Robin Holcomb is a unique case of a classical musician who is also a
contributor to a jazz music ensemble, an admirer of folk music, and
(willingly or not) a close relative of the singer-songwriters of the 1970s.
Robin Holcomb, composer, pianist and singer, is married to avantgarde jazz
musician Wayne Horvitz. Together they conducted the New York
Composers' Orchestra. Holcomb composed the entire material for the Orchestra's
Todos Santos (Sound Aspects, 1988).
Her first solo was Larks They Crazy (Sound Aspects, 1989), that
employed Doug Wiselman (clarinet, sax), Marty Ehrlich (clarinet, sax),
David Hofstra (bass and tuba), Bob Previte (drums) and, of course,
Wayne Horvitz (keyboards and sampler).
This supergroup of the New York avantgarde is best heard in the
sprightly improvisations of New and March.
However, Holcomb's personality is better represented
by the moving ode for piano, tuba, clarinet and saxophone of Dixie,
by the tuneful, elegiac sax theme of The Natural World,
and by the epically late-night noir of Thirds.
Unfortunately, Holcomb sings only once, in
Larks They Crazy, a velvety and surreal lied set in a spare
soundscape that evokes post-Webern classical music.
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Robin Holcomb e` un caso piu` unico che raro di musicista classica,
collaboratrice di un musicista jazz, ammiratrice della tradizione folk,
e (volente o nolente) affine ai singer-songwriter degli anni '70.
Pianista e cantante, Holcomb e` sposata a Wayne Horvitz, uno dei piu`
importanti musicisti
del jazz d'avanguardia di New York. Con lui ha fondato e diretto la New York
Composers' Orchestra. Lei ha composto nel 1988 tutto il materiale del loro album
Todos Santos (Sound Aspects). La sua crescita artistica e` proseguita
su Larks They Crazy (Sound Aspects, 1989).
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Nel frattempo Holcomb scriveva poesie e metteva
in musica la "Tempesta" di Shakespeare. Il ciclo di lieder
"Angels At The Four Corners", presentato nel 1989 (e inedito su disco),
fu la sua prima avventura nel campo canoro: Holcomb, Syd Straw, Peter Blegvad
e Jearlyn Steele-Battle vi impersonano i membri di una famiglia che sono
al centro di una vicenda metaforica, che e` anche parzialmente autobiografica.
Holcomb era nata nel profondo Sud, in Georgia, e aveva trascorso un'infanzia
povera a
lavorare nelle piantagioni della North Carolina. Anni dopo inizio` a studiare
musica all'Universita` di Santa Cruz, in California, e li` conobbe Horvitz.
Negli anni '70 emigrarono a New York e furono anche loro al centro
dell'eclettica "downtown scene" con un complesso intitolato White Noise.
Analogamente,
Robin Holcomb (Elektra, 1990) e` suonato dal marito all'organo
e al synth, da Doug Wieselman al clarinetto e al sax, da Dave Hofstra al basso,
da Danny Frankel alle percussioni e da Bill Frisell alle chitarre; uno dei
complessi d'accompagnamento piu` imponenti della storia del genere.
Il fatto saliente non e` pero` rappresentato dagli arrangiamenti, tanto
spartani quanto delicati, ma dal suo registro di canto. Quello di Holcomb e` un
lamento gelido e malinconico, quasi come quello di Nico, che spesso scivola in
un melisma dimesso e singhiozzante, a meta` strada fra il vocalismo orientale e
gli esperimenti di Meredith Monk. Le sue composizioni sono sempre sostenute da
melodie chiare e precise, che attraversano i territori di Cohen, Weill e
Joni Mitchell. Per effetto di quest'arte vocale al tempo
stesso umile e aristocratica e degli arrangiamenti surreali, la musica
talvolta ha una qualita` cerimoniale e talaltra sembra la colonna sonora di
una mente duramente provata.
La sensazione viene acuita dal suo pianismo, un ibrido di Erik Satie e Cecil
Taylor che e` al tempo stesso soave, ipnotico e tenue, e dalle liriche, che
evocano un flusso di coscienza criptico e misterioso.
Buona parte dei brani del disco sono affidati a quelle che sono sostanzialmente
filastrocche per bambini, ma raffinate fino a diventare astrazioni concettuali.
Il ritornello piu` orecchiabile, che continua a vorticare su se stesso,
lento e ineffabile, avvolto in riverberi onirici di tastiere elettroniche e in
rimbombi di cadenze da fantasma, e` quello di Nine Lives. Anche il difficile
costrutto armonico di So Straight And Slow si sviluppa in modo che alla fine
rimanga soltanto una strofa orecchiabile ripetuta come una formula magica.
