, secondo quanto espresso da Adam Smith. Niente ingerenze nelle transazioni di mercato è l'undicesimo comandamento. Sarà interessante vedere che effetti arrivi a produrre questa idea di libertà.

 

 

1.9 - Quale libertà, quale mercato?(Jefferson ingannato)

Tutto va nel migliore dei modi nel peggiore dei mondi possibili

C. Baudelaire

Si è detto dei fraintendimenti, in buona e cattiva fede, operati da molti circa gli anarchici storici americani. Thoureau utilizzato dalla destra reazionaria in ragione della sua "autosufficienza", Warren, Tucker e Spooner dal capitalismo da rapina in ragione della loro accettazione del libero mercato. Queste destre si riferiscono a tali personaggi così intimamente americani, nel senso dello sperimentalismo progressista, proprio per dimostrare la natura eminentemente "americana" (aggettivo connotato ovviamente in termini positivi) delle loro pratiche e delle loro idee. L’idea è che se i valori liberali allo stato puro sono anarchici e progressisti, i discendenti precetti liberisti portati alle estreme conseguenze (liberalismo economico) lo sono altrettanto. La realtà non è descrivibile esattamente in questi termini. Per comprendere meglio questo concetto è bene operare un confronto diretto fra il liberalismo politico libertario – la sovranità individuale nello scegliere la propria vita e i propri valori – e il semplice liberismo economico, ovvero la sovranità individuale dell’imprenditore, per constatarne la non unicità.

Osservare le manifestazioni estreme di un fenomeno rende più facile constatarne i tratti essenziali e individuarne le aporie, come una caricatura mette in risalto i caratteri più tipici di un individuo. Una confusione terminologica e pratica, quindi anche ideologica, che è attualmente in corso e che riguarda appunto una manifestazione estrema di liberalismo, ci porge la possibilità di valutare con una certa facilità la enorme differenza che si cela dietro le diverse visioni della libertà. La confusione terminologica alla quale faccio riferimento riguarda il movimento libertarian che furoreggia fra i conservatori da un lato all’altro dell’oceano. Tradizionalmente il termine "libertario" è stato utilizzato per definire un individuo o un movimento connotato in senso anarchico. Questi autori, per lo più statunitensi, in effetti, si definiscono partigiani dell’ anarcocapitalismo. Questo potrebbe avvalorare la tesi di chi ritiene che l’anarchismo sia una forma estrema di liberalismo; già, ma quale liberalismo e quale anarchismo? Liberalismo e liberismo vengono considerati un tutt’uno dai liberal d’oggi, in realtà portando alle estreme (e naturali) conseguenze le due anime del liberalismo otterremo due ideologie e due conseguenti pratiche in netto contrasto.

L’anarcocapitalismo si rivela infatti una sorta di liberismo "ultrà", estrema conseguenza del pensiero unico. Si tratta della forma distillata del neo-liberalismo, un liberismo allo stato puro, senza appunto alcuna delle ingerenze "altre" rispetto al mercato che sono lo scomodo portato della critica socialista, addirittura quelle che potrebbero derivare da uno stato minimo come teorizzato da tanta parte del liberalismo classico. Di che si tratta dunque? Di un iper-liberismo sfrenato risciacquato nel gran torrente dell’individualismo anti statalista della vergine America degli albori, sfrondato però di tutti i richiami al senso di comunità. Spooner, Tucker, Warren, Thoureau e Whitman vengono malandrinamente utilizzati come antenati illustri e puntello per la presentabilità. In realtà, i padri veri dell’anarcocapitalismo si rintracciano nella scuola economica austriaca - in particolare Von Hayek, Von Mises, Shumpeter, ecc. - della quale il maggiore esponente dell’anarcocapitalismo, Murray Rothbard, si considera allievo. Da aggiungere anche la scuola di Chicago rappresentata in primo luogo da Milton Friedman, il cui figlio David è uno degli anarcocapitalisti più in vista. Che fine si pongono questi liberali ultrà riuniti nel Libertarian Party i cui aderenti si presentano alle competizioni elettorali nelle liste del partito repubblicano? Lo smantellamento dello Stato. In ciò sembrerebbero assimilabili agli anarchici tout-court. Essi condividono la convinzione che i danni arrecati ai cittadini dalle bande criminali siano qualcosa di irrilevante se li si confronta con quelli arrecati dallo Stato: guerre, genocidi, crisi economiche, confische, schiavitù, carestie, danni all’ambiente, distruzioni massicce, ecc. "Se un privato viene da me e mi dice: ti fornisco certi servizi, che tu li voglia o meno, e quindi mi devi pagare, parliamo di un tentativo di estorsione - osserva David Friedman - ma se un governo si comporta allo stesso modo, allora parliamo di tassazione" e, incalza Murray Rothbard:

Noi rifiutiamo definitivamente l’idea che la gente abbia bisogno di un tutore che la protegga da se stessa e che le dica ciò che è bene e ciò che è male. In una società libertaria niente vieterebbe la droga, il gioco d’azzardo, la pornografia, la prostituzione, le deviazioni sessuali, tutte attività che non costituiscono delle aggressioni violente nei confronti degli altri. A differenza di altre correnti di pensiero siano esse di sinistra o di destra, noi rifiutiamo di riconoscere allo Stato il diritto legale di ciò che verrebbe considerato illegale, immorale o criminale se fatto da qualcun altro. Le tasse, il servizio militare, la guerra .... sono forme intollerabili di violenza con cui alcuni gruppi privilegiati impongono agli altri la loro concezione del mondo. Ciò che noi difendiamo il diritto inalienabile e fondamentale di ciascuno alla protezione da ogni forma di aggressione esterna, provenga essa da individui privati o dallo Stato.

Queste dichiarazioni tratte dal Libertarian Manifesto possono di diritto rientrare nel solco della tradizione sia liberale classica che anarchica, con il loro forte senso della libertà personale, il rifiuto della moralità imposta e il forte anti-statalismo. Molti radicals potrebbero sottoscrivere simili affermazioni. Le cose cominciano a cambiare quando si scende a considerare con cosa si intende sostituire il paternalismo statale: la mano invisibile del mercato. "lasciate che la gente interagisca, garantite il diritto alla libertà e alla proprietà, e l’ordine emergerà da solo. L’economia di mercato è un ordine spontaneo, in cui miliardi di persone entrano ogni giorno allo scopo di produrre benessere per sé e per gli altri ", sostiene Boaz. E’ evidente il perdurare dell’utopia di fondare la libertà dell’uomo nella pratica della limitazione della libertà, mezzo il capitale, dell’ottimismo sull’auto-organizzazione della società congiunto al pessimismo antropologico che vede nell’egoismo la molla dell’homo oeconomicus. Scrive infatti tale Guglielmo Piombini:

Libero mercato significa infatti sovranità degli individui in quanto consumatori. In un plebiscito ripetuto ogni giorno, dove ogni soldo dà diritto ad un voto, i consumatori decidono chi deve possedere e gestire le fabbriche, i negozi e le fattorie. Nel libero mercato la ricchezza può essere acquisita in un solo modo, servendo nel miglior modo possibile e a minor costo la gente....Solo nel mercato dunque il controllo dei mezzi materiali di produzione è soggetto al controllo sociale, cioè alla conferma o alla revoca da parte dei consumatori, nel cui giudizio sono assolutamente sovrani.

Insomma, tutta la letteratura sociologica, politica e psicologica sulla manipolazione delle coscienze è andata buttata. Non mi riferisco solo a Marcuse o a Mannhaim ma, ad esempio, a fior di liberali come Raymond Aron quando questi scinde la mancanza di libertà dallo Stato attribuendola al sistema sociale modernamente organizzato :

Il tiranno, colui che lascia a ciascuno l’illusione della libertà ma gliene ruba la sostanza, è il sistema sociale in quanto tale. Cosa può fare l’individuo, anche in una società democratico-liberale, per fermare la corsa alle armi, per sottrarre gli uomini ai rigori della competizione, quando invece la sola capacità produttiva permetterebbe di dare a tutti il necessario se soltanto i manipolatori non inventassero bisogni fittizi?

Similmente, gli anarcocapitalisti sembrano assolutamente insensibili agli effetti sull’ambiente di una dissennata pratica capitalista e la loro unica proposta "ecologica" è rappresentata dalla esilarante idea di privatizzare le specie in via di estinzione.

In Difendere l’indifendibile, Walter Block, figura di punta del movimento, assume la difesa delle figure sociali considerate più infami, ivi incluso il ricattatore, il poliziotto corrotto, lo speculatore, in base alla considerazione che tutte queste figure sono coinvolte in transazioni di mercato fra adulti consenzienti, secondo l’espressione che fu di Nozick . Ciò è senz’altro sostenibile a livello generale, anche se può essere oggetto di discussione, ma questo discorso rende evidenti le aporie di una simile scuola di pensiero quando, ad esempio, si afferma che "le leggi sui minimi salariali sono una sciagura per chi cerca lavoro. Impediscono agli imprenditori di assumere dipendenti che sarebbero disposti a lavorare per una paga inferiore a quella stabilita per legge. E costringono chi cerca lavoro, di fronte all’alternativa tra un posto poco remunerato e la disoccupazione, a scegliere la disoccupazione. Meglio affidarsi al mercato". Questo tipo di affermazioni equiparano la libertà dell’imprenditore a quella dell’operaio in cerca di lavoro. L’imprenditore sceglie il salario e l’operaio sceglie se lavorare o no a quel salario. E già, la libertà è scelta! Peccato che l’elemento "bisogno" pesi in questa scelta molto di più su uno dei due attori coinvolti. In base a tale ragionamento le aree del Mezzogiorno d’Italia in cui questo tipo di "transazioni fra adulti consenzienti" sono più frequenti dovrebbero essere la punta avanzata della società di libertà e benessere promossa dall’anarcocapitalismo.

