Robin Holcomb
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Larks They Crazy , 6/10
Robin Holcomb , 8/10
Rockabye , 7/10
Little Three , 6/10
The Big Time , 6/10
John Brown's Body J (2006)
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Robin Holcomb is a unique case of a classical musician who is also a contributor to a jazz music ensemble, an admirer of folk music, and (willingly or not) a close relative of the singer-songwriters of the 1970s.

Robin Holcomb, composer, pianist and singer, is married to avantgarde jazz musician Wayne Horvitz. Together they conducted the New York Composers' Orchestra. Holcomb composed the entire material for the Orchestra's Todos Santos (Sound Aspects, 1988).

Her first solo was Larks They Crazy (Sound Aspects, 1989), that employed Doug Wiselman (clarinet, sax), Marty Ehrlich (clarinet, sax), David Hofstra (bass and tuba), Bob Previte (drums) and, of course, Wayne Horvitz (keyboards and sampler). This supergroup of the New York avantgarde is best heard in the sprightly improvisations of New and March. However, Holcomb's personality is better represented by the moving ode for piano, tuba, clarinet and saxophone of Dixie, by the tuneful, elegiac sax theme of The Natural World, and by the epically late-night noir of Thirds.
Unfortunately, Holcomb sings only once, in Larks They Crazy, a velvety and surreal lied set in a spare soundscape that evokes post-Webern classical music.

Robin Holcomb e` un caso piu` unico che raro di musicista classica, collaboratrice di un musicista jazz, ammiratrice della tradizione folk, e (volente o nolente) affine ai singer-songwriter degli anni '70.

Pianista e cantante, Holcomb e` sposata a Wayne Horvitz, uno dei piu` importanti musicisti del jazz d'avanguardia di New York. Con lui ha fondato e diretto la New York Composers' Orchestra. Lei ha composto nel 1988 tutto il materiale del loro album Todos Santos (Sound Aspects). La sua crescita artistica e` proseguita su Larks They Crazy (Sound Aspects, 1989).

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Nel frattempo Holcomb scriveva poesie e metteva in musica la "Tempesta" di Shakespeare. Il ciclo di lieder "Angels At The Four Corners", presentato nel 1989 (e inedito su disco), fu la sua prima avventura nel campo canoro: Holcomb, Syd Straw, Peter Blegvad e Jearlyn Steele-Battle vi impersonano i membri di una famiglia che sono al centro di una vicenda metaforica, che e` anche parzialmente autobiografica.

Holcomb era nata nel profondo Sud, in Georgia, e aveva trascorso un'infanzia povera a lavorare nelle piantagioni della North Carolina. Anni dopo inizio` a studiare musica all'Universita` di Santa Cruz, in California, e li` conobbe Horvitz. Negli anni '70 emigrarono a New York e furono anche loro al centro dell'eclettica "downtown scene" con un complesso intitolato White Noise.

Analogamente, Robin Holcomb (Elektra, 1990) e` suonato dal marito all'organo e al synth, da Doug Wieselman al clarinetto e al sax, da Dave Hofstra al basso, da Danny Frankel alle percussioni e da Bill Frisell alle chitarre; uno dei complessi d'accompagnamento piu` imponenti della storia del genere.
Il fatto saliente non e` pero` rappresentato dagli arrangiamenti, tanto spartani quanto delicati, ma dal suo registro di canto. Quello di Holcomb e` un lamento gelido e malinconico, quasi come quello di Nico, che spesso scivola in un melisma dimesso e singhiozzante, a meta` strada fra il vocalismo orientale e gli esperimenti di Meredith Monk. Le sue composizioni sono sempre sostenute da melodie chiare e precise, che attraversano i territori di Cohen, Weill e Joni Mitchell. Per effetto di quest'arte vocale al tempo stesso umile e aristocratica e degli arrangiamenti surreali, la musica talvolta ha una qualita` cerimoniale e talaltra sembra la colonna sonora di una mente duramente provata. La sensazione viene acuita dal suo pianismo, un ibrido di Erik Satie e Cecil Taylor che e` al tempo stesso soave, ipnotico e tenue, e dalle liriche, che evocano un flusso di coscienza criptico e misterioso.
Buona parte dei brani del disco sono affidati a quelle che sono sostanzialmente filastrocche per bambini, ma raffinate fino a diventare astrazioni concettuali. Il ritornello piu` orecchiabile, che continua a vorticare su se stesso, lento e ineffabile, avvolto in riverberi onirici di tastiere elettroniche e in rimbombi di cadenze da fantasma, e` quello di Nine Lives. Anche il difficile costrutto armonico di So Straight And Slow si sviluppa in modo che alla fine rimanga soltanto una strofa orecchiabile ripetuta come una formula magica.
Il piano ripete la sua aria elementare come un carillon in The American Rhine, e costituisce l'infrastruttura su cui si innesta un clarinetto incantatore e una cadenza da carovana nel deserto, conferendo al tutto un sapore orientale.
Ancor piu` elaborato e degenerato e` il tema di Hand Me Down All Stories, ridotto a un elemento ciclico, celestiale, ipnotico che spezza il ritmo funky.

