Tori Amos


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Y Kant Tori Read (1988), 4/10
Little Earthquakes (1991), 7.5/10
Under The Pink (1994), 7.5/10
Boys For Pele (1996), 7/10
From The Choirgirl Hotel (1998), 6.5/10
To Venus And Back (1999), 5/10
Strange Little Girls (2001), 4/10
Scarlet's Walk (2002), 6/10
The Beekeeper (2005), 5/10
American Doll Posse (2007), 5/10
Abnormally Attracted to Sin (2009) , 4/10
Midwinter Graces (2009), 3/10
Night of Hunters (2011), 5/10
Gold Dust (2012), 4/10
Unrepentant Geraldines (2014), 6/10
Native Invader (2017), 6.5/10
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Los Angeles-based vocalist and pianist Tori Amos fused Kate Bush's operatic falsetto, Joni Mitchell's piano-based confessional odes and Cat Stevens' romantic piano figures on Little Earthquakes (1991). Its ballads were simple but profound, personal but universal, melodic but discordant, thus achieving a synthesis of emotional states, not only of musical styles. The violence of hyper-realism seemed to prevail over the fairy-tale magic of introversion on Under The Pink (1994), a work derailed by syncopated rhythms, dissonant lashes, gospel organs, hysterical fits, orchestral flourishes and moody vocals. Leveraging the experiments of that album, the harpsichord-obsessed Boys For Pele (1996) sounded like a work of uncontrolled musical genius: it indulged in timbric juxtaposition, but mostly for its own sake. Backed by a rock'n'roll band and enhanced by electronic arrangements, Amos eventually chose a simpler career, starting with the much more accessible (and trivial) From The Choirgirl Hotel (1998).


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Tori Amos (Myra Ellen Amos), figlia di un ministro protestante della North Carolina, che all'età di tredici anni era già fuggita di casa e si guadagnava da vivere cantando nei nightclub di Washington, vagabonda irrequieta che negli anni successivi avrebbe continuato a cercare testardamente il successo (a Los Angeles in un complesso di synth-pop, Y Kant Tori Read, che pubblicarono Y Kant Tori Read nel 1988), riusci` a realizzare i suoi sogni soltanto nel 1992, ventottenne.

I suoi vocalizzi camaleontici, ma per lo più il falsetto operatico di Kate Bush, sottolineano le confessioni adulte di Little Earthquakes (EastWest, 1991). Dalle ballate pianistiche di Silent All These Years (a due passi dal folk psicanalitico di Joni Mitchell ma con un tono quasi infantile) e Winter (affogata invece in un tripudio un po' fuori luogo di violini "hollywoodiani") a Me And A Gun, spettrale cronaca a cappella di uno stupro, la raccolta ha come tema unificante quello dei traumi psicologici inflitti alla donna, spesso resi con l'ausilio di immagini religiose (Crucify, in cui canta "Every day I crucify myself"). Più che un album è uno di quei diari che le ragazze tengono di nascosto.
La chiave del disco è il magico contrappunto che Amos instaura fra il suo melisma accorato e le figure epiche del pianoforte (non a caso più che Kate Bush l'insieme fa venire in mente Cat Stevens). Esemplare e quintessenziale è Crucify, in cui le vocali vengono spesso lasciate fluttuare libere, in una maniera che sposa l'opera cinese con lo spiritual, e il piano accompagna la melodia in maniera apparentemente distratta, in realtà rinforzandone la potenza drammatica. La lunga Mother è invece una diretta emanazione dei primi dischi di Joni Mitchell. La tetra vertigine di Little Earthquakes è l'unica che deve veramente qualcosa a Kate Bush, per quell'inseguirsi di segni critpici (tamburi marziali, ronzio di chitarra elettrica, coro da rito magico).
Con l'eccezione dell'atmosfera folle di Precious Things, e della spiritata Happy Phantom, che sembra uscita da uno spettacolo di musichall, la dinamica di queste romanze è semplice: la voce racconta qualcosa di molto personale, e il piano ne sottolinea le emozioni. Il limite di Amos è che non ha abbastanza riserve melodiche per durare lo spazio di dodici canzoni. Gli arrangiamenti di strumenti ad arco non bastano a dare un senso alle melodie più deboli. Ma il disco rivela una "autrice" profonda e raffinata, se non ancora una musicista a titolo pieno.