Jay Nock ha affermato ancora più chiaramente: "Un individuo non è costretto a lavorare per la Standard Oil a meno che non desideri farlo...Salario, orario e condizioni di lavoro sono fissate in base al suo consenso: se non gli aggradano, è libero di rifiutarle."Il ragionamento, insomma, filerebbe nel caso dell’esistenza reale delle pari opportunità. Peccato che esse esistano solo nella mente di queste anime ingenue. Come è allora possibile che questi autori si richiamino alla grande tradizione liberale ed individualista americana? Grazie ad un grave fraintendimento. I primi anarchici americani si trovavano ad operare all’epoca in cui in Europa Stato e grande proprietà, in santa alleanza, tenevano al giogo la stragrande maggioranza della popolazione trattenendola dall’iniziativa autonoma, in particolar modo soffocando l’iniziativa di dar luogo a imprese economiche che avrebbero potuto innalzare i singoli al di sopra della loro esistenza animale. Alla metà dell’800 gli Stati Uniti erano nel mezzo di un processo di accentramento burocratico ed amministrativo che minacciava di distruggere il pilastro della "forma" americana, vale a dire la piccola comunità indipendente, e sembrava avviarsi verso un modello di tipo europeo. Per tale motivo gli spiriti liberi del nuovo mondo individuarono nella congiunzione di libertà di iniziativa privata e di facilità di accesso al credito l’unico argine alla oppressione dello Stato e l’unico grimaldello per lo smantellamento del sistema onnivoro. Questo richiamo al libero mercato fu sempre ben lungi dall’attribuire valore positivo al capitalismo da rapina. A parere di Lysander Spooner, ad esempio, la causa della povertà diffusa era da addebitare proprio all’alleanza fra lo Stato e la classe dei capitalisti (la situazione attualmente vigente negli States), per tale motivo l’allargamento degli spazi di accesso al credito, permettendo a chiunque di divenire imprenditore, ampliava le possibilità di una economia meno monopolistica, quindi di una società di liberi proprietari che contrattassero e modellassero la loro vita in base al proprio giudizio. E’ chiaro in questa visione un intento difensivo. Gli "imprenditori" di cui parlano Spooner, Tucker e Warren erano "gli artigiani indipendenti, i farmers proprietari delle loro terre, i piccoli commercianti, persino i lavoratori a giornata", tutta gente che nella possibilità di impresa autonoma trovava la possibilità di difendersi dallo Stato e dal grande capitale monopolistico. Questi autori non avrebbero mai immaginato né la sorte di questo capitalismo difensivo, mutatosi in mostro offensivo, né l’utilizzo che dei loro scritti sarebbe stato fatto dai discendenti diretti dei loro nemici più acerrimi. L’anarcocapitalismo, quindi, altro non è se non l’esasperazione del principio liberista, principio quest’ultimo liberale e ragionevole se assunto in forma difensiva in una società dalle illimitate risorse e in una strutturazione sociale affatto diversa dalla attuale. La verità è che il dibattito fra "proprietà privata" e "nazionalizzazione", fra pubblico e privato, è ormai sterile e logorato. La proprietà privata difensiva e propositiva che perpetuava il cittadino in quanto individuo economicamente autosufficiente e attore sociale indipendente, sta via via scomparendo, e non certo perché un socialismo trionfante abbia fatto fiero pasto della libera impresa, bensì perché una famelica imprenditoria ha divorato praticamente tutto proprio in nome della libera impresa!

Il liberismo come concetto progressista, così come accolto anche da certo anarchismo statunitense, è fondato su un ottimismo ancora rintracciabile nel progetto fordista. Quando Henry Ford, nel 1909, progetta il "modello T", destinato a motorizzare l’America, solo il 10 % degli statunitensi possedevano una autovettura e il mercato sembrava infinito. Il capitalismo fordista era progressivo perché ragionava secondo l’ingenua formula in base alla quale l’estensione della produzione avrebbe prodotto un aumento degli occupati, l’aumento degli occupati avrebbe portato ad una generalizzazione del benessere e questo, a sua volta, ad un aumento dei consumi che avrebbe alimentato ulteriormente la produzione. Il consumismo sarebbe stato l’alimento della democrazia rendendo possibile a tutti di accedere ai beni di consumo altrimenti costosi e disponibili solo per una élite. Si riteneva che il mercato fosse infinito come infinito lo sviluppo orizzontale del benessere, della libertà e delle opportunità garantito dal capitalismo. Consumismo uguale progresso. L’attuale situazione, caratterizzata dalla globalizzazione economica, è definita post-fordista in quanto il quadro di riferimento è andato radicalmente trasformandosi per cui non è più concepibile l’utilizzo di questa precettistica semplicistica. Mentre il produttore fordista, infatti, identificava i propri dipendenti con i propri clienti, per cui creando posti di lavoro egli creava consumatori, il produttore post-fordista non produce più nello stesso ambito territoriale di consumo: oggi i mezzi tecnici sono tali per cui si produce dove i salari sono i più bassi possibile (e i lavoratori meno tutelati dalla legge) e si vende dove i redditi sono i più alti possibile. In epoca fordista la potenza di una azienda era valutata dall’esercito dei suoi lavoratori e l’azienda più forte era quella con l’esercito maggiore; ora, con lo scollamento creato dalla mondializzazione, le aziende che danno maggiori garanzie sono quelle che con più facilità se ne disfano. La dinamica salariale di Ford, che pagava i suoi operai 5 dollari al giorno nel 1910, non è più funzionale perché non è il territorio di produzione quello che interessa all’imprenditore, quindi tutto ciò che i lavoratori guadagnano il capitale lo perde e viceversa. Ma non è finita; l’amara scoperta è che il mercato non è infinito. Nei paesi industrializzati il mercato è saturo. Automobili, elettrodomestici, computers e telefoni cellulari sono ormai patrimonio comune di ogni famiglia nordamericana, europea o giapponese. L’unico mercato possibile è quello di sostituzione. Ed ecco l’irrompere di sempre nuovi modelli che devono sostituire i vecchi, ma non è il mercato di Henry Ford ed è spesso necessario il ricorsi ad incentivi per le sostituzioni da affiancare alla persuasione pubblicitaria che fagocita gran parte delle risorse delle imprese (a danno della ricerca) nonché del denaro dell’acquirente del bene supportato. I paesi di produzione sono l’unico serbatoio di nuovi acquirenti e la possibilità ultima di un mercato di espansione, ma se solo l’India o la Cina arrivassero ai livelli di motorizzazione occidentale il mondo crollerebbe, mancando le condizioni di sostenibilità ambientale. Su questo scoglio si infrange il mito progressista del capitale, che non solo non diminuisce le differenze fra gli uomini, anzi addirittura le alimenta, ma neppure quelle fra i popoli. Già con pochi paesi ad alto reddito siamo al punto che si è ormai certi della impossibilità della uguaglianza perché il pianeta non consente ai paesi in via di sviluppo il livello economico degli Stati ricchi, pena la distruzione del pianeta. Dov’è la libertà dei paesi produttori? Dove la libertà di tutti i cittadini del mondo di vivere in un pianeta integro? Come giustificare mediante una etica utilitaristica questa situazione?

I paesi liberisti danno delle belle lezioni di libertà allorquando appaltano il grosso della produzione alle fabbriche del Sud del mondo dove bambini di cinque-sei anni sono privati della loro libertà di giocare e di studiare per un massacrante lavoro fuori da qualunque norma in termini di orario, modalità e igiene per un salario mensile equivalente ad una nostra tazza di caffè. Gran parte del consumo di oggetti di marca nell’occidente è assicurato dallo sfruttamento del lavoro di bambini e bambine del Sud del mondo. Secondo i calcoli delle organizzazioni che si occupano di consumo equo e solidale il costo della manodopera non incide più di un 2 % sul prezzo di vendita di un paio di scarpe di una nota marca sportiva americana in un qualunque grande magazzino dell’occidente. Questi lavoratori sono indubbiamente liberi, secondo Nozick, Rotherband e Friedman, perché hanno accettato di lavorare a queste condizioni tramite una "transazione economica fra adulti consenzienti". Già nel lontano 1767 Simon Linguet individuava la maggior aporia di un discorso simile:

E’ l’impossibilità di vivere con qualsiasi altro mezzo che costringe i nostri braccianti a zappare la terra di cui non mangeranno i frutti, e i nostri muratori a costruire edifici in cui non vivranno. E’ il bisogno che li sospinge verso quei mercati dove aspettano che un padrone faccia loro la cortesia di comprarli. E’ il bisogno che li costringe a mettersi in ginocchio dinanzi a un ricco per avere da lui il permesso di arricchirlo. (...) Questi uomini, si dice, non hanno padrone - in realtà ne hanno uno, e il più terribile, il più imperioso dei padroni, il bisogno.

Questi uomini sono in uno stato di dipendenza che falsa la normale "transazione" fra capitale e lavoro; ora il discorso di Linguet si può estendere perfino ai paesi interi.

L’aspetto più rimarchevole poi di questa neo-colonizzazione è che, a differenza di quella classica ottocentesca, questa globalizzazione non assicura un alto tenore di vita nella madrepatria, come invece fu, ad esempio, per l’Inghilterra al tempo in cui affamava l’India, anzi l’industria occidentale cresce distruggendo occupazione in patria, quindi favorendo, contestualmente ad un enorme aumento dei redditi da capitale delle aziende, un aumento della povertà e relativo calo anche dei consumi di sostituzione in uno strano colonialismo, che non solo non apporta grandi benefici alle popolazioni del Sud del mondo, ma addirittura importa nel Nord molte situazioni di quei paesi. Si rivedono infatti nelle piccole e grandi città occidentali i laboratori di impronta manchesteriana che erano tipici del terzo mondo, caratterizzati dallo sfruttamento e dalla mancanza di garanzie. Sono le esigenze imposte al mercato dal "nuovo ordine mondiale" in cui il 50 % del mercato è gestito dalle grandi multinazionali. Bell’aumento di libertà e bel mercato libero!

In base al principio benthamiano dell’"utile" - anche se, è bene sottolinearlo, gli anarcocapitalisti rappresentano l’ala antiutilitaristica del liberismo - la sofferenza di alcuni può essere giustificata dal fatto che garantisce - in pratica ne è l’artefice! - la felicità di altri. Questi però, secondo i precetti utilitaristici, dovrebbero essere la maggioranza; statistiche americane parlano invece del venti per cento più opulento cui la massa "infelice" funge da sgabello per l’elevazione. In una ottica planetaria, è la povertà dell’ottanta per cento del mondo a garantire la ricchezza dei paesi dell’occidente industrializzato. Senza quella povertà che è una mancanza di libertà sia emancipativa che propositiva, non ci sarebbe da noi la libertà totale dei grandi capitalisti, né quella parziale del nostro ceto medio. L’una è funzione dell’altra. Non è con le armi della critica utilitaristica che si può smontare un movimento antiutilitarista, ma questa osservazione è in grado di farci riflettere sulle reali possibilità di incremento della libertà possibili in un regime di questo tipo, nel quale, in pratica, già viviamo.

