Chris Isaak


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Silvertone, 7/10
Chris Isaak, 7/10
Heart Shaped World, 6.5/10
San Francisco Days, 6/10
Forever Blue, 6.5/10
Baja Sessions , 4/10
Speak Of The Devil , 5/10
Always Got Tonight (2002), 4/10
Mr. Lucky (2009), 5/10
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Chris Isaak (californiano di Stockton, trapiantato a San Francisco) ha forgiato un suggestivo ibrido fra il pop romantico di Orbison, il rock strumentale dei Ventures, il tenore singhiozzante di Elvis Presley, le colonne sonore di Morricone e i languidi "lenti" da cocktail lounge.

L'atmosfera triste e fatalista di Silvertone (Warner, 1985) e` in realta` una ragione di vita. Accompagnato dallo strimpellio sotterraneo di James Calvin Wisley, il suo canto intona in uno stile abulico e sofferente canzoni come Dancin' che sono teorie esistenziali, indifferenti al passare del tempo, alla diatriba fra alienazione urbana e spontaneita` rurale, alle bellezze della natura, alla gente, alle vicissitudini quotidiane. Vivono in un loro nirvana del dolore assoluto e inestinguibile, sulla cresta di un arcobaleno scolorato. Non velenose, non disperate, semplicemente immanenti e universali. Gran parte dei brani sono odi alla solitudine, suppliche spiritual come Talk To Me e The Lonely Ones. Il valzer Western Stars e Funeral In The Rain indulgono forse troppo nell'estasi del viaggiatore solo al cospetto del grande paesaggio deserto.
Soltanto in Voodoo la paura prende il sopravvento, trascinata da un passo di giungla alla Bo Diddley e da uno shout alla Howling Wolf. E cosi` il battito country trascinante di Gone Ridin' finisce per trovare similitudini con il gotico sudista dei Gun Club. Quando la musica accelera in una cadenza esuberante (Livin' For Your Lover, Unhappiness), l'effetto e` dolcissimo. Il funerale si ferma per un istante ad osservare la vita che continua, e poi riprende, cosciente di essere soltanto una delle fasi. La critica si concentra sui riferimenti ai classici degli anni '50, ma in realta` soltanto Tears (Orbison) e Pretty Girls Don't Cry (Everly Brothers) sono copie carbone di stili altrui. Il grosso del disco non potrebbe essere piu` originale e personale.

Chris Isaak (Warner Bros, 1987) porta a compimento la maturazione artistica. Rimane il suo "penchant" per gli anni '50 e '60, l'epoca con cui si immedesima piu` facilmente, ma e` come una fotografia sfumata, guardata da una distanza infinita. Tutte le canzoni trasportano in paradisi di sole, ma lui, il cantore, non e` li`, e` rintanato in un paesaggio grigio e piovoso, e canta di fatto quell'abisso incolmabile (esistenziale prima che materiale) che lo separa dal suo sogno. Accompagnano il suo sconsolato lamento prima rintocchi sinistri di palude (You Owe Me Some Kind Of Love), poi un delicato jingle-jangle (Fade Away), poi uno smilzo blues-rock alla Radar Love (Wild Love), un trotto country (You Took My Heart) e persino passi di flamenco (Lovers Game). Tutto l'arsenale di segni di quell'epoca magica viene convertito a un umore disperato, a un tenebroso senso di impotenza. Il contrasto fra l'assunto e la prassi culmina in canzoni formalmente impeccabili come Blue Hotel, nella quale sembra di ascoltare Roy Orbison alla testa di un complessino surf da spiaggia.
Composizioni intense e introverse come Lie To Me e Waiting For The Rain To Fall compongono quasi delle messe private, delle funzioni religiose che rovistano ossessivamente nei meandri della memoria, come se Tim Buckely fosse stato divorato dal passato invece che dalle droghe.
L'unico momento di tregua viene dalla melodiosa This Love Will Last, su una squisita armonia folk-rock.
Isaak trova insomma un equilibrio improbabile fra la depressione nervosa dei suoi testi e i paesaggi ottimisti che la sua musica rievoca.

Su Heart Shaped World (Reprise, 1989) tutto cio` sembra spesso forzato, come se Isaak fosse costretto dal successo a imitare se stesso. Nothing's Changed e Blue Spanish Sky non hanno praticamente struttura musicale, sono pure atmosfere. Il country di I'm Not Waiting e la polka di Forever Young si lasciano alle spalle il clima populista e domestico degli anni '50 e lo proiettano nello show-biz negli anni '70, come se Isaak fosse stanco di essere catalogato nel filone del revival filologico. La logorroica In The Heat Of The Jungle ritorna ai climi sinistri di Voodoo, ma sembra piu` una jam estesa dei Creedence Clearwater Revival che un blues delle paludi. Colpa anche dell'arrangiamento, che e` insolitamente vario e curato. Ma e` questo il disco che gli procura la celebrita`.
Quel recital spaziale che e` Wicked Game, sospesa in atmosfere di fantasmi, con i rintocchi sfumati della chitarra e un battito soffice della batteria a scandire il crooning tristissimo di Isaak, quasi uno yodel, diventa un hit quasi due anni dopo essere stato pubblicata. Non a caso e` anche il brano che si ricollega in maniera piu` naturale ai dischi precedenti.