Sono tutte melodie dolcissime, cantate da una voce fluida e impassibile, immerse in un contesto irreale, sospinte da ritmi melliflui, contrappuntate da eventi surreali, che escono da un subconscio collettivo senza eta`, millenario, comune a tutti dalla piu` tenera infanzia in poi.
Le "radici" di Holcomb vengono alla luce in canzoni degne della Band come Troy, con tanto di organo gospel alla Richard Manuel, nella marziale ballata folk Yr Mother Called Them Farmhouses, e in un tributo a Monk, il bebop notturno di This Poem Is In Memory Of.
L'album ha pochi rivali negli annali del canto d'autore femminile.

Rockabye (Elektra, 1992), con un altro combo di accompagnatori dello stesso "giro", non riesce pero` a ripetere lo stesso miracolo. Holcomb smarrisce soprattutto l'atmosfera di mistero, che era il sottofondo di tutte le storie del primo album. Tanto il canto quanto il pianoforte sono piu` vivaci e aggressivi, le melodie meno immediate. I pezzi forte sono Help A Man, a meta` fra i bozzetti soul-rock della Band e le scenette primitiviste di Meredith Monk, la title-track, una cantilena country a passo di valzer, When Was The Last Time, il brano piu` elettrico e cadenzato della sua carriera, la vibrante e intensa Primavera, con un effetto onirico d'organo, e soprattutto il dolente gospel-jazz di The Natural World, che chiude l'opera su una nota di quieta angoscia. E` un album di canzoni piu` convenzionali, con armonie soul, jazz, blues, folk a renderle intelligenti e interessanti, e certamente permane la perfetta fusione fra il suo canto e i suoi testi.

Attraverso due soli dischi Holcomb ha gia` imposto uno stile classico, nonche' costruito un universo magico, che riflette il mondo reale ma con la semplificazione di sentimenti che e` tipica delle favole.

Little Three (Nonesuch, 1996) is an album of mostly solo piano vignettes: Wherein Lies the Good, Processional, The Graveyard Song, Tiny Sisters, The Impulse, Little Three, The Window.

The Big Time (Nonesuch, 2002) features Bill Frisell on guitar, besides Wayne Horvitz on organ. The lyrical Like I Care (Kate and Anna McGarrigle on backup vocals) is the emotional centerpiece, but her sensitive persona and her arranger's skills are more effectively displayed in the dramatic, solemn Pretend, the emphatic, martial You Look So Much Better (worthy of Warren Zevon), and the eerie I Want To Tell The Story (a whisper lost in a forest of ghostly sounds), three of her greatest songs.
She can't resist the postmodernist temptation to revisit genres and styles, from the sprightly folk rigmarole A Lazy Farmer Boy (with Danny Barnes on banjo and Eyvind Kang on viola) to the six-minute blues Engine 143, from the Broadway-ish pop tune I Tried To Believe (with a brass section and marching-band rhythm) to the tapping rhythm'n'blues interludes of Tell The Good Friend On Your Left (with horn section), but fundamentally the musical scores are rarely relevant.
What is missing is a coherent concept and maybe some flight of imagination. Holcomb and her sextet (her piano, two guitars, organ, bass and drums) are impeccable in delivering states of mind via subtle counterpoint, but their performance often smells of "routine". Holcomb seems to have composed an album around her lyrics, but perhaps forgetting that, by definition, lyrics are not enough to justify a song. Her somewhat shrill voice does not help either.

Solos (Songlines, 2005) is a collaboration with Wayne Horvitz. The title is due to the fact that each piece is a solo piano composition, alternatively by one or the other.

John Brown's Body J (Tzadik, 2006) featured Eyvind Kang on viola, Dave Carter on trumpet and Melissa Coleman on cello. The core pieces were instrumentals. One featured a female string quartet. However, it also included some of Holcomb's new songs, notably Pretty Ozu.

The Point of It All (Jewl) (september 2009), featuring Horvitz, guitarist Ron Samworth, Bill Clark (trumpet, flugelhorn), Peggy Lee (cello) and Dylan van der Schyff (drums), was mostly instrumental and improvised.

(Translation by/ Tradotto da xxx)

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