- Dalla pagina su Robin Holcomb di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)
Robin Holcomb (1954) è un caso unico di musicista classica che collaborava anche con un ensemble di musica jazz, ammiratrice della musica folk e (volente o nolente) parente stretta dei cantautori anni '70.
Robin Holcomb, compositrice, pianista e cantante, è sposata con il musicista jazz d'avanguardia Wayne Horvitz.
Insieme hanno diretto la New York Composers' Orchestra.
Holcomb ha scritto l'intero materiale di Todos Santos(Sound Aspects, 1988), dell'Orchestra.
Il suo primo album solista fu Larks They Crazy (Sound Aspects, 1989), che impiegava Doug Wiselman (clarinetto, sax), Marty Ehrlich (clarinetto, sax), David Hofstra (basso e tuba), Bob Previte (batteria) e, ovviamente, Wayne Horvitz (tastiere e campionatore).
Questo supergruppo dell'avanguardia newyorkese si sentiva meglio nelle allegre improvvisazioni di New e March. Tuttavia, la personalità di Holcomb è meglio rappresentata dall'ode commovente per pianoforte, tuba, clarinetto e sassofono di Dixie, dal tema melodioso ed elegiaco del sax di The Natural World e dall'epico noir notturno di Thirds.
Sfortunatamente, Holcomb canta soltanto una volta, in Larks They Crazy, un lied vellutato e surreale ambientato in un paesaggio sonoro scarno che evoca la musica classica post-Webern.
Nel frattempo Holcomb scriveva poesie e metteva in musica la "Tempesta" di Shakespeare. Il ciclo di lieder "Angels At The Four Corners", presentato nel 1989 (e inedito su disco), fu la sua prima avventura nel campo canoro: Holcomb, Syd Straw, Peter Blegvad e Jearlyn Steele-Battle vi impersonano i membri di una famiglia che sono al centro di una vicenda metaforica, che è anche parzialmente autobiografica.
Holcomb era nata nel profondo Sud, in Georgia, e aveva trascorso un'infanzia povera a lavorare nelle piantagioni della North Carolina. Anni dopo iniziò a studiare musica all'Università di Santa Cruz, in California, e lì conobbe Wayne Horvitz. Negli anni '70 emigrarono a New York e furono anche loro al centro dell'eclettica "downtown scene" con un complesso intitolato White Noise.
Analogamente,
Robin Holcomb (Elektra, 1990) è suonato dal marito all'organo
e al synth, da Doug Wieselman al clarinetto e al sax, da Dave Hofstra al basso,
da Danny Frankel alle percussioni e da Bill Frisell alle chitarre; uno dei
complessi d'accompagnamento più imponenti della storia del genere.
Il fatto saliente non è però rappresentato dagli arrangiamenti, tanto
spartani quanto delicati, ma dal suo registro di canto. Quello di Holcomb è un
lamento gelido e malinconico, quasi come quello di Nico, che spesso scivola in
un melisma dimesso e singhiozzante, a metà strada fra il vocalismo orientale e
gli esperimenti di Meredith Monk. Le sue composizioni sono sempre sostenute da
melodie chiare e precise, che attraversano i territori di Cohen, Weill e
Joni Mitchell. Per effetto di quest'arte vocale al tempo
stesso umile e aristocratica e degli arrangiamenti surreali, la musica
talvolta ha una qualità cerimoniale e talaltra sembra la colonna sonora di
una mente duramente provata.
La sensazione viene acuita dal suo pianismo, un ibrido di Erik Satie e Cecil
Taylor che è al tempo stesso soave, ipnotico e tenue, e dalle liriche, che
evocano un flusso di coscienza criptico e misterioso.
Buona parte dei brani del disco sono affidati a quelle che sono sostanzialmente
filastrocche per bambini, ma raffinate fino a diventare astrazioni concettuali.
Il ritornello più orecchiabile, che continua a vorticare su se stesso,
lento e ineffabile, avvolto in riverberi onirici di tastiere elettroniche e in
rimbombi di cadenze da fantasma, è quello di Nine Lives. Anche il difficile
costrutto armonico di So Straight And Slow si sviluppa in modo che alla fine
rimanga soltanto una strofa orecchiabile ripetuta come una formula magica.
Il piano ripete la sua aria elementare come un carillon in The American Rhine,
e costituisce l'infrastruttura su cui si innesta un clarinetto incantatore e
una cadenza da carovana nel deserto, conferendo al tutto un sapore orientale.
Ancor più elaborato e degenerato è il tema di Hand Me Down All Stories,
ridotto a un elemento ciclico, celestiale, ipnotico che spezza il ritmo funky.
