Banco de Gaia
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Medium , 6/10
Freedom Flutes And Fading Tibetans , 6/10
Deep Live , 5/10
Maya , 6.5/10
Last Train To Lhasa , 7/10
Live At Glastonbury , 5/10
Big Men Cry , 6/10
The Magical Sound Of , 6/10
Igizeh , 6/10
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If English is your first language and you could translate my old Italian text, please contact me. L'inglese Toby Marks, che si maschera dietro il nome di battaglia Banco De Gaia, apprese il mestiere nell'ambiente dei rave degli anni '80. Le sue prime composizioni elettroniche comparvero su due cassette, Medium (World Bank, 1991) e Freedom Flutes And Fading Tibetans (World Bank, 1991). Il singolo Desert Wind (Planet Dog) apri` la fase maggiore, mentre il Deep Live (World Bank, 1992) rappresenta l'estremo saluto alla stagione dei rave.

L'album doppio Maya (Planet Dog, 1994 - Mammoth, 1995), ispirato ad antichi miti indù e propulso da ritmi etnici di tutto il mondo, segno` la maturazione di Marks come compositore e arrangiatore. Gran parte dei brani sono soltanto varianti sulla musica da ballo, che in qualche caso (Gamelan) usano il tribalismo in chiave ipnotica, ma per lo piu` cincischiano con loop e campionamenti. Il gorgheggio femminile diffratto sulla frenetica pulsazione di Heliopolis e` tutto cio` che riescono a inventare. L'album s'impenna di colpo quando affiora un tema melodico (Qurna e Lai Lah), quando il ritmo passa in secondo piano rispetto alla polverina di effetti sonori (Shanti) e nell'effervescente minimalismo della title-track.

Il sound si fa più ambientale e meno etnico sul successivo, monumentale, Last Train To Lhasa (Planet Dog, 1995). La world-music e` spesso soltanto un pretesto per allestire balletti techno, e molti brani vivono di espedienti dejavù. Ma Marks dimostra anche un'arguta capacita` di sovrapporre diverse identita` sonore.
La title-track (undici minuti) e` costruita attorno al ritmo della locomotiva campionamenta all'inizio, insieme a voci confuse e coro gregoriano. Dopo il tema un po' minimalista e un po' folk suonato dalla chitarra in un timbro cristallino, come piace a Mike Oldfield, finalmente sputano i poliritmi intossicanti da discoteca, collocati su uno sfondo altamente scenografico, fra languide frasi elettroniche di sottofondo e gorgheggi etnici. Una breve pausa lancia una fase di frenetiche e fitte percussioni tribali che ripetono all'infinito lo stesso ritmo in maniera ipnotica. Alla fine le melodie etniche riemergono per pochi secondi, subito sopraffatte dalle melodie elettroniche.
Un senso di mistero pervade invece 887 (quattordici minuti), la suspense creata dalla testarda ripetitivita` dei sequencer, l'angoscia acuita da rumori intergalattici e gorgheggi alieni. L'armonia si sfalda in un mare tenebroso di dissonanze, in un incubo di voci distorte, ed e` allora che i poliritmi si sollevano imponenti.
Una spirito leggiadro e aereo prevale invece nel minimalismo esasperato di Kincajou, un febbrile loop di percussioni, campionamenti ed elettronica.
Fra i bozzetti esotici si distingue Kuos, aperto da una melodia di cornamuse, ma subito trasformata in un rituale orgiastico dalle percussioni ebbre, che impongono sincopato ritmo africano, e dai campionamenti delle voci che vengono fatte "danzare" a quel ritmo. China fonde esotismo hippie e sequencer "cosmici" alla Tangerine Dream. E Marks e` anche troppo bravo a scodellare spunti impeccabili di world-music da salotto come Amber.

Il secondo disco contiene gli sterminati remix di due brani. Kuos diventa cosi` un ebbro fiume di percussioni, e Kincajou (oltre mezz'ora) una dilatazione spazio-temporale di tutti i temi del disco.

Tutti i brani sono certosinamente studiati a tavolino e certosinamente realizzati in studio. Sono piccoli poemi sinfonici, ma esprimono eleganza, persino calligrafia, piu` che vero genio.

Dopo il Live At Glastonbury (Planet Dog, 1996), una registrazione estremamente auto-indulgente, esce il nuovo album di studio, Big Men Cry (Planet Dog, 1997). Il suo obiettivo e` palesemente quello di divertire, e possibilmente in discoteca, anche se la sua personalita` di filosofo lo porta a dare sempre un tocco esistenziale alle sue composizioni. Drippy e` cosi` un balletto gioviale e ballabile, ma il crescendo di coro e voci campionate gli conferisce una forte dimensione mistica ed etnica. Drunk As A Monk (dieci minuti) ha il piglio delle rincorse cosmiche dei Tangerine Dream, ma e` aperto da un coro demoniaco e da fuochi artificiali e si libra poco a poco in un'aria maestosa da cerimoniale regale.
L'effetto e` suggestivo, in quanto i puzzle di Marks si fanno anzi ancor piu` indecifrabili.
Big Men Cry e Starstation Earth (undici minuti) sembrano invece ripartire dalla fantasia folk e minimalista di Mike Oldfield, e forse annunciano uno stile ancor piu` leggero. Perso per perso, affascina maggiormente la jam jazzata di Celestine (dodici minuti), con il suo tema romantico di sassofono, che sembra voler coniare un genere sofisticato di ballata strumentale.
Marks si fa perdonare le sbandate commerciali con One Billion Miles Out (undici minuti), un concerto per rumori inquietanti e cori d'oltretomba.
Abbandonate le velleita` antropologiche, Marks ha messo a frutto le sue doti di produttore alla moda per un disco di puro intrattenimento.

Toby Marks e` uno degli artigiani che, muniti di macchine elettroniche e di collezione di dischi, hanno inventato la sinfonia transglobale, la lunga fantasia strumentale che pullula di eventi sonori e si ispira alle culture di tutto il mondo.

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Marks' electronic afro-ragas are increasingly sophisticated on The Magical Sound Of (Six Degrees, 1999). Multifaced suites like Harvey And The Old Ones and Touching The Void have a way of shifting focus, style and tempo that lends them a cold, intellectual, studio-centered quality, not unlike the progressive-rock suites of thirty years before. Marks' psychedelic and exotic dance music is ultimately a studio trick, and pointing towards commercial sell out (No Rain, Glove Puppet). Live exhibitions prove that his trance, once removed from the arrangements, is trivial.

Marks traveled to Egypt to record Igizeh (Six Degrees, 2000), an album that employs chants, voices and instruments of that land. Seti I, Creme Egg and Drippy drift at the border of tribal and ambient. Obsidian is a catchy techno locomotive (with vocals from a female singer, a first for Marks). Gizah is drenched into samples and features a romantic oboe solo. Fake It Till You Make It sinks in an organ vortex. The trip-hopping Glove Puppet soars with Jennifer Folker's epic crooning. How Much Reality Can You Take is sitar-driven world-music. Overall, the album is inconsistent. Marks tries new avenues, but does not strike as revolutionary. What is impressive is the "architectural" skills, the way he creates lively dynamics out of sonic dead ends, the way simple ideas develop into a kaleidoscope of sounds.

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