L’attuale capitalismo offensivo, monopolistico è manipolatorio, sfruttatore, parassitario e distruttivo non può essere difeso tramite le ignare penne dei defunti individualisti americani come stoltamente o (furbamente) fanno gli anarcocapitalisti ma anche i comuni partiti neo-liberali ovunque vincitori, che ne rappresentano la versione appena smussata. Non deve perciò stupire se un anarchico a tutto tondo come Noam Chomsky, il quale si considera erede della grande tradizione liberale delle origini, esprime opinioni apparentemente filo-statali e assolutamente contrarie a quelle espresse da questi sedicenti libertari:

Le mie mete a breve termine consistono in una difesa e addirittura di un rafforzamento di elementi dell’ autorità statale, elementi che, pur essendo sotto certi fondamentali rispetti illegittimi, hanno una necessità critica, proprio ora, al fine di impedire quei ben congegnati sforzi che sono attuati per "far arretrare" i progressi conseguiti con l’estensione della democrazia e dei diritti umani. L’autorità dello Stato è sottoposta, attualmente, a un severo attacco nelle società più democratiche, e ciò non perché in conflitto con la visione libertaria. Piuttosto il contrario: perché offre (una debole) protezione ad alcuni aspetti di quella visione.

In altre parole, il capitalismo offensivo ha ormai talmente compromesso la situazione che un minimo di garanzia di libero mercato e di una sfera di libertà personale può paradossalmente essere ottenuta solo tramite l’utilizzo strumentale dello Stato:

Nel mondo presente, ritengo che le mete di un anarchico convinto debbano essere difese, contro gli attacchi cui sono sottoposte, a opera di certe istituzioni dello Stato, mentre al tempo stesso viene effettuato il tentativo di farle aprire a una più significativa partecipazione pubblica, per poi da ultimo smantellarle, quando, in una società molto più libera, si daranno le condizioni adatte.

Queste affermazioni non sono affatto, per quanto ne dicano gli anarcocapitalisti, in contrasto con la tradizione anarchica americana. Benjamin Tucker, uno dei massimi fautori della libera concorrenza, proprio a difesa di questa espresse il giudizio che lo sviluppo dei trusts fosse illiberale e che quindi si rendesse necessaria una serie di confische forzate al fine di abolire le concentrazioni industriali e su queste basi rendere nuovamente proponibile la soluzione anarchica. Su questi passi gli anarcocapitalisti sorvolano allegramente.

Chomsky e Rothbard affermano entrambi di ricollegarsi alla tradizione liberale, come è possibile che giungano a soluzioni antitetiche? Essenzialmente perché il primo rimane fedele a detta tradizione ponendo al centro la libertà individuale (negativa e verticale) nella democrazia (libertà positiva ed orizzontale), e in questa costruzione rientra anche una certa accettazione della libertà del mercato, mentre il secondo si pone essenzialmente come un estremista del liberismo economico, figlio degenere dell’idea del libero mercato, scollandolo totalmente dalla democrazia. Vediamo quindi, mediante questa esasperazione delle vie di fuga del liberalismo, come quelle che apparentemente sembrano due anime coerenti ed armoniche fra di loro lo siano solo nelle condizioni naturali del gioco, non quando delle nuove regole lo abbiano trasformato al punto da rendere impossibile pareteciparvi per la maggioranza. Nessun gioco è divertente se si conosce già in partenza il vincitore. Chi "sceglierebbe" di disputare una partita contro un giocatore che ha già in mano uno scacco matto? Esiste poi una condizione di gioco ancora più illiberale, quella cioè in cui il giocatore favorito decide le regole del gioco per lo sfavorito ma rifiuta di soggiacervi egli stesso. Questo è quello che avviene riguardo alle regole - ovvero alla mancanza di regole - del mercato. Questa "libertà" viene imposta (!) agli altri dalle grandi compagnie, ma queste stesse non stanno alle (non) regole richiedendo le misure protezioniste dello Stato. Le amministrazioni Reagan e Bush, ad esempio, sono state caratterizzate dai più drastici tagli alla spesa sociale dai tempi del new deal, da un preoccupante aumento della povertà (cioè della massa cui viene imposta, per liberarla dal "paternalismo", la legge di mercato del "nuota o muori") e da un forte aumento delle sovvenzioni alle grandi imprese e alle banche che hanno portato ad un aumento della ricchezza del venti per cento più opulento del paese (quello cui lo Stato, non più paternalistico, ha elargito i suoi favori e che è stato esentato dal soggiacere alla suddetta legge):

Il "contratto con l’America" di Gingrich (un eminente "liberale" americano, N.d.R.) esemplifica nitidamente l’ideologia del "libero mercato": protezione e sussidio pubblico per i ricchi, disciplina di mercato per i poveri. Esso ha chiesto a gran voce "tagli nella spesa sociale" a tutto campo - per i poveri, gli indifesi, compresi i bambini e gli anziani. E di accrescere l’assistenza per i ricchi, nei modi classici: misure fiscali regressive e sussidio diretto. Nella prima categoria rientrano le maggiori esenzioni fiscali per gli uomini d’affari e i facoltosi, tagli dell’imposta sui redditi da capitale e così via. Nel secondo rientrano i sussidi del contribuente per investimenti in impianti e attrezzature, regole più favorevoli per l’ammortamento e lo smantellamento dell’apparato di regole che ha l’unica funzione di proteggere la gente e le future generazioni.

La semplice prosa di Chomsky continua ad essere illuminante. Egli ha sempre affiancato alla sua attività di linguista, materia nella quale è considerato un punto di riferimento fondamentale, la funzione di coscienza critica dello zio Sam. In quest’ultima veste egli ha guadagnato la maggiore notorietà presso il grosso pubblico che ignora il suo lavoro angolare nel campo della "grammatica generativa". I suoi scritti più venduti degli ultimi trent’anni svolgono una funzione demistificatoria e dissacratoria della grande "democrazia liberale" degli Stati Uniti d’America dimostrando appunto come più essa si sposta verso il "liberalismo", più impone le regole del mercato agli altri (i poveri) e se ne libera per sé, in una "economia di profitto a sussidio pubblico". Di più, oltre che fra le classi di uno stesso paese, questa tattica è stata usata dai paesi ricchi nei confronti dei paesi poveri. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti sono sempre stati estremi nel rifiutare la disciplina del mercato per loro e nel costringervi le loro colonie riconosciute nel passato e quelle di fatto nel presente.

Ad esempio, dopo aver descritto le politiche protezioniste inglesi a difesa della propria industria nei confronti di quella giapponese negli anni venti (in pratica la chiusura totale ai prodotti nipponici), Chomsky continua:

Mezzo secolo dopo, i reaganiani, alle prese con la competizione giapponese, seguirono in buona parte lo stesso corso. Se avessero permesso alle forze di mercato che essi veneravano in pubblico di agire liberamente, oggi gli Stati Uniti non avrebbero più un’industria siderurgica né automobilistica; né semiconduttori, né il calcolo massivamente parallelo, né molte altre cose. L’amministrazione Reagan non ha fatto altro che chiudere il mercato alla competizione giapponese mentre elargiva finanziamenti pubblici a fiotti, misure che sono state ampliate sotto Clinton.

fino a concludere che:

Il primo e il terzo mondo di oggi erano di gran lunga più vicini tra loro nel diciottesimo secolo. Una ragione dell’enorme differenza che da allora si è venuta a creare, risiede nel fatto che i governanti sono riusciti ad aggirare la disciplina di mercato che hanno propinato con la forza alle proprie colonie (...) il liberalismo economico imposto al terzo mondo nel diciannovesimo secolo è un elemento chiave per spiegare il ritardo della sua industrializzazione.

(...) nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si spostarono infine verso un internazionalismo liberale dopo aver a lungo trasgredito ai principi liberali, (...) Negli anni cinquanta praticamente tutti i finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo nel campo dei computer provennero dal contribuente, accanto all’85 per cento dei fondi per la ricerca e lo sviluppo nel settore dell’elettronica generale (...) i reaganiani si specializzarono nella "più insidiosa forma di protezionismo": il "commercio controllato" che fondamentalmente "restringe il commercio e chiude i mercati" oltre al fatto che "alza i prezzi, riduce la competizione e rinforza gli accordi di cartello".

I principi generali sono chiari ed impliciti: i liberi mercati vanno bene per il terzo mondo e il suo sempre più nutrito corrispettivo interno. Le madri con figli a carico possono ricevere una severa ramanzina sulla necessità di sostenersi da sé, ma non i manager e gli investitori dipendenti, per favore. Per loro lo Stato assistenziale deve essere prodigo.

Gli elementi di questa prodigalità sono i sovvenzionamenti pubblici alle aziende, i tagli alle tasse e alla spesa sociale, il salvataggio di aziende e banche con i soldi dei contribuenti, ecc. Insomma, solo la miopia o quasi cecità da ideologia può contrabbandare il libero mercato del "nuovo ordine mondiale" come una garanzia di libertà e la fonte del progresso economico, del benessere e della felicità. Queste condizioni vengono senz’altro assicurate alla minoranza opulenta che forma i cartelli, la quale li ha conquistati proprio soffocando il mercato e fruendo delle sovvenzioni pubbliche - si legga del contribuente - ma non certo alla maggioranza sempre più impoverita ogni volta che questo sedicente liberalismo ingrana la quarta. Non certo per i paesi-satellite dell’occidente avanzato, come l’India deindustrializzata dagli inglesi perché non competesse liberamente con la madre patria, non per i paesi dell’America Latina in cui una sola multinazionale americana, la United Fruit Company, ha il potere di far elegge dei governi-fantoccio e in cui il paese "paladino del mondo", pronto ad intervenire per riportare la libertà dove le situazioni si siano messe male al punto che qualche concorrente potrebbe addirittura pretendere di disputarsi liberamente un posto nel mercato, tollera le più brutali atrocità dei "caudillos" fedeli a Washington. Talvolta, come nel Nicaragua, vi partecipa. Davanti a tutto ciò gli anarcocapitalisti sono ciechi e sordi. Anche i loro compagni istituzionalizzati che siedono nei parlamenti liberali dell’Europa liberale (e protezionista), controllati dall’occhio liberale (e paternalista) dei liberalissimi (e criminali?) Stati Uniti d’America.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


II. Fra Utopia e Distopia

Libertà e nuove tecnologie

Una nuova vita vi attende nelle colonie Extra-Mondo.

L’occasione per ricominciare in un Eldorado di

buone occasioni e avventure,

un nuovo clima, divertimenti ricreativi…

Messaggio pubblicitario dall’alto, in Blade Runner

 

 

 

2.1 – L’ultima frontiera: il Cyberspazio

"Think For Yourself, Question Autority" (TFYQA), ovvero "pensa col tuo cervello, metti in discussione l’autorità" è lo slogan individualista di Timothy Leary, lo psicologo che con tali atteggiamenti riuscì a farsi scacciare energicamente dalla più prestigiosa delle università d’America, la compassata Harvard, ma la "nuova frontiera" invocata da John Fitzgerald Kennedy a dimostrazione di quanto siano imprescindibili gli ideali western per caratterizzare la psiche americana, assume qui dei connotati culturali quantomeno alternativi. La "sovranità individuale" rivendicata infatti dal movimento psichedelico ( letteralmente, di "allargamento delle coscienza"), si affianca alla contemporanea lotta per i diritti civili ma si inserisce nella scia già tracciata dalla beat generation nella denuncia del conformismo massificante e totalitario prodotto dai media e invitando alla riscoperta di sé mediante l’utilizzo di sostanze allucinogene. Sull’onda psichedelica si assiste ad un ritorno allo sperimentalismo comunitario ed ecologista. Il poeta anarchico Alan Hoffman ne fu uno dei protagonisti. Nello stesso momento l’università di Berkley diveniva il centro di una contestazione studentesca libertaria a cui il Maggio francese darà una svolta marxista.