Sono tutte melodie dolcissime, cantate da una voce fluida e impassibile,
immerse in un contesto irreale, sospinte da ritmi melliflui,
contrappuntate da eventi surreali,
che escono da un subconscio collettivo senza età, millenario, comune a tutti
dalla più tenera infanzia in poi.
Le "radici" di Holcomb vengono alla luce in canzoni degne della Band come
Troy,
con tanto di organo gospel alla Richard Manuel, nella marziale ballata folk
Yr Mother Called Them Farmhouses, e in un tributo a Monk, il
bebop notturno di This Poem Is In Memory Of.
L'album ha pochi rivali negli annali del canto d'autore femminile.
Rockabye (Elektra, 1992), con un altro combo di accompagnatori dello stesso "giro", non riesce però a ripetere lo stesso miracolo. Holcomb smarrisce soprattutto l'atmosfera di mistero, che era il sottofondo di tutte le storie del primo album. Tanto il canto quanto il pianoforte sono più vivaci e aggressivi, le melodie meno immediate. I pezzi forte sono Help A Man, a metà fra i bozzetti soul-rock della Band e le scenette primitiviste di Meredith Monk, la title-track, una cantilena country a passo di valzer, When Was The Last Time, il brano più elettrico e cadenzato della sua carriera, la vibrante e intensa Primavera, con un effetto onirico d'organo, e soprattutto il dolente gospel-jazz di The Natural World, che chiude l'opera su una nota di quieta angoscia. è un album di canzoni più convenzionali, con armonie soul, jazz, blues, folk a renderle intelligenti e interessanti, e certamente permane la perfetta fusione fra il suo canto e i suoi testi.
Attraverso due soli dischi Holcomb ha già imposto uno stile classico, nonchè costruito un universo magico, che riflette il mondo reale ma con la semplificazione di sentimenti che è tipica delle favole.
Little Three (Nonesuch, 1996) è un album composto principalmente da vignette per pianoforte solo: Wherein Lies the Good, Processional, The Graveyard Song , Tiny Sisters, The Impulse, Little Three, The Window.
The Big Time (Nonesuch, 2002) presenta Bill Frisell alla chitarra, oltre che Wayne Horvitz all'organo. La lirica Like I Care (Kate e Anna McGarrigle alle cori) è il fulcro emotivo, ma la sua personalità sensibile e le sue abilità di arrangiatore vengono mostrate in modo più efficace nella drammatica e solenne Pretend, nell'enfatica e marziale You Look So Much Better (degna di Warren Zevon), e nell'inquietante I Want To Tell The Story (un sussurro perso in una foresta di suoni spettrali), tre delle sue più grandi canzoni.
Non riesce a resistere alla tentazione postmodernista di rivisitare generi e stili, dalla vivace tiritera folk A Lazy Farmer Boy (con Danny Barnes al banjo e Eyvind Kang alla viola) ai sei minuti blues di Engine 143, dal brano pop in stile Broadway I Tried To Believe (con una sezione di ottoni e un ritmo da banda musicale) agli interludi rhythm'n'blues toccanti di Tell The Good Friend On Your Left (con sezione di fiati), ma fondamentalmente le partiture musicali sono raramente rilevanti.
Ciò che manca è un concetto coerente e forse anche un po' di immaginazione. Holcomb e il suo sestetto (piano, due chitarre, organo, basso e batteria) sono impeccabili nel trasmettere stati d'animo attraverso sottili contrappunti, ma la loro performance spesso profuma di "routine". Holcomb sembra aver composto un album attorno ai suoi testi, forse dimenticando che, per definizione, i testi non bastano a giustificare una canzone. Anche la sua voce un po' stridula non aiuta.
Solos (Songlines, 2005) è una collaborazione con Wayne Horvitz. Il titolo è dovuto al fatto che ogni brano è una composizione per pianoforte solo, alternativamente dell'uno o dell'altro.
Body J (Tzadik, 2006), di John Brown, comprendeva Eyvind Kang alla viola, Dave Carter alla tromba e Melissa Coleman al violoncello. I pezzi principali erano strumentali. One presentava un quartetto d'archi femminile. Tuttavia includeva anche alcune delle nuove canzoni di Holcomb, in particolare Pretty Ozu.
The Point of It All (Jewl) (settembre 2009), con Wayne Horvitz, il chitarrista Ron Samworth, Bill Clark (tromba, flicorno), Peggy Lee (violoncello) e Dylan van der Schyff (batteria) ), era per lo più un lavoro strumentale e improvvisato.
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