- Dalla pagina sui Dodos di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)
Il cantautore Meric Long (studente di percuissionismo africano e finger-picking blues) di San Francisco ha debuttato con l’EP solista Dodo Bird (2007).
I Dodos, il nuovo moniker del progetto di Long assieme al
batterista Logan Kroeber, registrano Beware Of The Maniacs
(2006), una collezione di umili canzoncine di folk acustico. La voce su
Chickens intona un lamento blues ma la chitarra richiama le
trame intricate di Leo Kottke.
Diversi brani sfoggiano la stessa qualità domestica
(Bob) o sono persino elegie più semplici
(Beards). Per quanto sincere e personali possano essere, il
genio di Long sboccia altrove. Gli studi africani rendono
Neighbors, la spassosa novelty Horny
Hippies e soprattutto la virulenta, psichedelica The
Ball. Una certa destrezza negli arrangiamenti contorti aiuta un
delicato trombone a introdursi nel sussurro nevrotico di
Nerds, dando vita ad una ballata obliqua e aiuta
archi e cembali a cullare la cantilena di Elves. L’iniziale
Trades & Tariffs azzarda un cantato eccentrico, un passo
virulento e un altro assolo di chitarra à la Kottke. Men
compendia il disco con una sintesi delle due tendenze opposte di Long: un ritmo
effervescente e una melodia pop.
Per quanto troppo scheletrico per esprimere a pieno le idee del musicista,
l’album rileva il talento melodico di Long e il suo “orecchio” per i ritmi
eterodossi.
Il duo Meric Long/ Logan Kroeber ridefinisce il roots-rock nell’era del
post-rock su Visiter (Frenchkiss, 2008).
Le canzoni percorrono la gamma dai semplici motivi di folk lo-fi (Walking, Park Song,
Ashley) alla stornellate ubriaca con trombone da banda
marciante (It’s That Time Again), dal post-bluegrass (la
spastica, febbricitante corsa di sei minuti di Paint the
Rust, degna degli Holy Modal Rounders) fino a un pop relativamente lineare
(Winter, un’aria melodiosa, nonostante l’accompagnamento
bizzarramente esotico di ukulele, tamtam e trombe, e
Undeclared, con le armonie vocali più orecchiabili).
Le migliori idee del duo sono riservate ai ritmi, come nell’improvvisa
frenesia da batucada di Red And Purple, la follemente
giubilante Fools, e nelle correnti e controcorrenti surreali
di The Season.
Jodi sembra fondere tutti questi aspetti in una
memorabile escursione stilistica, una ninnananna disarmante martirizzata in una
maniacale locomotiva percussiva che riesce a fondere sovratoni blues e pop, nel
modo in cui
Kevin Ayers o
Animal Collective avrebbero fatto al picco dei rispettivi
scriteriati periodi creativi.
I Dodos pervengono a terreni metafisici nel pezzo centrale di sette minuti,
Joe's Waltz, che inizialmente è un canto spaesato che fa
affidamento su poco più che rade percussioni semi-tribali e note discordi di
piano ma poi bruscamente infiamma in un rave-up blueseggiante da garage, e
nella magica chiusura di God? (ancora sette minuti), un
altro ibrido stilistico che miscela influenze indiane, nativo-americane e
irlandesi in una sorta di jig, pow-wow e raga nello stesso tempo.
Il duo sembra sempre fermarsi quando raggiunge l’orlo dell’abisso, per paura
di volare (stilisticamente parlando). Le canzoni migliori contengono un certo
grado di verve e caos, ma né l’una né l’altro escono fuori controllo.
La lunghezza dei brani attesta la varietà dell’album: si spazia dal meno di
un minuto di durata ai più di sette. Difficilmente si trovano due brani di cui
si può dire che si somigliano. Raramente una musica tanto introspettiva ha
fruttato un così ampio spettro di idee musicali.
Time To Die (Frenchkiss, 2009), che aggiunge il vibrafonista elettronico Keaton Snyder alla line-up, è molto meno originale, nonostante gli arrangiamenti più professionali che contornano Small Deaths, Fables e Troll Nacht. La durata delle canzoni dice molto dello sforzo di omogeneizzare la musica: stavolta si aggirano tutte dai cinque ai sei minuti.
No Color (Wichita, 2011) ha evitato i difetti dell'album precedente ma non è riuscito comunque a riconquistare la magia di Visiter. Black Night, che evocava le arie e gli arrangiamenti folli di Kevin Ayers, e la disinvolta canzoncina folk-pop Sleep rappresentava il meglio che il duo avesse da dare. Going Under, d'altra parte, ha cercato troppo di conciliare assieme melodia e strumenti, esponendo così una collisione fondamentale tra melodia e ritmo. Una versione cubista del Merseybeat vintage come Good e una revisione nevrotica del canone Kinks-iano come Hunting Season sono intriganti ma piuttosto fredde. Il contrasto è meglio assimilato e sfruttato dalla romantica When Will You Go, che si diverte a un ritmo di trotto irregolare, e dal meccanismo sincopato di Don't Stop.
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