Summary.
Los Angeles' band Idaho, i.e. singer Jeff Martin and guitarist John Berry, were both the most existential and the most psychedelic. Year After Year (1993) was a set of suicidal psalms imbued with documentary lyrics and recited in a pensive tone halfway between Leonard Cohen and Lou Reed. Martin's indolent pessimism reached new heights of sweetness on This Way Out (1994).
If English is your first language and you could translate my old Italian text, please contact me.
Scroll down for recent reviews in english.
|
Duo di Brentwood, nell'entroterra di Los Angeles, Jeff Martin (cantante dal
tetro tenore alla Leonard Cohen) e John Berry (chitarrista e batterista,
figlio di un attore di Hollywood, ripetutamente incarcerato per droga)
eseguono un rock eroinomane, tenue, diradato e desolato, che prende
ispirazione da Codeine e Seam.
Le canzoni dei loro Idaho sono ectoplasmi esaminati al microscopio e al
ralenti`;
sono imbevute di uno spleen esistenziale acuto e incurabile. Si conoscono da
dodici anni, ma hanno seguito strade diverse prima di decidere che la musica
dell'uno e la vita dell'altro si potevano sposare a meraviglia. Soltanto nel
1993 i due trentenni pubblicano il primo 45 giri, Skyscrape (Ringers Lactate),
una ninnananna angelica che si dipana lentamente, come una crisalide che esca
assonnata dal bozzolo. Altri gioielli del loro repertorio vengono messi in
circolazione dall'EP The Palms (Quigley, 1993),
in particolare Creep, che immerge
la sua lipemania in una tempesta di feedback, e You Are There, ballata
notturna e solitaria come neppure Tom Waits ne ha mai fatte.
L'album Year After Year (Quigley, 1993), destinato a rimanere il
loro capolavoro, e`
caratterizzato da
testi iper-realisti che fotografano scene di tutti i giorni, apparentemente
di nessun interesse, in realta' metafore per la disperata alienazione nella
metropoli. I salmi degli Idaho, propulsi da accordi che sono lividi, da ritmi
che sono bubboni, incorrono in continue allucinazioni (Gone, gli ultimi
momenti di un morente), soffocano in claustrofobie timbriche (The Only Road),
lambiscono depressioni suicide (Sundown), precipitano
in abissi di assoluta anemia (God's Green Earth).
Gli ultimi cinque minuti della lunga End Game sono di puro silenzio.
Sono odi alla marginalita' sociale, e non a caso talvolta (Memorial Day)
si situano al confine con le elegie piu' sommesse di Lou Reed.
Non esiste redenzione in questo mondo di sole sconfitte, ma una qualche forma
di serenita' o rassegnazione viene adombrata in Save.
Martin e Berry sono poeti dell'effimero, delle chimere, della dissolvenza,
del vuoto, del nulla, del riflesso di un fantasma nella nebbia dell'aurora.
La loro musica, compressa fra "gloom" e "doom", fra Neil Young e Nick Drake,
non esiste.
Essendo Berry ricaduto nel vecchio vizio, il singolo Fuel e l'album
This Way Out (Quigley, 1994), sono di fatto opere soliste di Martin.
Martin ha imparato a maneggiare i ritmi piu' veloci. Il suo pessimismo indolente
si esprime adesso altrettanto bene in Drop Off e Glow. Le meste trenodie di
Drive It e Crawling Out ne fanno anzi un Lou Reed piu' autunnale.
Il suo veicolo preferito rimane comunque la nenia lentissima cantata con la
dolcezza annebbiata di drogato. Il ralenti' esasperato di Taken e Forever,
il sound narcotico e onirico di Weird Wood, e' pertanto il vero cuore del
disco, laddove si scopre una non troppo lontana parentela con Tim Buckley.
Le armonie piu' suggestive si trovano pero' nel delicato flusso di accordi di
quel valzer assonnato che e' Sweep e nello strumentale per sole distorsioni
cosmiche Zabo, che trasuda infinita malinconia.
Escono anche
l'EP The Bayonet (Fingerpaint, 1995)
e il singolo Pomegranate Bleeding.
Al terzo disco, Three Sheets To The Wind (Caroline, 1996),
gli Idaho diventano finalmente un complesso. Martin ha
infatti assoldato tre musicisti fissi e concede loro spazio.
Forse anche per questa ragione, o forse perche' Martin tenta di liberarsi
dalle pastoie del "sadcore" che ha creato,
il sound e` un po' meno torpido del solito,
persino grunge in Catapult e Pomegranate Bleeding.
Le canzoni sono anche piu` centrate. Invece di vagare in maniera piu` o meno
casuale attorno al baricentro melodico, le armonie conservano una ragionata
polifonia e uno svolgimento coerente. Con If You Dare la voce fumosa di Jeff
Martin tenta la millesima imitazione di Nick Drake.
La romanza per pianoforte di Alive Again lo propone in vesti piu` serie e
meno lamentose. Shame mostra in quale gloria vanno a finire i salmi: la
ballad disimpegnata, lievemente jazz.
La canzone convenzionale non e` proprio il suo forte, comunque: qualunque
complesso di rock alternativo puo` fare di meglio in questo campo.
Martin ha bisogno di prendere la rincorsa, di distendersi con calma.
La sua autentica vocazione e` la trenoda di cinque/sei minuti, tono
disincantato, rintocchi scordati e passo narcotico: Stare At The Sky o
No Ones Watching o A Sound Awake. Il problema e` che questi brani sono
monocordi e non si fanno ricordare.
L'album mostra tutti i limiti (come cantante, come chitarrista, come
compositore e come arrangiatore) del personaggio.
Lodevole lo sforzo di
promuovere le sue cantilene funeree a canzoni. C'e` un programma di
riabilitazione e reintegrazione che si nasconde dietro le musiche e le
liriche di questo disco. Se lo sfondo ideologico e` ancora quello della
desolazione dei valori morali nell'urbe post-AIDS, il tono non e` piu`
quello della decadenza irrefutabile e irreversibile, ma quello del rammarico
di un adolescente che ha passato l'estate a guardare dalla finestra gli amici
divertirsi sulla spiaggia.
L'EP The Forbidden (Buzz, 1997 - Talitres, 2008) cambia drasticamente corso, puntando
sulla
melodia e sul ritmo come mai prima
(Bass Crawl, uno dei loro classici, e Golden Seal).
L'album Alas (Buzz, 1999) riparte
da li`, semplicemente curando in maniera piu` professionale l'arrangiamento,
fino a lambire una sorta di musica da camera psichedelica (persino il fagotto
su Only In The Desert e il violino in Jump Up).
Ballad emotive come Yesterday's Unwinding e Leaves Upon The Water
rendono piu` ascoltabile il loro tetro lamento.
Stipati in una nicchia a meta` strada fra i
cantautori pessimisti di vent'anni fa (Nick Drake, Tim Buckley) e i rocker
dimessi e domestici della Nuova Zelanda (Clean, Church), gli Idaho sembrano
destinati a rappresentare l'antitesi del folk-rock spensierato che un tempo
allietava i ragazzi di Los Angeles. Con loro si conclude, insomma, una parabola
storica, che ha progressivamente annientato l'ottimismo degli anni '60.
Non c'e` vita in queste canzoni, soltanto un ricordo mesto e sfocato di
gesti e movimenti.
Con Smog e altri cantautori per piccolo ensemble, Martin appartiene al
movimento dei neo-depressi, che si riallaccia a Tim Buckley e Nick Drake
via gli American Music Club.
|