Under The Pink (Atlantic, 1994) conferma che Amos, nonostante l'immenso talento, non ha ancora trovato la sua vera voce: troppe canzoni sembrano incerte di se stesse, troppi arrangiamenti sembrano quasi improvvisati sul momento (più dal produttore che da lei); troppe liriche rimuginano soltanto il suo passato, concentrate nel dire invece che nel cantare.
L'armonia tesa e folle di God, uno shuffle condotto a ritmo sincopato con stilettate dissonanti della chitarra e accenti slavi del canto; e soprattutto quella solenne e intrepida di Past The Mission, un cadenzato inno per chitarra ska e organo gospel, con un macabro balletto di pianoforte, per quanto in linea con i generi del momento, costituiscono soltanto un aspetto della sua musicalità. Nella ballata country Cornflake Girl (al tempo stesso il brano più "leggero" e più sperimentale della raccolta) la profusione di effetti sonori e le fughe isteriche del pianoforte travolgono le acrobazie del canto e creano un'atmosfera infernale. L'accorato racconto di Space Dog è altrettanto destabilizzato da suoni centrifughi (battito voodoo, chitarra funky, violini romantici). Se gli arrangiamenti movimentano e accentuano le sue confessioni, finiscono anche per renderle impersonali.
Amos è in realtà una compositrice forbita, i cui brani sfoggiano una misura quasi classica (Pretty Good Year), la sofisticazione di Kate Bush (Cloud On My Tongue), la sensibilità della musica new age (Icicle); anche se deturpate, violate, violentate dall'iperrealismo della vita vissuta. E forse la vera Amos è quella che trova la forza di abbandonarsi alla soffusione delle ninnananne (Bells For Her, per bisbiglio e carillon di pianoforte), e le sue doti musicali trapelano forse meglio dall'affabulazione prodigiosa di The Wrong Band, che innesta una melodia complessa su una figura da musichall del pianoforte.
Il gran finale di Yes Anastasia (nove minuti) indulge in un'altalena di umori, contrassegnata da impennate orchestrali, si perde del tutto la magia del suo canto.
La vera voce dei suoi dischi è il pianoforte, che da anni non godeva di una parte tanto importante nella musica folk. Album di transizione, dimostra che Amos è una compositrice completa, e non soltanto una ragazza che canta la sua vita interiore.

Boys For Pele (Atlantic, 1996) esagera però forse su entrambi i fronti, intimismo ed eclettismo. La varietà stilistica sembra un po' forzata (tant'è che a svettare sono soprattutto le ballate pianistiche più semplici, come la lunga Horses, che comincia con vagiti appena bisbigliati e continua con un carillon colmo di nostalgia, e la conclusiva Twinkle, due pezzi non lontani dalla musica new age) e le confessioni personali, nell'arco di ben diciotto canzoni, finiscono per tediare un po' (alla fin fine si capisce soltanto che ce l'ha con l'ex ragazzo).
Sul fronte dell'eclettismo Amos ha scoperto il clavicembalo (più un madrigale rinascimentale che una fuga barocca l'elegante e addolorata Blood Roses) e continua a sperimentare sul pop "modernista" di Peter Gabriel e Kate Bush (Caught In A Lite Sneeze).
Il suo genio musicale è scatenato. Tenta persino di coniare una sua forma di hard-rock con Professional Widow, nella quale figure boogie del clavicembalo e percussioni voodoo incalzano maniacali finché la cantante intona un gospel per solo pianoforte (e muggito di toro). Sembra di riascoltare il Cat Stevens più ritmato.
L'incalzante Talula incrocia un rock and roll alla Bruce Springsteen, una toccata di clavicembalo, un rap sgolato alla Hope Nicholls, un singhiozzo funky di chitarra e un battito techno.
Mr Zebra è un breve sketch di musichall con tanto di sezione di fiati. In The Springtime Of His Voodoo è un altrettanto bizzarra incursione nel rhythm and blues e nello swing (pianoforte e contrabbasso), con tracce di gospel (organo e tamburelli), di musica classica (clavicembalo) e di musiche etniche (le cornamuse suonate a mo' di didjeridu).
Alla fine però gli arrangiamenti le riescono meglio quando sono centellinati e fanno perno sulla sua recitazione vocale: Father Lucifer, altra ballata pianistica, verte sul dialogo fra il falsetto della voce protagonista e il controcanto di se stessa bambina (sembra un duetto fra Joni Mitchell e Kate Bush), appena colorato da sporadici interventi di tromba e chitarra. Pianoforte, chitarre e basso pennellano Doughnut Song, nella quale a un certo punto Amos canta contemporaneamente tre voci e nella quale si fondono le sue ispirazioni soul, jazz e celtiche.
Accentuando gli arrangiamenti orchestrali (con risultati un po' kitsch in melodie peraltro tenere e intimiste come Marianne e Putting the Damage On), Amos perde invece qualcosa del suo lirismo, anche se guadagna in forza drammatica.
L'album è soltanto troppo lungo (quattro o cinque canzoni potevano essere omesse) e qualche momento sembra soltanto un capriccio personale della cantante che vuole dimostrare quant'è brava.

