Dalla pagina sugli Space Needle di Piero Scaruffi
Gli Space Needle nacquero nel Rhode Island per opera di Jud Ehrbar (batterista degli Scarce) e Jeff Gatland (chitarre). Privo di bassista, il duo si affidava interamente alle tastiere e alle percussioni di Ehrbar.
Al momento di registrare Voyager (Zero Hour, 1995), Ehrbar si ricordo` di
un ex compagno di liceo che viveva ora a Portland, all'altro capo della
nazione, Anders Parker, titolare dei Varnaline
e lo arruolo` come secondo chitarrista.
Ehrbar e Parker decisero di unirsi ciascuno al complesso dell'altro.
Ehrbar e` pertanto il batterista dei Varnaline e Parker il chitarrista degli
Space Needle, nel frattempo trasferitisi a New York.
Preceduto dal singolo Sun Doesn't Love Me (Zero Hour, 1995) e seguito da
Panic Delaney (Zero Hour, 1996),
Voyager (Zero Hour, 1995) dei Space Needle e` profondamente
sperimentale. In superficie sembra semplicemente un altro album di rock
amatoriale. Andando piu` a fondo, si scopre pero` che ogni canzone vanta
una logica perversa e pessimista.
I primi brani, Eyes To The World (il tornado di percussioni,
l'organo minimalista) e Dreams (bisbiglio onirico, scansioni industriali),
fanno in effetti pensare soprattutto al progressive-rock di matrice newyorkese
degli anni '80, quello alimentato dai vari Fred Frith e Chris Cutler.
La componente psichedelica cresce pero` vertiginosamente nelle canzoni dalle
melodie piu` regolari, tanto Beers In Heaven, con il suo pigro strimpellio
in stile Luna, quanto Before I Lose My Style, con la sua lentissima
progressione e il verso ripetuto come in un mantra.
Gli strumentali acuiscono questo effetto mistico, prima con la trance quasi raga
di Put It On The Glass (per soli tintinni di chitarre), poi con il
boogie chitarristico alla Velvet Underground in ciclico crescendo di
Patrick Ewing.
Tutto e` amatoriale, provvisorio, improvvisato, infedele. Ma si tratta soltanto
del mezzo, non del fine. Un mezzo che ricorda gli antesignani del bricolage
elettronico in campo rock, il primitivismo tecnologico dei Silver Apples, come
testimoniano gli sgraziatissimi accordi di tastiere (peraltro d'intensita`
quasi religiosa) di quel baccanale/nonsense che e` Starry Eyes.
E a loro e` infatti idealmente dedicata la suite conclusiva, i tredici
abominevoli minuti di Scientific Mapp, dalla titanica apertura per carica
di sintetizzatori super-distorti alla tempesta percussiva sorvolata a bassa
quota da terrificanti glissando hendrixiani, fino al gran finale cosmico/
liturgico per organo gospel; roba da far impallidire tanto Gordon Mumma quanto
Klaus Schulze.
The Moray Eels Eat The Space Needle (Zero Hour, 1997),
il secondo e ultimo album dei Space Needle (si sono sciolti subito dopo
la sua pubblicazione),
si apre alla grande con i tredici minuti strumentali
di Where The Fucks My
Wallet, nella miglior tradizione del progressive-rock
(improvvisazioni jazzate alla King Crimson, dissonanze chitarristiche
alla Fred Frith, irregolarita` ritmiche alla Henry Cow).
Ancor piu` sperimentale e` il secondo dei tre lunghi brani strumentali,
Hyapatia Lee, un concerto di distorsioni lisergiche che parafrasano
il salmodiare mediorientale e le suite psicologiche dei Pink Floyd, piu` una
fuga spaziale alla Hawkwind.
L'ultima escrezione, Bladewash, rappresenta un ulteriore passo in
avanti, ed e` anzi un pezzo quasi ambientale nella maniera dei
Seefeel
(texture chitarristiche in lento movimento).
La breve Hot For Krishna intona un bolero per violino che ricorda
Hot Tuna e It's A Beautiful Day.
Le canzoni oscillano fra il pop catatonico di Never Lonely Alone e il
mantra di feedback e bisbigli di Flowers For Algernon,
fra una ballata soul-jazz come Love Left Us Strangers e un incubo
shoegazing come More Than Goodnight, fra il blues-rock coperto di
rumore di Old Spice e la marziale One Kind Of Lullaby che
chiude il disco.
La differenza fra piece strumentali e brani cantati e` quasi schizofrenica:
tanto complessi e dissonanti i primi, quanto semplici e gentili i secondi.
Il disco e`, se possibile, ancor piu` criptico e introverso del precedente.
Jud Ehrbar è anche la mente dietro Reservoir (Zero Hour, 1996), un lavoro di musica ambient elettronica per sintetizzatore e drum machine. La fantasia melodica di nove minuti Moonstar è insolita, poiché Ehrbar oscilla tra pezzi d'atmosfera alla Brian Eno, come Tributary e Geneva, e paesaggi sonori industriali come Hoover e Gate 21.
Il secondo album dei Reservoir, Pink Machine (Zero Hour, 1997), cambia completamente tavolozza, dall'elettronica al pop lo-fi (Go Back, Weight of The World).
Recordings 1994-97 (Eenie Meenie, 2006) è una retrospettiva della carriera degli Space Needle, durata effettivamente un triennio.