Negli anni ’80 la parola d’ordine di un altro presidente, George Bush, non ricorda più l’intento di un pioniere di colonizzare nuovi spazi, bensì quelli di uno sceriffo di mantenere la calma in città. E’ la formula del "nuovo ordine mondiale" dietro il cui paravento non pochi vedono profilarsi l’angosciosa visione totalitaria dello sceriffo globale ("non voglio guai nella mia città"). Chi meglio di altri è riuscito a rendere tale (pre)visione è il filone (contro)culturale definito cyberpunk. Sono gli "hackers", i maghi del computer, individualisti tecnologici dell’età dell’informazione, i nuovi lonely riders, i "cowboys della consolle". Non è un caso che, negli anni ’80, Timothy Leary si sia riciclato come guru dei computers ("L’LSD degli anni novanta"). Una breve analisi del movimento degli hackers ci fornirà le basi per valutare ancora una volta la coesistenza di due visioni di libertà (e quindi di due anarchismi) che solo uno studioso distratto può fare l’errore di confondere. La storia inizia con la più anarchica delle intuizioni scientifiche: la rete telematica. Internet sembra la realizzazione del sogno di Pierre Proudhon di un mondo in cui " il centro è ovunque e la periferia in nessun posto". Già il padre della cibernetica, Norbert Wiener, molto prima che internet divenisse una realtà, era convinto che tramite una rete di flussi informatici si sarebbe potuto realizzare una società senza stato e senza politica in cui le funzioni di controllo sarebbero state affidate alle macchine. Simili aspettative quasi messianiche sono espresse dall’uomo di punta del MIT di Boston, Nicholas Negroponte, vero apostolo della rete, che prospetta una "democrazia elettronica" che renderebbe finalmente possibile la famosa "democrazia diretta" tanto cara ad anarchici e radicali. Negli ultimi anni è stato tutto un vociare entusiastico sulle possibilità liberatorie della rete. Se il movimento psichedelico aveva inteso la libertà come il superamento di una frontiera mentale, "psichica", il fenomeno telematico porta la metafora western ad un livello di astrazione ancora più alto eppur pragmaticamente molto più concreto con l’utilizzo del concetto di Cyberspazio, neologismo che lo scrittore William Gibson ha utilizzato per definire un’altra dimensione a-spaziale, il mondo elettronico delle connessioni d’informazione, intangibile ma reale, l’universo concettuale, il mondo di internet. Il cyberspazio come ultima frontiera. L’espressione più pura di questa visione libertaria della rete è quella rappresentata dall’intellettuale di punta del mensile di culto degli hackers Wired, Kevin Kelly. Questi predica l’Out of Control, ovvero la revisione aggiornata ai tempi dell’informazione della "mano invisibile" di Adam Smith. Per la prima volta nella storia, secondo Kelly, diventa concretamente realizzabile l’ideale del "mercato perfetto". La rete, infatti, permette a chiunque di mettersi in contatto con chiunque altro, senza mediazione alcuna:

Chiunque potrà cercare attraverso Internet la merce al costo più basso: ci saranno software in grado di fare il confronto tra i vari prodotti: Si creeranno associazioni di consumatori che commenteranno la qualità delle diverse merci. Spesso, nel mercato di oggi, venditori e compratori non si incontrano: Esistono aziende con ottimi prodotti che non riescono a contattare i clienti giusti (…) Chi vuole vendere deve solo descrivere le sue merci, la loro disponibilità ed il prezzo. E chi vuole acquistare può usare le potenzialità di ricerca automatica. Ecco il "capitalismo senza attriti" che salta i parassitismi delle reti verticali di distribuzione per diventare democratico e orizzontale.

Questa visione, è evidente, rappresenta in maniera esemplare quella che si è chiamata "tendenza adamitica" della psiche americana. Questa è infatti il brodo di coltura ottimista e radicalmente individualista ed antiautoritario in cui si sviluppa l’anarchismo americano. E’ altresì evidente, però, come questa lettura combaci soprattutto con l’ideologia anarcocapitalista, piuttosto che con quella del mainstream anarchico statunitense. In effetti, il "Cato Istitute", la fondazione del Libertarian Party, ha sempre mostrato grande entusiasmo per l’utilizzo della rete come laboratorio della società-mercato. Uno degli aspetti più graditi è che una delle più interessanti realizzazioni collegate al commercio elettronico (e-commerce), la "moneta digitale", permette trasferimenti di denaro in modo assolutamente anonimo (oltre che immateriale) . In altri termini, la rete permette l’evasione fiscale ("mai più un dollaro allo stato") e perfino la fine del monopolio statale sulla moneta circolante in quanto ogni banca può emettere la propria moneta digitale per gli acquisti on-line, esattamente come avveniva per le banconote nell’economia del selvaggio West. E rieccoci alla frontiera!

A rendere ancora più evidente l’alto grado di congenialità della rete telematica con l’utopia anarcocapitalista è l’elaborazione che due economisti americani, James Dale Davidson e William Rees_Mogg, producono del concetto di "individuo sovrano". Egli è essenzialmente un produttore di idee free-lance, un capitano di ventura che non esprime fedeltà alla propria nazione-stato ma che "svolgerà la propria opera senza badare troppo ai confini tra uno stato e l’altro" . E. Pedemonte, un apologeta dell’anarcocapitalismo, spiega meglio il concetto:

Il nuovo cittadino sovranazionale, negli anni dopo il Duemila, sarà sempre meno cittadino nel senso in cui lo intendiamo oggi, e sempre più cliente dei diversi Stati. Tutti coloro che faranno parte dell’élite intellettuale e saranno in grado di vendere la propria forza lavoro a livello internazionale potranno mettere in vendita la propria sovranità al miglior offerente: gli Stati dovranno commercializzare i propri servizi, non potranno più imporre tasse per superiori scelte di carattere nazionale e patriottico; non sarà più possibile tassare i più abbienti solo per una questione di solidarietà sociale; il nuovo assetto internazionale vedrà fuggire questi lavoratori verso lidi più attraenti, ove collocheranno il proprio domicilio, allettati da migliori condizioni fiscali e da servizi più efficienti.

Viene qui fuori in tutta la sua eloquenza l’idea di libertà propagandata dall’anarcocapitalismo. L’aspetto però più preoccupante della cosa e ciò che denota le aporie della visione libertarian, è che, comunque, i due economisti di cui sopra hanno ben chiara l’ineluttabilità del fatto che questa situazione porterà alla disgregazione sociale e che si verrà a creare un vuoto in quanto le esigenze soddisfatte dagli stati-nazione non potranno sparire di colpo. Essi, dunque, si rivolgono al passato, ma non più a quello glorioso della frontiera, bensì a quello oscuro del medioevo: come un tempo gli ordini militari e religiosi potevano gestire il potere politico ed economico senza che ciò significasse anche la sovranità territoriale, così si possono ipotizzare delle nuove corporazioni economiche capaci di gestire la cosa pubblica. Un mondo libero gestito dalle multinazionali? E’ lo stesso discorso di Rotherband e soci e delinea uno scenario molto simile a quello della narrativa cyberpunk. Questo filone letterario – e poi cinematrografico, politico, ecc. - ipotizza appunto un futuro mondo governato dalle grandi imprese le cui immagini pubblicitarie troneggiano su squallide ed inquinate megalopoli terzomondiste (come la Los Angeles del 2019 nel Blade Runner di Ridley Scott) in cui non esistono i vincoli sociali e sciama una immane quantità di drop-outs, di esclusi dal banchetto dell’anarchia di mercato. La gran massa degli "sconnessi", di quelli che non hanno accesso alla rete ed alle tecnologie delle grandi corporations vengono spesso mostrate in movimento in branchi come orde animali di briganti metropolitani. Si evince da questa rappresentazione una chiara critica nei confronti di una pratica economica e sociale dell’attuale trend di sviluppo. Nelle opere di Gibson, Sterling e compagnia, è infatti chiaro come l’universo privo di elementi naturali che essi presentano sia il frutto di un "ecocidio" la cui causa è da ricercarsi nell’ iper-utilitarismo, nello sfruttamento delle tecniche produttive del tardo-capitalismo. I protagonisti dei romanzi cyberpunk sono quasi sempre dei drop-out o comunque individui isolati che lottano contro potenti corporazioni transnazionali o organizzazioni militari autoritarie. E’ chiara quindi la marca di puro libertarismo yankee, lo spirito genuinamente antiautoritario di questi autori. Gli esiti della libertà di mercato telematica producono invece quella anarchia negativa che, si è detto, è ben vista dagli individualisti di destra della tradizione provinciale americana. I protagonisti delle novelle cyber rappresentano, d’altro canto, l’altra faccia della libertà a stelle e strisce, l’istanza di libertà dell’individuo che si difende da questo falso anarchismo.

I giovani hackers dei giorni nostri sono l’espressione concreta ed attiva della cultura cyberpunk quando, in un’ottica che potremmo definire "situazionista", si insinuano nelle pieghe del sistema tecnologico-informatico-militar-amministrativo per produrre sabotaggi, ingrippamenti, scherzi, ricatti ed additare il re nella sua nudità. La buona maggioranza degli hackers si definiscono "anarchici".

 

 

2.2 – Blade Runner ed il fascismo cibernetico

 

Spetta ad un urbanista, il francese Paul Virilio, il merito di aver denunciato l’instaurazione, a mezzo internet, di un "regime di voyeurismo universale" assolutamente funzionale al sistema americano, un processo di globalizzazione totalizzante che sancisce il trionfo di quel modello che produce egoismo, "distrugge le società complesse e tende all’antisociale", insomma l’arma finale del’imperialismo americano.

Lo sconfortante scenario cyberpunk è il futuro prospettatoci come allettante dai fautori della libertà ai tempi dell’informazione. Che non si tratti di irreali ed improbabili incubi fantascientifici ci è testimoniato da un posto nel mondo che è stato unanimemente definito la "capitale dell’iper-realtà" (ad esempio, Umberto Eco e Jean Baudrillard): Los Angeles.