From The Choirgirl Hotel (Atlantic, 1998) esce dopo che in tutte le interviste Amos ha pubblicizzato il suo aborto. Ma i temi dei suoi album contano molto meno della sua maturazione come compositrice. Nel 1998 Amos ha scoperto il fascino del rock'n'roll e il comfort della "electronica". Armata di una sezione ritmica di tutto rispetto e di una foga che la fa sembrare più Bruce Springsteen che Kate Bush, Amos si lancia in tour de force nervosi prima ancora che musicali. Ciò nonostante il disco trabocca di momenti di intenso pathos, di melodie intensamente melodiose, di quelle progressioni improvvise che aprono il cuore, di quelle tenere e dimesse lullaby che s'inalberano in epici canti di dolore. I suoi gorgheggi sono sempre più in secondo piano rispetto alle magistrali orchestrazioni di queste romanze da camera.
Ancora una volta a vincere è comunque lo stile relativamente spartano e guidato dal pianoforte di Spark, una storia tenebrosa che soltanto Amos sa rendere in maniera al tempo stesso così solenne e sconsolata (e togliere il fiato con un'impennata pianistica alla Cat Stevens); di Black-Dove, in cui fonde il folk fiabesco di Mike Oldfield e quello onirico di Kate Bush (nonché gli scatti ritmici del primo e i folli acuti della seconda); di Jackie's Strength, in cui il canto si abbandona liricamente al flusso delle emozioni per essere travolto da una violenta folata di violini. Fondamentalmente si tratta ancora della sua vecchia forma di ballata per voce e pianoforte, ma la tensione psicologica (nonché la melodiosità) è accentuata da arrangiamenti classicheggianti.
L'altra Amos, la compositrice forbita di studio, si pavoneggia nell'incubo incalzante di Raspberry Swirl e nel lungo trip-hop di Liquid Diamonds. Forse un po' troppo elaborate, Iieee e Hotel, disperdono l'emozione in una miriade di dettagli sonori. Il disco si chiude con due composizioni sottotono, notturne, amaramente dimesse, come Playboy Mommy e Pandora's Aquarium, in cui Amos ritorna al suo stile pianistico ma senza l'enfasi orchestrale. Non è comunque meno efficace: più angosciante il melodramma, più miracoloso l'equilibrio che Amos riesce a costruire fra parole, canto e accompagnamento.
Forse anche perché è più compatto e selettivo, questo è l'album meglio equilibrato della sua carriera.

