- Dalla pagina sui Prolapse di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)
I Prolapse, sestetto inglese di Leicester con due vocalist
(Mick Derrick e Linda Steelyard),
non si confacevano alla vacua scena Brit-pop degli anni '90.
Incarnavano quasi tutto quello che il Brit-pop avrebbe voluto cancellare: nevrosi, tensioni, insicurezza.
Seguendo il rituale britannico,
la loro carriera fu lanciata dagli EP Crate (Cherry Red, 1994),
Pull Thru Barker (Cherry Red, 1994) e Doorstop Rhythmic Bloc (Cher
ry Red, 1994),
tre attacchi al vetriolo contro la pop music,
che ricorrevano a pratiche armoniche abominevoli per demolire i tabù musicali
del momento.
Backsaturday (Lissy's, 1995 - Jetset, 1996) fu persino più intransigente : sette pezzi di spigoloso e corrosivo noise-rock, che non fa molte faville. Dopo l'inizio relativamente rilassato di TCR e dello strumentale Mein Minefield Mine Landmine, i chitarristi Dave Jeffreys e Pat Marsden caricano a pieno ritmo con le loro spastiche imitazioni di Red Krayola e Faust. Flex, incubo morboso della durata di 15 minuti, è il tour de force, ma è Every Night I'm Mentally Crucified a meritare con maggior diritto il ruolo di pezzo "centrale", mentre Zen Nun Deb, con i suoi accenni al dark-punk, potrebbe essere il capolavoro.
Dopo una lunga pausa, i Prolapse pubblicarono The Italian Flag (Jetset, 1998), una raccolta di brani più maturi e raffinati. Il sound è meno aggressivo, più melodico. L'attrazione principale sono sicuramente le armonie vocali, che offrono il contrasto più netto da quando è stata inventata l'armonia uomo/donna. Osservate come la voce eterea di Linda Steelyard duetta con la nevrosi punk di Mick Derrick in Slash Oblique. L'enfasi pseudo-punk di Derrick in stile Clash fa esplodere la square dance di Deanshanger, mentre Steelyard canta innocentemente su un letto di cornamuse. Il culmine narrativo dovrebbe essere Flat Velocity Curve, dove Derrick chiacchiera in tono colloquiale mentre Steelyard canta come un incrocio tra una disco-diva e una regina delle fate, il loro dialogo alimentato da un raga di chitarra trascinante. La sezione ritmica di fondo non è meno inventiva, prendendo in prestito diversi idiomi del blues, del country, del rock and roll e persino della musica etnica. Il ritmo martellante che attraversa tutti i brani smorza lo spettacolo almeno nell'impennata e psichedelica Return Of Shoes.
Nella sua versione più angelica, Steelyard sembra quasi Enya (Cacophony No A); nella sua versione più drammatica, suona come Chrissie Hynde dei Pretenders (Killing The Bland). Il suo contralto puro impreziosisce l'arioso brano alla Belly Autocode, il suo ululato stregonesco trafigge il voodoobilly di A Day At Death Seaside.
La sua crescita è rispecchiata dalla crescita della band nel suo complesso. Ogni canzone si può definire completamente diversa dalle altre. L'unico inconveniente è che nessuna di queste composizioni, così creative, si eleva come capolavoro compiuto.
Il carisma di Steelyard prevale totalmente su Ghosts Of Dead Aeroplanes (Jetset, 1999) e in qualche modo riesce a minimizzare la brutale dissonanza dei lavori precedenti. Essence Of Cessna, Cylinder V12 Beats Cylinder 8 e Government Of Spain non sono certo allegri né esaltanti, ma fluttuano più leggeri rispetto alla cacofonia delle fondamenta.
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