La megalopoli californiana è la punta avanzata, l’avanguardia di questo progetto. Lasciamola descrivere a chi, conoscendola bene (ci vive e vi insegna urbanistica), Mike Davis, non si fa troppi scrupoli a lanciarsi in un paragone che potrebbe sembrarci inizialmente azzardato:

Ogni città americana ha le sue insegne e il suo motto, alcune hanno mascotte municipali, colori, canzoni, uccelli, alberi, persino pietre. Los Angeles soltanto ha adottato un Incubo ufficiale (…)

Blade Runner – l’alter ego distrofico di Los Angeles.

Davis ci dice che la Los Angeles "gibsoniana" è già per metà costruita. La "grande pianura senza soluzione di continuità fatta di bungalow in decadimento, e di bassi villini stile ranch, che si sgretola socialmente e fisicamente nel 21esimo secolo" è un mostro urbanistico ed architettonico ma soprattutto sociale. Isole fortificate di benessere galleggiano in un mare di "sconnessi" gibsoniani privi di ogni diritto. La criminalità è alle stelle in questo inferno urbano, più simile a Shangai e a città del Messico che a Tokyo, in cui le enormi distese di sudiciume sono tagliate dalle rumorose autostrade urbane che la attraversano dall’oceano al deserto. Scrive Scaruffi, un attento osservatore della realtà americana, che "Los Angeles è una bolgia infernale di segni negativi, un’enciclopedia della decadenza urbana". Di più: Davis ci dice che l’origine della distopia è politica:

L’ossessione corrente per la sicurezza personale e per l’isolamento sociale è superata soltanto dal terrore della classe media per la tassazione progressiva. Di fronte a una disoccupazione e ad una percentuale di senza tetto mai vista dal 1938, un consenso bipartito chiede con insistenza che il bilancio pubblico sia in pareggio e che i diritti sociali siano ridotti. Rifiutandoci di fare alcun ulteriore investimento pubblico per rimediare alle condizioni sociali di base, siamo costretti invece a realizzare investimenti privati crescenti sulla sicurezza fisica. La retorica della riforma urbana persiste, ma la sostanza è estinta. "Ricostruire Los Angeles" significa semplicemente imbottire il bunker.

Questa ossessione dei privilegiati per la sicurezza personale è arrivata a produrre un metafisico scenario da fantascienza. Già nel 1965, dopo la rivolta di Watts, il comitato dei 25, ovvero le 25 compagnie proprietarie di downtown, il centro cittadino, per paura di una invasione dei neri, ne fece una sorta di medioevale cittadella fortificata con camminamenti il cui accesso è controllato dal sistema di sicurezza dei singoli grattacieli. L’angosciante situazione è, in primo luogo, che "il margine tra architettura e applicazione della legge si è eroso" e che "il dipartimento di polizia è divenuto protagonista centrale nel processo di progettazione del centro cittadino" , in secondo luogo, che il controllo video delle aree del centro arriva ai parcheggi, ai marciapiedi, alle piazze, ecc. costituendo uno scanscape, uno spazio di controllo totale che resuscita il panoptikon di Jeremy Bentham. Ma il controllo va ben oltre, con la costituzione dei "distretti per il controllo sociale", la creazione di quartieri per il contenimento dei perdenti nella corsa al successo, accanto alle aree residenziali ipersorvegliate. Esistono infatti i "parchi liberi dalle gangs", le "zone libere dalla droga", perfino un sobborgo "libero dai pedofili" ("Giù le mani! I nostri ragazzi sono fotografati e hanno impronte digitali registrate per la loro stessa protezione", si legge all’ingresso). Scrive Davis:

… tecnologie emergenti possono dare ai conservatori, e probabilmente anche ai neoliberali, una vera opportunità di sperimentare le proposte economizzatrici di "imprigionamento di comunità", come alternativa ai costosi programmi di costruzioni di prigioni. Guidati dall’ideologo dell’ Heritage Institute Charles Murray – la cui polemica contro la spesa sociale per i poveri, Losing Ground (1984) fu il più potente manifesto dell’era di Reagan – i teorici conservatori stanno esplorando la praticabilità della "città carceraria" descritta nell’immaginazione fantascientifica del tipo Fuga da New York.

Scaruffi parla di "feudalesimo tecnocratico", una situazione in cui "un arcipelago di bianchi privilegiati regnano, grazie all’alta tecnologia, su un oceano di bianchi e non bianchi ridotti in povertà e schiavitù" . L’innovazione più importante nella politica urbana del dipartimento di polizia, il famigerato LAPD, è comunque il progetto Neighborood Watch, ovvero l’istituzione delle ronde di quartiere costituite dai cittadini:

Sebbene la retorica risuoni dei valori del pioniere estratta dai western alla John Ford, la pratica reale di Neighborood Watch e dei programmi Community Policing evocano più spesso i modelli della ex Germania Est o della Corea del Sud, dove gli informatori della polizia di ogni isolato indagano sui loro vicini e spiano i forestieri sospetti.

Ecco la libertà degli ultra-liberisti. Liberismo economico e fascismo cibernetico.

Questa lunga dissertazione su L.A. vede la sua ragion d’essere, oltre che nell’ulteriore smascheramento della libertà americana – il "liberalismo realizzato" -, nella paradigmaticità dell’esempio delle radici di un futuro già iniziato e che ha le caratteristiche di un medioevo prossimo venturo; ma non solo, in quanto quella che Los Angeles prospetta prima all’ America e poi al mondo è l’immagine del risultato delle politiche anarcocapitaliste già attive e vitali negli USA tramite il cavallo di Troia repubblicano e si fa ulteriore disvelamento dell’ideologia che si cela dietro i proclami di libertà di certi economisti. Questi desiderano che il pianeta, ora soprattutto tramite il valido aiuto del "mercato perfetto" out of control garantito dalla rete telematica, subisca un processo di losangelizzazione. Gli anarco-pirati del cyberspazio noti come hackers ritengono invece che il mercato libero necessiti proprio di control , ovvero di controllo popolare, e di abolizione dei monopoli. L’etica hacker ritiene che 1. Tutta l’informazione deve essere libera, 2. Bisogna dubitare dell’autorità, 3. Bisogna promuovere il decentramento (laddove l’ "agglomerato" della letteratura cyberpunk è fortemente centralmente controllato come la L.A. dei giorni nostri), 4. Che, in definitiva, i computer devono essere usati per cambiare la vita in meglio, essendo ciò nelle loro potenzialità, una volta tolti dalle esclusive mani del potere . Questa visione non è meno liberale o meno in linea con la Dichiarazione d’ Indipendenza di quella anarcocapitalista, anzi, tutt’altro. Ciò dovrebbe fungere da definitivo suggello alla querelle che ha come argomento il concetto che l’anarchismo americano non sarebbe in antitesi al sistema – se inteso nel suo senso reale lo è eccome – e che il liberalismo anarchico americano sarebbe necessariamente filocapitalista – Chomsky e i cyberpunk dimostrano il contrario - e, soprattutto, che quella attuale degli USA sarebbe la strutturazione che naturalmente discenderebbe dallo spirito della rivoluzione del 1776.

 

 

 

 

2.3 – Zone Temporaneamente Autonome

 

Pochi avranno sentito la notizia – e ancor meno vi avranno fatto caso – della morte a soli trentasette anni di XXXX, alcolizzato e povero in canna, agli inizi dell’anno 2000 in uno squallido motel. Egli era l’inventore di uno dei software più diffusi nel mondo, il winzip per la "compressione" dei dati. Tutti invece conoscono Bill Gates, l’ex enfant prodige padre padrone di Microsoft, oltre che l’uomo più ricco del mondo. Ebbene, questi due individui erano entrambi parte di quel nugolo di giovanissimi maghi del computer che infestavano i garage-laboratorio della Sylicon Valley prima dell’avvento del personal computer. Il primo, apparteneva al nucleo populista degli hackers che al grido di "computer for the people" predicava un individualismo libertario difensivo nei confronti del potere autoritario dell’ intellighentia tecnocratica e del capitale. Circa il secondo, invece, si racconta un episodio risalente alla sua adolescenza quando, insieme al suo socio Paul Allen (attuale numero due di Microsoft) ebbe ad esprimere delle rimostranze quando alcuni "compagni", in ossequio al principio "information wants to be free", avevano distribuito gratuitamente un software di loro ideazione. Si tratta qui di un altro genere di individualismo, quello che porta alla creazione del potere. Il primo si riallaccia realmente al filone culturale dell’anarchismo storico statunitense, il secondo rappresenta la cultura statunitense attualmente dominante e che molti vorrebbero vedere come la sua naturale conseguenza. Per comprendere la fallacia di un simile discorso basta fare lo sforzo di immaginare Gates come un anarchico per rendersi conto della improponibilità della teoria. Eppure è questi il maggior teorico e propagandista del’ "friction free capitalism", il capitalismo senza attriti di pura marca anarchica (di quale tipo, però, si è visto) in base al quale la libertà è garantita dal libero mercato. E’ ancora Gates l’uomo condannato dall’anti-trust statunitense per aver contravvenuto alle leggi del mercato…

Per concludere quindi il discorso circa le possibilità liberatorie della rete, è utile riferirsi al più interessante dei pensatori anarchici, ma non solo, prodotto dagli USA dei giorni nostri. Si tratta di un singolare personaggio noto come Hakim Bey, il cui vero nome, Peter Lamborn Wilson, è stato a lungo tempo occultato, il quale vive in un alberghetto del New Jersey tenendosi in contatto col mondo tramite la rete telematica. Pur non apparendo mai in pubblico, questi è autore di un testo di culto: TAZ. Temporary Autonomous Zones . Egli parte da una similitudine; i pirati ed i corsari del XVIII secolo avevano infatti creato una rete informativa che attraversava il globo e, all’interno di questa rete utilizzata per sporchi traffici, esistevano dei rifugi nascosti ed ignoti ai più, delle isole in cui le navi pirata potevano trovare rifugio e rifornimento. Alcune di queste isole ospitavano intere comunità di individui che vivevano fuori dalle regole del resto del mondo. Bey inventa a tal proposito la fortunata definizione di "utopie pirata" per definire queste enclave ad autonomia temporanea, ovvero autonome fino a che non venivano scoperte. Ancora oggi esistono zone controculturali ad autonomia temporanea, TAZ per brevità, e la rete telematica dei giorni nostri, proprio in virtù della mancanza e della impossibilità di una precisa "cartografia" cyberspaziale, permette l’esistenza di alcune di esse, essendo nell’universo esteso ormai geograficamente impossibili. In altre parole, la forza è nella invisibilità. Questo ribalta la concezione di Kelly. Non è la rete e la sua globalizzazione a garantire la libertà ma i suoi anfratti locali.