To Venus And Back (Atlantic, 1999) is a double album which contains a new studio album and a live album. Amos' voice and piano are becoming mere ornaments, as electronics and session men (often sounding like the Led Zeppelin fronted by Kate Bush) take over the arrangement's leading roles. Amos is disappearing in an abstraction of Tori Amos' music and lyrics. We witness the apparent paradox of Tori Amos' very personal songs Bliss (yet another autobiographical melodrama) and Juarez (which attemps to revive the ghastly atmosphere of Me And A Gun) becoming so coldly impersonal and even detached. The fact is that the music's artificial soundscapes do not match the thorny subjects but rather refer to a joyful disco night. It is not surprising that one feels Tori Amos and her music being decoupled, the former becoming a mere title for the latter or, equivalently, the latter becoming a mere stereotype for the former. Notable exceptions are Josephine (a Cowboy Junkies-like spare, mournful dirge) and 1,000 Oceans (an old-fashioned piano ballad which is also one of the album's most tender moments).

Compared with the other great female songwriter of the 1990s, Lisa Germano, Tori Amos lacks her visceral sincerity and her genial knack for modest arrangements, although, overall, Amos is more of a "musician" and certainly more of a star.

(Translation by/Tradotto da Walter Consonni)

To Venus And Back (Atlantic, 1999) è un doppio album che contiene un nuovo disco di studio e un album registrato dal vivo. La voce ed il pianoforte di Amos diventano semplici abbellimenti, mentre l'elettronica ed i session men (che spesso suonano come i Led Zeppelin guidati da Kate Bush) prendono il sopravvento sugli arrangiamenti. Amos scompare in un'idea astratta di musica e liriche di Tori Amos. L'ascoltatore è testimone dell'apparente paradosso di canzoni molto personali di Tori Amos come Bliss (ancora un melodramma autobiografico) e Juarez (che tenta di far rivivere la spaventosa atmosfera di Me And A Gun) che diventano completamente impersonali ed addirittura distaccate. Il problema è che gli artificiali paesaggi musicali non si accordano con gli spinosi argomenti trattati ma rimandano piuttosto ad una spensierata nottata in discoteca. Non sorprende che si possano percepire Tori Amos e la sua musica come dissociate, la prima che diventa una semplice intestazione per la seconda o, in maniera analoga, la seconda che diventa un mero cliché per la prima. Eccezioni degne di nota sono Josephine (un canto funebre triste ed essenziale alla maniera dei Cowboy Junkies) e 1,000 Oceans (una ballata pianistica vecchio stile che è anche uno dei momenti più teneri dell'album).

Rispetto all'altra grande cantautrice femminile degli anni '90, Lisa Germano, a Tori Amos manca la stessa viscerale sincerità e lo stesso genio per l'arrangiamento modesto, ma complessivamente Amos è più musicista, e certamente più personaggio.

Strange Little Girls (Atlantic, 2001) is a collection of twelve covers. And bad ones.

(Translation by/Tradotto da Davide Carrozza)

Strange Little Girls (Atlantic, 2001) è una raccolta di 12 covers. Pessime.

Amos failed to revitalize her art with Scarlet's Walk (Epic, 2002), despite the obvious effort she put into this personal and historical recollection. Few of the 17 songs deserved to be released, although those who did can make Bob Dylan jealous, particularly A Sorta Fairytale, the bleak Taxi Ride, the catchy Your Cloud. The album's mythological journey, which is simultaneously an inner journey, was inspired by the terrorist attacks of September 11 (I Can't See New York) and by the American landscape (both human and geographic), but achieve a universal poignancy. Amos' parable of the American loss of innocence, of the new Babylonia, doomed to repeat the sins of the ancestral one, is too fragile and insecure to be credible.

The Beekeeper (Epic, 2005) is a concept album inspired by six gardens. It is cohesive but too plain, lacking the spark that makes the difference between competent and memorable. It sounds accessible not because she "sold out" but because the songs lack any depth. They sound like half-baked demos that she quickly packaged into finished songs, without taking the time to develop them the way she normally does. Thus the sense of "average", and, ultimately, irrelevance. She seems to have lost her ability to write great songs. All that is left is her ability to write songs that sound like Amos songs. Parasol is reminiscent of Crucify, The Power Of Orange Knickers is reminiscent of the atmosphere on Under The Pink. Most of the rest is fluff.