Negli anni '90 Isaak ha comunque trovato il meritato successo, imponendo con le sue nostalgiche composizioni l'immagine di poeta solitario, alla deriva nelle sue radici culturali. San Francisco Days (Reprise, 1993) ne fa anzi un eroe nazionale. Ancora una volta il sound della title-track sembra artificiale, troppo aggressivo per essere davvero suo. Il frizzante rockabilly di I Want Your Love, la languida cantilena hawaiana di Except The New Girl, il rock and roll di Lonely With A Broken Heart sono semplici esperimenti di revival, hanno perso il lugubre fascino esistenziale delle sue meditazioni. Isaak e` un poeta, non uno strillone di giornali. Il blues indemoniato alla Slim Harpo di Round And Round e il brioso collage di Two Hearts (che ricopia un pezzo di Queen Of Hearts e un pezzo di La Bamba) hanno dalla loro una struttura trascinante, ma (con l'unica eccezione della suspense di Move Along e dello swing a passo felpato di 5:15) mancano del tutto le atmosfere liriche che l'hanno reso grande. Peggio: Can't Do A Thing To Stop Me tenta di costruirgli una carriera da cocktail lounge. Isaak rimane il maestro dell'atmosfera, cosi` come Hitchcock fu il maestro del thriller, ma i suoi dischi sono sempre piu` mestiere e sempre meno arte.

Non a caso Isaak ha scritto parte delle musiche per i film di David Lynch (Isaak e` anche attore cinematografico).

Forever Blue (Reprise, 1995) all'apice della fama, trova forse l'equilibrio giusto fra un sound molto piu` potente e moderno e tematiche molto personali (in questo caso una vera e propria ossessione per la perdita della sua ragazza). Things Go Wrong (Orbison) e There She Goes (Presley) sono i tributi di turno ai suoi idoli del passato, ma Baby Did A Bad Bad Thing e` un incalzante boogie alla John Lee Hooker, Somebody's Crying e` una ballad degna di Gordon Lightfoot, e il disco si libra improvvisamente nel passo marziale, nell'organetto e nel riff distorto di Go Walking Down There, nel rovente stile del garage-rock.

Passa sotto silenzio Baja Sessions (Reprise, 1996), opera minore registrata sulla spiaggia Messicana con l'obiettivo di comporre la colonna sonora ideale per il corteggiamento. Alcuni brani sono vecchi, altri sono cover. Pretty Girls Don't Cry, Wrong e Waiting For My Lucky Day rubano la scena alle composizioni piu` famose. Ma Isaak assomiglia sempre piu` come Roy Orbison e sempre meno a Elvis Presley, e dipende sempre piu` dalla chitarra di Hershel Yatovitz.

Isaak ha scritto alcuni dei massimi classici della ballad desolata. Con lui il revival (l'"American graffiti") diventa piu` che semplice nostalgia, diventa una nostalgia esistenziale, uno spleen costituzionale, un anelito metafisico per la propria identita` storica e individuale. Isaak e` un filosofo del tempo. Nessuno sa, come lui, rendere il senso del tempo che passa, crudele e inesorabile.

San Francisco was graced by the isolated voice of Chris Isaak, a leftover from the "Sixties revival" movement who internalized Roy Orbison's romantic crooning, Elvis Presley's sobbing tenor, languid lounge music, Ennio Morricone's epic soundtracks, and the Ventures' atmospheric instrumentals. The melancholy and stoic mood of Silvertone (1985), well rendered by subterranean guitar strumming, revealed an existential malaise that was not desperate and not frightened, but rather impotent in the face of an immanent and universal force, as if contemplating a nirvana of absolute and eternal sorrow. Chris Isaak (1987) was an equally compelling show of desolate private masses and unfocused photographs of a distant grey landscape. His art peaked with the trance-like recital of Wicked Game (1989), despite the fact that Heart Shaped World (1989), San Francisco Days (1993) and Forever Blue (1995) offered more lively and less personal reproductions of the 1950s and 1960s.
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Speak Of The Devil (Reprise, 1998) is (unusually for him) a rock album (check out Speak of the Devil), although littered with his plaintive warbling and ghostly Elvis impersonations (Please, Don't Get Down On Yourself, Black Flowers). He even finds space for a surf instrumental, Super Magic 2000.

Issak seems prisoner of his own stereotype, incapable of bettering it or of innovating it: Always Got Tonight (Reprise, 2002) sounds like a Chris Isaak tribute album.

Mr. Lucky (Reprise, 2009), his first album in seven years, is background muzak for old Isaak fans: it recycles stereotypes with manic attention to sonic details (that simply enhance abovesaid stereotypes). We've Got Tomorrow and Best I Ever Had well represent the atmospheric side, while Mr. Lonely Man and Big Wide Wonderful World flex the muscles. The real protagonist, though, is the production work.

Beyond the Sun (2011) is an album of (very old) covers.

(Translation by/ Tradotto da xxx)

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