Col passare del tempo, poi, Bey ha ulteriormente ridimensionato anche queste limitate aspettative libertarie della rete - nella quale all’inizio aveva visto anche la possibilità di sfruttamento come sistema alternativo di socializzazione – per rivedere la sua lettura e affiancarsi quindi a Virilio nel denunciarne l’ingannevole apparenza liberatoria:

Il Cyberspazio è uno spazio senza corporeità, è uno spazio concettuale. Non c’è olfatto, non c’è gusto, non c’è tatto e non c’è sesso. Se ciascuna di queste cose in qualche misura esiste nel Cyberspazio si tratta solo di simulacri di queste cose e non le cose stesse. La sola cosa che può essere Internet per una TAZ è uno strumento, a volte un’arma per raggiungere la libertà.

L’antagonismo, a questo punto, non è né dentro né fuori la rete, non si tratta, come per i neo-marxisti, di ri-territorializzare il conflitto dentro lo spazio unificato del mercato globale. L’opposizione può arrivare solo da un oltremondo rispetto al capitale globale. In altri termini, laddove il capitale si smaterializza e svanisce nel virtuale della new economy, per cui tutto ciò che resta fuori diviene "residuale", stupida realtà concreta, "non connessa", è proprio "ciò che resta fuori" l’oltremondo antagonista di cui riappropriarsi. Non si tratta di "prendere il potere" ma di difendere "la vita e l’immaginazione" rimasti fuori dal cyberspazio nel sempre più marginale mondo reale. La lotta è per "la liberazione dell’immaginazione dall’impero dell’immagine, dalla sua arrogante onnipresenza e singolarità". Hakim Bey ci chiama quindi ad una guerra santa della carne contro il capitale virtuale in una sorta di federalismo "neoproudhoniano", ovvero "federalismo delle differenze" che "porta strani compagni di letto". Fra questi compagni di letto, persino lo stato!:

In una situazione in cui il denaro è "libero" di muoversi attraverso i confini in dispregio di tutta l’economia politica, come nell’internazionalismo "neoliberista" del mercato libero, lo stato si trova abbandonato dal denaro, e ridefinito quale zona di scarsità, piuttosto che di ricchezza.

Si può pertanto perfino ipotizzare di "ri-immaginare lo stato come tipo istituzionale di ‘costume e diritto’, che la società potrebbe impugnare (paradossalmente) contro una forma di potere ancora più definitiva: quella del ‘puro capitalismo’ ". Vediamo qui coincidere la visione di Bey con quella precedentemente considerata di Chomsky.

Tutto ciò ci mostra quanta differenza nel sentire e quante diverse pratiche si celino dietro l’etichetta di "anarchismo" e, ancora una volta, come non sia possibile liquidare l’anarchismo statunitense come filo-capitalista e non pericoloso per il sistema.


 

III - Anarchismo e Psicologia in America

Libertà e nuovo umanesimo

 

 

3.1 I due volti dell’utopismo. Da Walden a Walden II

 

Poliziotto vuol solo dire papà e mamma scritti più in grande.

P. Goodman

 

Michail Bakunin, oltre centocinquant’anni fa, aveva previsto che l’intelligencija scientifica avrebbe contribuito all’instaurarsi dei poteri coercitivi. I servizi della scienza al potere si esplicano in due modi: 1. Fornendogli i mezzi della coercizione (si veda la precedente descrizione di Los Angeles e sull’utilizzo della rete) , 2. Giustificando "scientificamente" l’utilizzo di tale coercizione. Noam Chomsky si è occupato di questo secondo aspetto in uno splendido saggio su J. F. Skinner. Quest’ultimo è stato il massimo esponente della scuola psicologica definita "comportamentismo". Questa scuola, in ragione del suo pragmatismo e della sua operazionalità tipica delle scienze della natura più che di quelle dell’uomo è solitamente interpretata come la psicologia "americana" per eccellenza. Nata come reazione alla psicoanalisi, troppo speculativa e non passibile di indagine e sperimentazione, il comportamentismo si definisce come una psicologia "scientifica" e sperimentale basata sull’osservazione di ciò che è visibile (il comportamento) lasciando da parte ciò che è coperto e quindi solo intuibile (il pensiero). I risultati della ricerca comportamentale sono quantificabili e riproducibili come quelli della fisica. Ne viene fuori una psicologia "senza psiche". Dai suoi esperimenti di "condizionamento operante" con gatti, topi e piccioni, Skinner trasse l’idea che con appositi "rinforzi" , ovvero "conseguenti postivi del comportamento"- cioè i premi -, e "stimoli avversivi", ovvero "conseguenti negativi del comportamento"- cioè le punizioni - , fosse possibile condizionare empiricamente ogni tipo di comportamento. E’ la visione moderna (?) del piacere e del dolore che l’ideologo del liberalismo Jeremy Bentham considerava i due "soli signori" dell’uomo. Lungi dal limitarsi a ciò, Skinner si spinse oltre scrivendo un romanzo utopistico (?) e facendo il verso a David Thoureau (!). Quest’ultimo aveva vissuto la sua utopia nell’isolamento arcadico di Walden, località di campagna vicino a Concord dove potè sfuggire alle norme comunitarie; Skinner ha spudoratamente intitolato il suo romanzo Walden Two. Vi si ipotizza una "società perfetta" in cui tutti individui sono "condizionati" . Egli, inoltre, è convinto che "il controllo della popolazione nel suo insieme dev’essere delegato a specialisti: poliziotti, preti, imprenditori, insegnanti, terapeuti, ecc., che dispongono di rinforzi specializzati e di contingenze di rinforzo codificate". Il controllo, in altri termini, è benefico perché rende il mondo più sicuro. Queste concezioni sono anche espresse in un saggio che è l’oggetto della critica di Chomsky. Egli è molto critico circa gli "scienziati del comportamento che non sanno distinguere un piccione da un poeta" e circa la tecnologia del comportamento il cui dichiarato fine è di "progettare un mondo in cui il comportamento probabilmente soggetto a punizione dovrebbe presentarsi raramente o addirittura mai" . Skinner è esplicito:

Uno stato che trasformi tutti i suoi cittadini in spie, o una religione che promuova il concetto di un Dio onniscente, eliminano ogni possibilità di sottrarsi alla punizione e dànno quindi efficacia estrema al sistema punitivo. La gente si comporta bene benchè non vi sia una supervisione percepibile"

Questa sarebbe la condizione ideale perché, "ovviamente" la libertà "cresce al diminuire dei controlli visibili". E’ una idea un po’ bislacca di libertà e rappresenta il perfetto compimento del "liberalismo realizzato" in terra d’America. L’utilitarismo benthamiano praticato, la ricerca della felicità jeffersoniana rivisitata e degradata in termini di convenienza: rinforzi differenziati a seconda della "abilità nell’obbedire alle leggi", salari differenziali e simili amenità non rappresentano affatto un’utopia, - semmai una distopia – ma il perfetto compimento della società già in atto in USA e tendente a dilagare nell’universo mondo. Altro è utopia, il sogno del "non ancora", non l’estremizzazione del presente. Si è detto all’inizio del paragrafo che la psicologia comportamentista è classicamente "americana" e, all’inizio del saggio, che ad essere tipicamente americana è l’utopia e l’ottimismo nelle capacità individuali. Le due cose sembrerebbero in contraddizione ma non è così. Dovrebbe essere ora chiaro che si tratta di due americhe che della libertà hanno due diverse concezioni. Una America conformista e condizionata che si pensa libera ed una minoritaria e sotterranea cerca la libertà reale dell’individuo. L’America si descrive e si caratterizza soprattutto in questa contrapposizione. Delle due, però, quella coerente con le intenzioni fondanti del paese non è quella skinneriana. Quest’ultima è solo la vincente.

 

 

3.2 La promozione dell’individuo: la psicologia umanistica

 

Esalen passa quasi inosservata al viaggiatore che si trovi a passare sulla costa di Big Sur, in California. La piccola comunità nata nel bel mezzo del flower power degli anni ’60 è segnalata da una piccola freccia di legno. Eppure questo gruppetto di case di legno a strapiombo sull’oceano è il più importante "centro per lo sviluppo del potenziale umano" degli Stati Uniti, quindi del mondo. Esalen è la quintessenza di quanto è stato definito "adamismo" americano e rappresenta l’altro capo di quel filo rosso che era partito dal trascendentalismo di Emerson per arrivare ai giorni nostri intatto, nonostante tutto. Ad Esalen operò per anni Fritz Perls, un tedesco, ex psicoanalista dalle frequentazioni anarchiche, che dopo aver girovagato senza fortuna per mezzo mondo a propagandare la sua idea umanistica di psicoterapia, trovò finalmente in California la terra promessa e venne incoronato, a settantacinque anni, "Re degli Hippies". Né l’idea di una psicologia umanistica, né la sua derivazione europea erano una novità. Le basi epistemologiche della cosiddetta Psicologia Umanistica sono le concezioni fenomenologiche tedesche e l’esistenzialismo francese, ma solo in America era possibile trovare il fertile terreno dell’individualismo ottimista, del "self reliance" emersoniano, dell’ ottimismo antropologico, del rigetto del vecchio e della regola che permise ad alcuni autori di gettare le basi di una "terza via" della psicologia, le altre essendo la psicoanalisi ed il comportamentismo. Quale l’idea di fondo? E’ presto detto: l’uomo non è poi male e, lavorandoci su, ognuno può sviluppare tutto il suo potenziale. Capostipite del movimento fu lo psicologo Abraham Maslow. Questi ritiene che studiando solo la patologia, la psicologia si sia ristretta ad indagare solo una piccola parte dell’uomo, e quella più meschina. L’uomo è invece un progetto individuale che tende al fine della "autorealizzazione". Nelle sue parole:

L’uomo manifesta nella sua stessa natura una spinta verso un Essere sempre più pieno, un’attuazione sempre più perfetta della propria umanità, esattamente nello stesso modo naturalistico, scientifico, in cui si può dire che una ghianda "spinga" per essere una quercia, o che si può osservare una tigre "spingere" verso l’essere appunto una tigre, o un cavallo verso l’essere, appunto, equino.

Il fine del progetto sarà quindi quello di essere "pienamente umano", come dice Carl Rogers, forse il più importante degli psicologi umanisti. Ogni uomo, in altri termini, dovrebbe divenire consapevole delle proprie potenzialità, ovvero delle sue caratteristiche fondamentali possedute in potenza, per "divenire ciò che realmente è" sviluppandole al massimo grado, al di là dei condizionamenti sociali. In tal caso si avrà una "congruenza" fra l’esperienza dell’organismo ed il Sé. Altrimenti si assisterà ad una incongruenza che porterà alla creazione di un Sé di convenienza, un "falso Sé". L’autorealizzazione è in cima alla piramide dei bisogni umani. A contrastarla ci sono le regole ed i valori societari condivisi, alcuni dei quali lo stesso Rogers elenca criticamente, citandone le "fonti":

- I desideri ed i comportamenti sessuali sono per lo più cattivi.

