- Dalla pagina su Kendrick Lamar di Piero Scaruffi -
(Testo originale di Piero Scaruffi, editing di Stefano Iardella)
Dopo diversi mixtape, il rapper di Los Angeles Kendrick Lamar (Compton, 1987), alias Kendrick Duckworth, debuttò con l'album dalla modesta produzione Section.80 (2011), che faceva troppo affidamento sulla sua insolita tecnica di esposizione e sui testi moralizzatori. Il brano migliore è forse il cupo e atmosferico A.D.H.D.
L'altamente pubblicizzato Good Kid, M.A.A.D. City (2012), nonostante un cast di produttori che comprende Terrace Martin, Tyler "T-Minus" Williams, Dr Dre, Pharrell Williams (dei Neptunes), Justin "Just Blaze" Smith (inventore dello stile di campionamento “chipmunk soul”) si rivelò essere ancora uno scarso tentativo in termini musicali, facendo pertanto affidamento su una narrazione autobiografica che era sicuramente più colta della media. Abbiamo quindi i generici spleen appassionati di Bitch, Don't Kill My Vibe e Swimming Pools, l'autocelebrativa The Art of Peer Pressure, e il documentario di dodici minuti Sing About Me, I'm Dying of Thirst. Canzoni sensuali e spensierate come Poetic Justice e Backseat Freestyle trascendono il concetto e puntano a un intrattenimento più rilassato, ma solo la magia vocale di Money Trees raggiunge un migliore equilibrio tra i due stili.
La parola “hype” non sarebbe sufficiente per descrivere l'assalto mediatico ai disordinati 80 minuti di To Pimp a Butterfly (2015), un altro disco meticolosamente prodotto che impiega legioni di scrittori, produttori e musicisti (tra cui il pianista jazz Robert Glasper e il sassofonista jazz Kamasi Washington). Wesley's Theory è stata scritta da sei persone, tra cui George Clinton, ed è stata prodotta da quattro, tra cui Flying Lotus. Nove persone rientrano tra gli autori della festa funk King Kunta, rendendola di fatto un collage. I produttori hanno inserito più strumenti dal vivo, risultando in un sound che è più revivalista che innovativo, ma che è anche di aiuto all'atmosfera teatrale dell'album. Nel bene e nel male, The Blacker the Berry è il simbolo di questa musica avant-jazz-rap enfaticamente inutile ma elegante. I inizia come un'antiquata hit synth-pop anni '80 prima di trasformarsi in una specie di parodia di James Brown (con i versi “the number one rapper in the world” e “i love myself”) accentuata da una gioviale melodia al pianoforte. Il miglior psicodramma è forse uno dei brani più semplici, la melodica funk-soul These Walls, e il miglior sermone politico, l'altrettanto diretta canzonetta funk Hood Politics. Ma la musica è secondaria rispetto all'istrionismo e non importa se l'orecchiabile e ballabile Alright sta in opposizione al beat industriale che deraglia Momma, un fatto che può dimostrare, se non altro, una certa dose di ecclettismo. Questo è un album superficiale, e sostanzialmente mediocre, di un artista a cui manca l'energia viscerale di Public Enemy e Tackhead, e che non possiede neanche la profondità poetica di Kanye West e il genio musicale di El-P. Tenta di essere tutti questi allo stesso tempo, ma forse sarebbe stato più credibile se si fosse limitato a essere semplicemente se stesso: un brillante autore di fittizie storie di vita reale: la parabola cristiana How Much a Dollar Cost presenta Dio nelle vesti di un senzatetto, e Mortal Man intervista il fantasma del defunto rapper 2Pac.
Untitled Unmastered (2016) contiene demo e avanzi delle sessioni di To Pimp a Butterfly.
Abbandonate le pretese funk-jazz, Lamar fa marcia indietro verso un pop più diretto e commerciale su Damn (2017), il suo terzo album ad arrivare al numero uno delle classifiche di Billboard. Love e Loyalty (con Rihanna) sono un'imbarazzante muzak sensuale da supermercato. La sonnolenta, corale Fear (prodotta da Alchemist) e la robotica e leggera Element alzano a malapena la temperatura sopra il rigor mortis. D'altra parte, l'apocalittica prima metà a fuoco rapido di XXX (apparentemente una collaborazione con gli U2), l'incisivo e leggermente nevrotico singolo Humble e la frenetica, dissonante seconda metà di DNA (industrial rap?) mettono in scena un po' di vero pathos. Come al solito, i testi sono sempre “usa e getta”, con l'eccezione forse di Duckworth.
Lamar ha anche “curato” la colonna sonora per il film di Ryan Coogler Black Panther (2018), in seguito pubblicata come Black Panther - The Album Music From And Inspired By (2018), che include All the Stars, King's Dead e Pray for Me.
Nel 2018 è diventato il primo rapper a vincere il Premio Pulitzer per la musica.
L'album doppio disco di 73 minuti Mr Morale & the Big Steppers (2022) è una sorta di concept psicologico. Sebbene gran parte dell'opera sia occupata da architetture sonore eleganti ma sterili, come Count Me Out (con un coro di bambini) e Savior (con un coro soul e sincopi a orologeria), ci sono momenti di vero genio, specialmente il cabaret di United in Grief (il momento clou dell'album). L'anti-ballata Auntie Diaries è originale nel modo in cui la voce uccide il potere emotivo dei testi, e Crown mostra una recitazione da zombie su un cupo motivo autunnale di pianoforte. Notevole è anche il kammerspiel di sette minuti Mother I Sober, con un coro di voci che include una triste litania femminile e un rap travolgente. In effetti, Lamar era migliore come interprete teatrale piuttosto che come musicista: una voce sensibile ed emotiva nella commedia caotica e nel dramma dei suoi tempi.
Lamar ha diretto diversi brani “diss” contro il rivale Drake, durante una faida molto pubblicizzata e piuttosto noiosa: Like That, che era una collaborazione con Future e Metro Boomin, Euforia, prodotto da Ronald "Cardo" LaTour e altri, 6:16 in LA, prodotto da Mark "Sounwave" Spears e Jack Antonoff, Meet the Grahams, prodotto da Alchemist, e Not Like Us, prodotto da Dijon "Mustard" McFarlane.
Squabble Up e Not Like Us sono stati i successi di GNX (2024).
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