Il piano ripete la sua aria elementare come un carillon in The American Rhine,
e costituisce l'infrastruttura su cui si innesta un clarinetto incantatore e
una cadenza da carovana nel deserto, conferendo al tutto un sapore orientale.
Ancor piu` elaborato e degenerato e` il tema di Hand Me Down All Stories,
ridotto a un elemento ciclico, celestiale, ipnotico che spezza il ritmo funky.
Sono tutte melodie dolcissime, cantate da una voce fluida e impassibile,
immerse in un contesto irreale, sospinte da ritmi melliflui,
contrappuntate da eventi surreali,
che escono da un subconscio collettivo senza eta`, millenario, comune a tutti
dalla piu` tenera infanzia in poi.
Le "radici" di Holcomb vengono alla luce in canzoni degne della Band come
Troy,
con tanto di organo gospel alla Richard Manuel, nella marziale ballata folk
Yr Mother Called Them Farmhouses, e in un tributo a Monk, il
bebop notturno di This Poem Is In Memory Of.
L'album ha pochi rivali negli annali del canto d'autore femminile.
Rockabye (Elektra, 1992),
con un altro combo di accompagnatori dello stesso "giro", non
riesce pero` a ripetere lo stesso miracolo.
Holcomb smarrisce soprattutto l'atmosfera di mistero, che era il sottofondo di
tutte le storie del primo album. Tanto il canto quanto il pianoforte sono piu`
vivaci e aggressivi, le melodie meno immediate. I pezzi forte sono Help A Man,
a meta` fra i bozzetti soul-rock della Band e le scenette primitiviste
di Meredith Monk, la title-track, una cantilena country a passo di valzer,
When Was The Last Time, il brano piu` elettrico e cadenzato della sua
carriera, la vibrante e intensa Primavera, con un effetto onirico d'organo,
e soprattutto il dolente gospel-jazz di The Natural World, che chiude
l'opera su una nota di quieta angoscia.
E` un album di canzoni piu` convenzionali, con armonie soul, jazz, blues,
folk a renderle intelligenti e interessanti, e certamente permane la perfetta
fusione fra il suo canto e i suoi testi.
Attraverso due soli dischi Holcomb ha gia` imposto uno stile classico, nonche'
costruito un universo magico, che riflette il mondo reale ma con la
semplificazione di sentimenti che e` tipica delle favole.
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Little Three (Nonesuch, 1996) is an album of mostly solo piano vignettes:
Wherein Lies the Good, Processional, The Graveyard Song,
Tiny Sisters, The Impulse, Little Three, The Window.
The Big Time (Nonesuch, 2002) features Bill Frisell on guitar, besides
Wayne Horvitz on organ.
The lyrical Like I Care (Kate and Anna McGarrigle on backup vocals)
is the emotional centerpiece, but
her sensitive persona and her arranger's skills are more effectively displayed
in the dramatic, solemn Pretend, the emphatic, martial
You Look So Much Better (worthy of Warren Zevon),
and the eerie I Want To Tell The Story (a whisper lost in a forest of
ghostly sounds), three of her greatest songs.
She can't resist the postmodernist temptation to revisit genres and styles,
from the sprightly folk rigmarole A Lazy Farmer Boy (with Danny Barnes on banjo and Eyvind Kang on viola)
to the six-minute blues Engine 143,
from the Broadway-ish pop tune I Tried To Believe (with a brass section and marching-band rhythm)
to the tapping rhythm'n'blues interludes of Tell The Good Friend On Your Left (with horn section),
but fundamentally the musical scores are rarely relevant.
What is missing is a coherent concept and maybe some flight of imagination.
Holcomb and her sextet (her piano, two guitars, organ, bass and drums)
are impeccable in delivering states of mind via subtle
counterpoint, but their performance often smells of "routine".
Holcomb seems to have composed an album around her lyrics, but perhaps
forgetting that, by definition, lyrics are not enough to justify a song.
Her somewhat shrill voice does not help either.
Solos (Songlines, 2005) is a collaboration with Wayne Horvitz. The title
is due to the fact that each piece is a solo piano composition, alternatively
by one or the other.
John Brown's Body J (Tzadik, 2006) featured
Eyvind Kang on viola,
Dave Carter on trumpet and
Melissa Coleman on cello.
The core pieces were instrumentals.
One featured a female string quartet.
However, it also included some of Holcomb's new songs, notably Pretty Ozu.
The Point of It All (Jewl) (september 2009), featuring Horvitz, guitarist Ron Samworth, Bill Clark (trumpet, flugelhorn), Peggy Lee (cello) and Dylan van der Schyff (drums), was mostly instrumental and improvised.
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(Translation by/ Tradotto da xxx)
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