Le fonti di questo costrutto sono molte: genitori, chiesa, insegnanti.

Genitori ed insegnanti sono concordi con i militari nel sottolineare questo concetto. Obbedire è bene. Obbedire senza discutere è ancora meglio.

-"Far soldi" è il bene più grande. Le fonti di questo concetto sono troppe per poterle citare tutte....

La personalità si adatta ai valori soprattutto tramite la propria auto-mutilazione repressiva, divenendo quindi l’uomo "ciò che non è". E’ interessante leggere una pagina rogersiana per confrontarla con la visione skinneriana:

Si dice spesso che se un individuo dovesse essere quello che veramente è realizzerebbe la bestia che è in lui. Un discorso simile mi diverte e mi fa pensare che potremmo guardare più attentamente alle bestie. Il leone è spesso il simbolo della "bestia da preda". Ma che cosa si può dire di lui? A meno che non sia stato molto modificato dal contatto con l’uomo, egli ha molte delle qualità che ho descritto. Uccide quando ha fame, è vero, ma non continua in un violento e selvaggio contegno di uccisore, né si nutre senza bisogno. Mantiene la sua armonia meglio di molti di noi. E’ bisognoso di aiuto e dipendente quando è cucciolo, ma progredisce , da questo stadio, verso l’indipendenza. Non si aggrappa alla dipendenza. E’ egoista ed egocentrico nell’infanzia, ma nell’età adulta mostra un grado ragionevole di cooperatività nutrendo, prendendosi cura e proteggendo i suoi piccoli. Soddisfa i propri desideri sessuali, ma ciò non significa che cerchi selvagge orge sensuali. Le tendenze e gli impulsi coesistono, in lui, in piena armonia. Egli è, essenzialmente, un membro costruttivo e degno di fiducia della specie "felix leo".

Questa pagina è significativa per molti versi. Innanzitutto perché rappresenta il totale ribaltamento del paradigma freudiano in quanto per il viennese la perdita dei freni inibitori comportava il mettere in libertà un "perverso polimorfo". In secondo luogo perché, in fondo, il paradigma freudiano qui rigettato è in realtà un paradigma hobbesiano. Lo stato di guerra di tutti contro tutti che Hobbes vede come lo stato di natura presuppone un uomo guidato dall’istinto di sopraffazione e ciò comporta la necessità del governo che difenda l’uomo dai suoi stessi istinti. Visione che è condivisa dalla lettura skinneriana. La visione umanistica, d’altro canto, è fedele ad una immagine benigna dell’uomo, così come già Eric Fromm, altro transfuga tedesco negli USA, aveva espresso in quel libro di strabiliante successo che fu L’Arte di Amare e che influenzò gran parte della cultura americana di quegli anni. Fromm non considerava gli impulsi aggressivi ("necrofili") come naturali ma come una espressione di patologia. Fra Fromm e Rogers , fu il primo quello che ha tratto un impegno politico da questa lettura vedendo la causa della storpiatura delle naturali tendenze "biofile" nella strutturazione capitalistica della società. Fu sempre Fromm quello che preconizzò la necessità di fondare un "socialismo comunitario umanistico". Dei due, però, era Fromm l’europeo, l’uomo che aveva una cultura filosofica accademica, che voleva coniugare Marx e Freud, mentre Rogers, in modo molto più americano, non ha mai fatto grandi dichiarazioni politiche né espresso alte elucubrazioni filosofiche. Il suo è un radicalismo puramente culturale nello stile yankee. Il suo self reliance, la sua sovranità individuale si inquadra perfettamente nel solco tracciato dal trascendentalisti e dagli individualisti classici. Quando gli si faceva l’obiezione che se ognuno avesse fatto di testa propria si otterrebbe l’ "anarchia" sociale, Rogers rispondeva che "Tutti hanno fondamentalmente le stesse esigenze, compresa la necessità di essere accettati dal prossimo", pertanto i loro valori avranno "un alto grado di comunanza", quindi non ci si troverebbe mai nella condizione hobbesiana. Similmente Rogers era convinto che le sue scoperte in merito alla tecnica di comunicazione e di aiuto contenessero "la chiave per risolvere i conflitti internazionali". In Rogers, insomma, si ritrova tutto l’armamentario concettuale classico dell’ american dreamer, dell’uomo che vede nelle pressioni culturali comunitarie l’oppressione alla singolarità dell’individuo agente, singolarità che va "promossa" mediante l’espansione di tutte le sue potenzialità. E’ la self reliance trascendentalista, è l’adamitismo classico, è la riscoperta di sé del movimento psichedelico. La psicologia umanistica, in altre parole, è radicale pur non avendo mai fatto proclami politici, radicale ed "individualista" nel senso americano. Si tratta di una visione benigna e benevola, aperta della persona umana che solo nella libertà esprime e ritrova se stessa. Jefferson avrebbe approvato. Senz’altro anche uno dei giganti del pensiero anarchico storico, Petr Kropotkin, avrebbe ritrovato il suo pensare negli scritti umanisti. Egli aveva infatti definito l’individualità, istanza da difendere, come "la piena espansione di ciò che è originale nell’uomo". E’ insomma qui palpabile la sovrapponibilità delle visioni dell’utopismo liberale dei padri fondatori con l’anarchismo classico di matrice europea. La "promozione dell’individuo" è il nucleo centrale. Tutto il movimento comunitario degli anni ’60 condivideva questa visione.

Qui, si badi bene, non si intende affatto argomentare che la psicologia umanistica sia una psicologia anarchica, bensì sottolineare che la congenialità di questa corrente di pensiero col radicalismo liberale che, si è detto, è tutt’uno con l’immaginario anarchico americano, deriva dal fatto di essere l’una la diretta figlia dell’altro. In altri termini, è il patrimonio genetico di fiducia e ottimismo nelle possibilità dell’uomo quello che la cultura radical-umanistica ha ereditato dal libertarismo puro della vergine America. Non stupisce quindi che accanto a Pearls, fra i fondatori della pratica nota come psicoterapia della Gestalt vi fosse uno dei pensatori anarchici più in vista d’America: lo scrittore Paul Goodman. Questi è stato il più feroce critico del "Sistema Organizzato", questo surrogato della civiltà caratterizzato del feticismo tecnologico incentrato sulla produzione che sgretola le individualità nella "sociolatria". Goodman è il più lampante esempio della continuità col pensiero dei padri fondatori. La sua idea di anarchismo è quella di una disposizione al nuovo, verso la libertà, la sostituzione dello sclerotismo con la creatività, della rivoluzione con la "difesa e l’ allargamento degli spazi di libertà già esistenti". Ciò significa "riprendere allo Stato la parte del potere che ci è stata illeggittimamente tolta a favore di interessi ed obiettivi contro-natura". Egli, insomma, è pensatore fortemente ancorato all’esperienza americana che si rifà alla Riforma protestante ad al liberalismo di Jefferson e, proprio per questo, combatte l’America dei poteri costituiti incoraggiando "un aumento di quelle precise azioni e atti per cui le persone sono di fatto sbattute in galera". Siamo quindi ancora dalle parti del Civil Disobedience di Thoureau. Egli è convinto che "anarchici" è il termine con cui bisogna riferirsi oggi ai veri liberali e che l’ "anarchismo" consista in

un continuo misurarsi con una nuova situazione, una vigilanza continua per garantire che le libertà passate non vadano perdute, che non si trasformino nel loro opposto, proprio come la libera impresa si è tradotta nella schiavitù del salario e nel capitalismo monopolistico; l’autonomia del potere giudiziario nel monopolio dei tribunali, dei poliziotti e degli avvocati; e l’autonomia didattica negli apparati scolastici.

Goodman è, con Chomsky, il massimo demistificatore dell’idea della unicità di pensiero capitalista e liberale. Esalen è la controparte di Walden Two.

3.3 Dalla psicologia umanistica alla New Age

Nuovo umanesimo, quindi. Promozione dell’individuo, piena espansione di sé. Questo è il leit-motiv liberale classico (Von Humboldt), anarchico (Kropotkin), Hippy e Yppie (Leary), neo-umanistico (Maslow, Rogers, Goodman, ecc.). E’ una vena unica che, sotterranea, non si è mai interrotta e si è mantenuta in vita grazie alle voci predicanti nel deserto dei radicali americani. Si pensi, ad esempio, alla lezione di uno degli intellettuali più importanti della storia del pensiero americano, John Dewey (che strano, un altro psicologo!). Egli ha sottolineato la necessità di riappropriarsi degli aspetti utopici del liberalismo intendendolo in principal modo nel suo radicale senso di etica della relatività e non di libera lotta economica e propagandando la scuola attiva e partecipata che non porti al dogmatismo ma abitui alla riflessione. E’ l’ennesimo esempio di intellettuale tutt’altro che "alternativo" e marginale che cavalca l’utopia. Eppure – ormai s’è capito – questa visione ha sempre un’altra faccia in opposizione che bisogna attentamente valutare affinchè non si cada in fraintendimenti. Si corre il rischio di inserire nel gran calderone delle filosofie e di terapie psicologiche umanistiche anche alcune semplificazioni – in buona e in cattiva fede – che infestano la società americana, da sempre alla ricerca di una felicità plug-and-play, il cui approdo non si può certo definire libertario. Si consideri la Chiesa di Scientology fondata dal mediocre scrittore di fantascienza L. Ron Hubbard. Associazione pressochè esoterica, Scientology si vende quale un "ponte verso la libertà totale". Questo ponte è un percorso di ventisette livelli, molti dei quali segreti, che gli iniziati percorrono sotto la guida degli avanzati secondo la tecnica hubbardiana di Dianetics. Trattasi di una disciplina psicologica pseudo-umanistica il cui fine sarebbe lo sviluppo del potenziale umano attraverso il passaggio - a caro prezzo economico e sociale - dei vari livelli del "ponte". Vi aderirono inizialmente, sull’onda dell’entusiasmo umanistico ed "adamitico", perfino lo stesso Fritz Perls e lo scrittore beat William Borroughs. Attualmente la setta – che a questo si riduce – si presenta come un immenso impero multimiliardario e multinazionale noto per l’utilizzo di mezzi di coercizione fisica e psichica per i quali - e per azioni di spionaggio - subisce processi quasi in ogni paese del mondo. La caratteristica che desta comunque maggiore preoccupazione è che l’ambizione del movimento è di dar luogo ad una democrazia scientologica su scala planetaria. " A chiunque si opponesse verrebbe negato lo status di cittadino, affinchè non possa nuocere; inoltre gli sarebbe vietato di sposarsi ed avere figli". L’instaurazione di questo nuovo ordine etico che conferisce "libertà totale" in cambio di "totale disciplina" è proseguita, oltre che con una azione di proselitismo, anche attraverso una sistematica e progressiva opera di infiltrazione nell’economia e negli apparati statali."