(Translation by/Tradotto da Walter Romano)

La Amos non riuscì a rivitalizzare la sua arte con Scarlet's Walk (2002), a dispetto dello sforzo che profuse in questa raccolta storica e personale. Poche delle 17 canzoni meritavano di essere pubblicate, anche se i pezzi validi potrebbero far ingelosire Bob Dylan, particolarmente A Sorta Fairytale, la desolata Taxi Ride, l’orecchiabile Your Cloud. Il viaggio mitologico dell’album, che è contemporaneamente un viaggio introspettivo, fu ispirato dall’attacco terroristico dell’11 settembre (I Can't See New York) e dal paesaggio (umano e geografico) americano, ma il risultato è di una tristezza totale. La parabola della perdita di coscienza americana, della nuova Babilonia, destinata a ripeterne il peccato, è troppo fragile per essere credibile.

The Beekeeper (2005) è un concept ispirato a sei giardini. È coeso ma troppo "facile", manca quella scintilla che fa la differenza tra un lavoro sufficiente e uno memorabile. Risulta accessibile non perché voglia essere un album commerciale, ma perché le canzoni mancano di profondità. Sembrano semplici demo imballati dalla Amos in tutta fretta per completare l’album, non prendendosi il tempo necessario per sviluppare le canzoni, come era solita fare. Da qui il senso di mediocrità, e, dunque, inconsistenza. L’artista sembra aver perso la capacità di scrivere grandi canzoni. Canzoni "alla Amos" tout court. Parasol ricorda Crucify, The Power Of Orange Knickers rievoca l’atmosfera di Under The Pink. Gran parte del resto è riempitivo.

The same problems that plagued The Beekeeper return to plague American Doll Posse (Sony, 2007), another batch of mediocre songs with quite a bit of filler. Amos even ventures into politics, a really bad idea. There is little left of the magical melodies of her first albums.

Abnormally Attracted to Sin (Universal, 2009) continued Tori Amos' mediocre cruise through the calm sea of nostalgy. Other than a couple of trite recapitulations of her career (Tough Guy, Maybe California), the collection is mostly a parade of senile background muzak. One is almost relieved when she shuts up at the end of endless closer Lady in Blue. One wonders how desperate an artist must be financially, to put out embarrassing albums like this that mostly ruin the memory of much better albums.

Midwinter Graces (Universal, 2009) contained only five originals.

The concept album Night of Hunters (Deutsche Grammophon, 2011) was born from an unusual meeting of pop and classical music: Amos picked compositions by classical composers and created songs that are variations on those compositions (with chamber arrangements by John Philip Shenale); the lyrics, in turn, make up a mythological narrative. The experiment probably only works in Cactus Practice, demonstrating one more time how little pop stars have in common with chamber music.

(Translation by/Tradotto da Giulia Quaranta)

Gli stessi problemi che affliggevano The Beekeper ritornano ad affliggere American Doll Posse (Sony, 2007), un'altra manciata di canzoni mediocri, con un bel po' di riempitivi. La Amos si addentra nella politica e la cosa si rivela una pessima idea. Ben poco è rimasto delle melodie magiche dei primi album.

In Abnormally Attracted to Sin (Universal, 2009) la cantante continua a navigare mediocremente sul mare sereno della nostalgia. Oltre a un paio di banali ricapitolazioni della sua carriera (Tough Guy, Maybe California), la collezione è per lo più una sfilata di musicaccia senile da sottofondo. Si arriva a sentirsi quasi sollevati quando la Amos si zittisce verso la fine di Lady in Blue. Ci si chiede quanto un'artista possa essere economicamente disperata per far uscire dischi imbarazzanti come questo, che rovinano il ricordo di altri suoi lavori di gran lunga migliori.

Midwinter Graces (Universal, 2009), contiene soltanto cinque pezzi originali.

Il concept album Night of Hunters (Deutsche Grammophon, 2011), nasce dall'insolito incontro tra pop e musica classica: la Amos ha selezionato composizioni di musicisti classici e ha creato canzoni che sono delle variazioni sulle composizioni stesse (con gli arrangiamenti da camera di John Philip Shenale): i testi, a loro volta, costituiscono un ciclo narrativo di natura mitologica. Probabilmente l'esperimento funziona solo in Cactus Practice, dimostrando ancora una volta come le piccole pop star abbiano poco in comune con la musica da camera.

