- Dalla pagina sui Cleric di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)
Il quartetto di Philadelphia Cleric (Nick Shellenberger alla voce e alle tastiere, James Lynch al basso e al theremin, Larry Kwartowitz alla batteria, Matt Hollenberg alla chitarra) debuttò con Regressions (Web of Mimicry, 2010), un rivoluzionario album di death-metal che conteneva lunghe composizioni. Allotriophagy (19:23) sfoga istinti feroci finché un’improvvisa implosione conduce in una dimensione di zombie digitali che ballano, riempita con un coro da monaco moribondo, percussioni caotiche e invocazioni sciamaniche; poi, allo stesso modo, un ruvido, agonizzante attacco di vomito viene annegato in un languente finale fatto di urla, rumore digitale, percussioni che picchiano e rimbombi senza fondo. A Rush Of Blood (10:17) è scosso da un simile, incontrollabile collasso nervoso, che si alterna a momenti di straziante immobilità quasi silenziosa; e man mano che il brano progredisce e continua a innescare un terremoto emozionale e atonale dopo l’altro, gli intermezzi sembrano free-jazz da manicomio.La cacofonia viene rafforzata da un drumming infantile in The Boon (6:22) e l’effetto è quello di renderla persino più propulsiva e demoniaca (anche se stavolta un finale debole guasta l’intera atmosfera). Cumberbund (12:07) si apre con un chiasso ispirato ma viene ripetutamente interrotto giacché continua a inciampare su se stessa e il brano inizia a suonare come un accumulo casuale di rumore devastante, occasionalmente alleviato da momenti di trance catatonica. Questo potrebbe essere il picco emozionale dell’album. Il sentore di free-jazz è ulteriormente rinforzato dal motivo di piano che fa scattare l’eruzione iniziale di Poisonberry Pie (9:54), mentre accenti di prog-rock abbondano nella seconda metà del pezzo. L’album si chiude con l’astratta pièce impressionista The Fiberglass Cheesecake (11:28) che lascia emergere, dopo l’ultimo, polverizzante attacco di grindcore, una semplice, lenta e sognante sonata per pianoforte. Esilarante ed estenuante.
Se il primo album era difficile, Retrocausal (2017), con il nuovo bassista Daniel Kennedy, era impenetrabile, un'eruzione vulcanica di suoni cattivi. Ogni composizione diventa rapidamente un caso di sovraccarico sensoriale, e la maggior parte di esse continua per diversi minuti dopo aver esaurito la capacità mentale dell'ascoltatore. Ogni composizione, e forse ogni singolo minuto di essa, è cosparsa di una quantità enorme di dettagli e deviazioni, con poco o nessun interesse nel creare un flusso musicale coeso. È un'arte che deve più alla scuola di noise-rock dei Jesus Lizard che ai classici del death-metal, ma qui il noise-rock è soprattutto inteso come la distruzione di tutto ciò che può essere distrutto. Per esempio, The Treme (9:39) si apre con urla viscerali abbinate a percussioni jazz e linee di basso, poi è ricoperto da riff di chitarra a mitragliatrice, poi dopo tre minuti fa una pausa, ma al quinto minuto raggiunge l'apice della cacofonia, poi torna di nuovo al jazz, poi al sesto minuto inventa un effetto horror al rallentatore, e al settimo minuto la musica sprofonda in una palude di effetti orchestrali trafitti da strilli simili al violino (Timba Harris), e infine si suicida con un ultimo atto di isteria collettiva. I continui cambiamenti ricordano gli album maturi dei Soft Machine e Henry Cow.
E questa è solo la prima canzone. Se è troppo freddo e cerebrale (lo è), Ifrit (9:58) passa da canto e tastiere magniloquenti a (intorno al minuto 4) scarabocchi free-jazz e poi (minuto 8) a un picco di alienazione, con suoni di pianoforte dissonanti che punteggiano la musica balbettante. Resumption (13:16) impiega metà del tempo a creare tensione, in particolare con la voce, e si allenta solo dopo 8 minuti. Particolarmente stridente e spinoso è The Spiraling Abyss (10:33), che procede con un ritmo lento e cauto, come una dolorosa esplorazione degli angoli più nascosti e oscuri della tua anima, e finisce e ricomincia innumerevoli volte come se mettesse in atto un rituale di sacrificio di sé e di successiva resurrezione. Triskaidekaphobe (11:44), che vanta forse il caos strumentale più denso, è un'altra mortale incursione nella psiche, così dolorosa che dopo cinque minuti sembra non avere la forza di continuare. Se i pezzi lunghi mancano di identità (lo fanno), quelli più brevi la compensano ampiamente, sia con la concentrazione sismica di Lowell (4:42) che con la frenesia distruttiva di Lunger (6:55), o le radiazioni nucleari di Soroboruo (4:20), con il chitarrista Mick Barr dei Krallice, che aggiunge una distorsione aliena alla cacofonia annientante. Grey Lodge (7:33) inizia con tre minuti di follia collettiva, una sorta di danza demoniaca con il sassofono ubriaco di John Zorn, e poi suona come una jam free-jazz di elettronica e sassofono. Gli strumenti fanno la maggior parte del danno, ma il merito va anche a Nick Shellenberger, uno dei più grandi ed emozionanti urlatori del post-metal.
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