Si pensi, ancora, alla New Age, filosofia sincretica di incongruente matrice pseudo-umanistica ed orientaleggiante. Vi confluiscono le più diverse culture planetarie, da quelle orientali (induismo, buddismo, yoga, tao) a quelle pellerossa pueblo e navajo, a quelle occidentali (psicologia umanistica, fisica quanto-probabilistica), il tutto inquadrato in una cornice astrologica con una spruzzatina di alchimia ed ufologia. L’idea di fondo è che l’umanità stia entrando, dopo duemila anni terribili sotto il segno dei pesci, in una "nuova era" di pace e prosperità sotto il segno dell’acquario. La New Age, recupera e ritinteggia alcuni elementi della cultura hippy degli anni ’60. L’ecologia ed un ritorno alla natura ne sono una fondamentale caratteristica in un’ottica olistica di congiunzione del micro-cosmo col macro-cosmo. Vi si trovano la cultura della salute dell’uomo da raggiungersi con l’omeopatia, con cristalli o pietre "magnetiche" in una comunione totale con Gaia, la madre terra. Il testo fondamentale del movimento è La profezia di Celestino di James Redfield. Vi è espressa l’idea del viaggio iniziatico costituito dalle "nove illuminazioni" che permettono di raggiungere un grado elevato di consapevolezza attraverso "la distanza da sé". Ciò sarebbe la premessa per un punto d’arrivo dell’umanità assolutamente risolutivo dei problemi del mondo. Non si è quindi molto distanti da Dianetics. La New Age è il contraltare della visione skinneriana, irrazionalismo antiscientifico contro razionalismo (pseudo)scientifico. Messa in questi termini la New Age non appare come un movimento preoccupante ma solo come un insieme di freaks rintronati, di innocui salutisti e teneri vegetariani, post-hippies che professano una neo-romantica fuga dalla civiltà e aspettano gli ufo per ascoltare i messaggi positivi dei "fratelli del cosmo". In realtà la New Age è un fenomeno pericoloso. Michel Lacroix, studioso del movimento, scrive:

Facendo della fusione con Gaia il principio fondamentale del nuovo ordine umano, la New Age dà un definitivo indirizzo planetario alla politica e propone la creazione di istituzioni su scale egualmente planetaria. Da notare come tutte queste idee siano condivise dai leader delle varie sette. Il loro progetto tende a creare una sorta di nuovo governo mondiale, composto da personalità appartenenti a sette pervenute ad un grado di coscienza più elevato. Qualcosa del genere lo troviamo in World Goodwill (Buona Volontà Mondiale) , che ha formulato un programma che combina l’idea di un governo mondiale con l’annuncio di un prossimo ritorno di cristo sulla terra. La New Age sogna un’aristocrazia spirituale diretta da società segrete, una sorta di sinarchia planetaria.

La New Age, quindi, ha una vocazione totalitaria il cui fine non si discosta poi molto da quello di Scientology, per quanto si possa immaginare che i profeti del New Age siano "in buona fede" e quelli di Scientology non lo siano mai stati. Non è questo il punto. Il fatto importante è che delle filosofie che affermano di basarsi sulla umanistica "promozione dell’individuo" giungano a questi approdi.

 

 

 

 

Considerazioni conclusive: Jefferson trtuffato, Jefferson truffatore

 

America…. Un disegno per l’intero genere umano,

l’ultimo e il più grande di tutti i sogni umani – oppure niente.

F. Scott K. Fitzgerald

Quando descrisse la società americana come una orchestra in cui a tutti era consentito un assolo, de Toqueville forse non aveva completamente colto la realtà o forse la realtà storica non gli aveva ancora offerto la metafora più calzante. L’ "individualismo" congiunto alla socialità, o meglio, di base alla socialità, è meglio espresso dall’idea di una band alle prese con la realtà espressiva che è uno dei maggiori contributi dell’America al mondo: il jazz. In un combo jazz, non solo non esiste un direttore d’orchestra ma, su un canovaccio comune, tutti gli strumentisti improvvisano contemporaneamente senza bisogno di attendere il momento del "solo". Ciò non distrugge l’armonia ma la arricchisce. La "ricchezza nella differenza" è l’ idea dei padri fondatori. Eppure l’ uso che si è fatto del concetto di

individualism di Jefferson è assolutamente incoerente con le premesse illuministiche che guidarono il firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. La "sovranità individuale" di Warren è invece perfettamente in linea con l’ideale fondante di libertà. Sia il primo che il secondo – così come molti altri "individualisti" storici – vengono ora considerati fra i precursori dell’attuale american way of life e, soprattutto, di molte fra le più incongruenti ed improbabili vie di fuga di tale modus vivendi, dal capitalismo selvaggio, al localismo egoista, al giustizialismo reazionario. Ma l’anarchismo negativo dell’uomo che si fa giustizia da se, la cui libertà consiste esclusivamente nella possibilità di armarsi e nel diritto di non pagare le tasse è una storpiatura degli ideali della dichiarazione jeffersoniana. Questa non è né un’orchestra né una jazz band, ma solo una cacofonia in cui ognuno cerca di fare più rumore degli altri. La libertà, invece, del radicalismo libertario americano rappresenta la faccia in opposizione di questa medaglia, quella che vede l’individualismo come l’unica base sicura della comunità. Scrisse Benjamin Tucker che "il più perfetto socialismo è possibile soltanto sulla base della realizzazione del più perfetto individualismo". L’individualismo come difesa e salvaguardia delle caratteristiche e della singolarità dell’individuo contro i poteri forti, soprattutto economici. Questo è l’anarchismo americano.

Esiste poi una gran massa di individui che dalle loro indistinte villette, nei loro indistinti vialetti, emettono un unico e monotono, indistinto suono.

Questo nostro excursus nel concetto di libertà in America ci porta a concludere che da un’unica radice, l’illuminismo, sono venute fuori varie piante e che queste a loro volta siano spesso circondate da parassiti ed erbe infestanti. Eppure solo una grave miopia può far confondere una pianta con l’altra, le erbe infestanti con la pianta. La miopia o la cattiva fede. Miopi, in mancanza di prove a sostegno di altre ipotesi, si possono definire la maggior parte degli osservatori del fenomeno libertario statunitense. E’ infatti assolutamente impraticabile ogni tentativo di omologare l’anarchismo americano come filocapitalista e, soprattutto, ritenere l’attuale strutturazione degli Stati Uniti come la diretta filiazione degli ideali libertari dei padri fondatori, i quali si ritrovano invece integralmente nella cultura anarchica e tutt’altro che capitalista dei radicali americani. Certo, chi ha il coraggio di definirsi anarchico e capitalista esiste, ma si presenta alle elezioni con i repubblicani…..

Si può pertanto affermare che l’America ha tradito Jefferson. D’altro canto si potrebbe tranquillamente affermare anche che Jefferson ha truffato l’America. Si prenda il caso della New Age o di Scientology. L’aspetto più paradossale è che una cultura basata sul culto della libertà individuale ed una filosofia che prevede la "promozione dell’individuo" possano indurre nell’individuo stesso una tale sottomissione alle pressioni del gruppo e dei guru. Eppure qui non vale il discorso della inversione del concetto, lo stravolgimento dei valori che si era vista per lo pseudo-anarchismo negativo ed egoista.

Qui non si assiste ad una inversione, non c’è alcuno stravolgimento della tendenza adamitica ed antiautoritaria, semmai una ulteriore sottolineatura. Il "fedele" di Scientology o l’appassionato di New Age condividono la stessa fiducia nelle possibilità di miglioramento di sé, di potenziamento individuale, di una "felicità" dietro l’angolo. Il problema è che essi cadono in questo fideismo proprio per l’eccessiva fiducia in questi valori! Il motivo di questa fiducia è in quella che è la ragione di tutto quanto c’è di positivo e di tutto quanto c’è di negativo nell’esperienza americana, ovvero il cosiddetto "inganno Jefferson". La fortunata definizione è di Anne Taylor Fleming. L’autore della Dichiarazione d’Indipendenza è visto da questa autrice come colpevole di aver considerato la "felicità" un diritto inalienabile del cittadino americano. Il risultato di questa idealistica visione è che il cittadino la cerca sul serio. Chi – la maggioranza – non la trova, continua a sperare di trovarla per pura americana, commovente fiducia nel futuro. Questo giustifica l’utopismo e lo sperimentalismo di questo popolo che tanto ha portato al mondo in termini di progresso. L’aspetto invece preoccupante è che, a causa di questa aspettativa, l’ homo americanus è incapace di sopportare degnamente l’infelicità. Una banalissima e giustificata tristezza viene inequivocabilmente letta come "patologica" ed insopportabile. Ciò ha senz’altro a che fare la mania tutta americana per le psicoterapie e con l’utilizzo spregiudicato ed allegro che si fa in quel paese di antidepressivi (si pensi al fenomeno culturale che è stato il "bye bye blues", l’antidepressivo divenuto uno status symbol negli anni ’80). Ebbene, a tutto ciò è senz’altro da collegare anche la facilità con cui gli abitanti del nuovo mondo si gettano fiduciosamente fra le braccia dei più improbabili culti. L’americano è costituzionalmente predisposto a seguire chiunque – predicatore televisivo, demagogo, guru, psico-imbonitore, extraterrestre - gli prometta felicità istantanea, ovvero, secondo l’espressione americana, "plug and play" (inserisci la spina e funziona). Anche l’allargamento delle coscienze predicato dalla controcultura degli anni ’60 non prevedeva lunghi training di meditazione ma la "pragmatica" scorciatoia degli allucinogeni. Oggi la stessa fiducia la si riversa su Internet.

Si può quindi dire che Jefferson ha truffato l’America? In realtà né lui né gli altri padri fondatori (Adams, Washington, ecc.) hanno truffato qualcuno o sono stati truffati da alcuno. Essi hanno solo posto le basi culturali per una mentalità che non incasella l’utopia nello schedario dei vaneggiamenti intendendola come luogo del "mai" bensì in quello delle speranze, interpretandola come quello del "non ancora". Il libertarismo né è il principale derivato ma i figli deformi dell’individualismo spuntano in continuazione da questi semi pretendendo di confondersi con la stessa pianta e rivolgendosi spesso contro essa stessa per soffocarla. D’accordo, ma l’importante è ricordare che "una sorveglianza costante è il prezzo della libertà". Lo ha detto Jefferson.