Gold Dust (2012) offers re-workings of older songs in a setting of orchestral classical music, including the Christmas song Star of Wonder (aka We Three Kings of Orient Are). Pretentious and often ridiculous.

Perhaps the classical experience benefited Unrepentant Geraldines (2014), her most poignant album in years. The rhythm-less piano-led songs include the slow Wild Way, the midtempo Weatherman, the folk-ish Unrepentant Geraldines, and especially the dramatic Oysters. Rhythm doesn't hurt the lovely Renaissance madrigal America, and (discreet) electronics doesn't ruin the graceful neosoul ballad 16 Shades Of Blue. The breezy country shuffle Trouble's Lament is a pleasant surprise in the Nashville style, but the drum loops that show up in too many places are the exact opposite of a classical orchestra and drag down half of the album.

Native Invader (2017), her most coherent and melodic album in perhaps twenty years, is a collection of midtempo ruminations, starting with the gloomy seven-minute Kate Bush-ian fantasia Reindeer King and peaking with the stately hymn-like Climb, that boasts one of her most memorable refrains. A more regular backing of electric guitar and drums ruins Wildwood, whereas ticking drums and a jangling guitar propel the elegant Bats. Arabic strings and percussion meld surprisingly well with a drum-machine in the speedy Up The Creek, reminiscent of Stan Ridgway. The tender and elaborate Bang is another melodic highlight. The solo piano Mary Jane blends classical music, cabaret and blues in a Randy Newman-esque manner. By fusing all the experiences of her career, from the singer-songwriter and pianist of the classical rock tradition to the orchestral arranger arranger and the folk bard, Amos has reached a new maturity, and it doesn't hurt that she also seems gifted with a stronger melodic talent. Bats, Mary's Eyes

(Translation by/ Tradotto da Edoardo Ferrara)

Gold Dust (2012) offre una rielaborazione di vecchie canzoni in un’impostazione da musica classica orchestrale, inclusa la canzone natalizia Star of Wonder (alias We Three Kings of Orient Are). Pretenzioso e spesso ridicolo.

Probabilmente l’esperienza classica giovò ad Unrepentant Geraldines (2014), il suo album più struggente da anni. Tra le canzoni al pianoforte e senza ritmo vi sono la lenta Wild Way, la midtempo Weatherman, la tendente al folk Unrepentant Geraldines, e specialmente la drammatica Oysters. Il ritmo non nuoce al gradevole madrigale rinascimentale America, e la (seppur discreta) elettronica non rovina l’elegante ballata neosoul 16 Shades of Blue. Il disinvolto shuffle country Trouble’s Lament è una piacevole sorpresa nello stile di Nashville, ma i loop di batteria che emergono in fin troppe occasioni sono l’esatto opposto di un’orchestra classica ed infangano metà dell’album.

Native Invader (2017), il suo album più coerente e melodico dopo circa vent’anni, è una collezione di meditazioni midtempo, a partire dalla cupa Reindeer King, una fantasia di sette minuti nello stile di Kate Bush, fino a raggiungere l’apice col maestoso inno Climb, che vanta uno dei suoi ritornelli più memorabili. Un più semplice accompagnamento di chitarra elettrica e batteria rovina Wildwood, mentre delle ticchettanti percussioni e una tintinnante chitarra sospingono l’elegante Bats. Archi orientali e percussioni si fondono sorprendentemente bene con una batteria elettronica nell’incalzante Up the Creek, rievocativa di Stan Ridgway. La tenera ed elaborata Bangs rappresenta un altro momento melodico importante. Nel convergere tutte le esperienze della sua carriera, dalla cantautrice e pianista della classica tradizione rock all’arrangiatrice d’orchestra e poetessa folk, la Amos ha raggiunto una nuova maturità, e non nuoce che adesso sembri dotata di un più spiccato talento melodico.

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